Fuggire dalla fame, dalla violenza, da un destino bastardo già segnato. Partire per costruirsi un futuro dignitoso. Storie di ieri come cronache di oggi. Cambiano i nomi, il colore della pelle, i moli di partenza, i porti d'arrivo, ma coraggio e paura, ottimismo e malasorte, sono il comune filo rosso di esperienze che si ripetono.
Sicilian Crossing to America and the Derived Communities é il titolo della mostra fotografica da poco inaugurata al porto di Palermo. Allestita nelle grandi sale degli ex depositi di biancheria delle navi Tirrenia, racconta il fenomeno dell’emigrazione siciliana transoceanica che si sviluppa tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Centoventi pannelli ricordano l’epopea straordinaria di milioni di uomini e donne definiti dagli americani “non palesemente negri”: fotografie in bianco e nero di ragazzini in braghe corte; immagini sbiadite di donne che sembrano bagagli viventi, ingolfate negli abiti indossati a strati per timore che venissero rubati nella stiva; documenti, guide e opuscoli; passaporti di colore rosso che segnalano lo status di emigrante; biglietti d’imbarco di terza classe, giochi di bordo, volantini per i comizi in difesa di Sacco e Vanzetti. Un ricco corredo di lettere e cartoline a testimoniare la fitta corrispondenza, il legame mai interrotto, tra chi parte e chi resta a casa. Polizze d’assicurazione sulla vita, breviari con le preghiere a San Giuseppe da recitare durante l’interminabile traversata. E ancora, tutto quello che descrive il tratto forse più caratteristico del flusso migratorio siciliano: le Mutual Aid Society, le Società di Mutuo Soccorso, che ebbero denominazioni e forme di aggregazione assai diversificate. Il sodalizio più prestigioso e forte fu quello creato a New York, e a San Francisco, ma anche in New Jersey, in Australia e in Canada. Ecco esposte le fascinose foto delle cerimonie importanti, le biografie di personaggi di spicco, i distintivi, le medaglie e gli elenchi dei soci.
Circa nove milioni di emigranti, nel periodo tra il 1880 e il 1915, salpano dai porti della Sicilia in cerca di futuro. Il lungo viaggio, il mare grosso, i debiti contratti non li scoraggiano. Sognano la “Merica”. Il continente al di là dell’Atlantico si apre all'immigrazione, ha bisogno di popolare il suo vastissimo territorio con braccia forti e sane. Un momento storico che rappresenta quasi un esodo biblico. Risalire alla storia dell’emigrazione siciliana nel momento in cui la Sicilia è uno dei luoghi europei più attraversati dai migranti provenienti dalle periferie del mondo, può aiutare a capire meglio un fenomeno complesso. Papa Francesco, nella sua recente visita a Lampedusa, ha ricordato, tra l’altro, che siamo tutti migranti. Anche il pontefice viene da lontano, “dalla fine del mondo”. Non ci sono sono immigrati peggiori e migliori. Non c’è stereotipo rinfacciato ai migrantes di oggi che non ci sia stato rinfacciato, un secolo o solo pochi anni fa. Ripercorrere la migrazione attraverso un allestimento museale significa anche rispecchiarsi. Le foto esposte colpiscono per la loro sorprendente somiglianza con tante immagini odierne. Ed è proprio in questa sorta di sospensione temporale, l’attualità di uno studio sul recupero della memoria che può essere importante anche per gli stranieri presenti nel nostro territorio.
Ad accogliere i siciliani dopo il faticoso viaggio di quarantacinque giorni, stipati come bestie, c’era il porto di Ellis Island, con la sua grande statua con la corona: “Maria Santa che bella, è come la Madonna di Porto Salvo – si trova scritto su un diario – ma qui non si chiama Maria, è la Libbirtà”. La Santa America ha le sue regole ed i suoi controlli durissimi: visite mediche che rispediscono a casa gli indesiderati, malati e anarchici. L'umiliazione degli esperimenti di eugenetica, sulla selezione della razza, praticate dalle autorità americane. I nostri emigranti si scontrano con la realtà: un Paese pronto ad offrire nuove opportunità in cambio di sacrifici enormi.
Migrazioni siciliane in America e le comunità derivate è stata realizzata dalla rete dei sette Musei siciliani dell’emigrazione: il Museo Eoliano dell’Emigrazione, il Museo dell’Emigrazione jonica di Savoca, il Museo Etneo dell’Emigrazione di Giarre, il Museo Ibleo dell’Emigrazione, il Museo dell’Emigrazione dell’area del latifondo di Acquaviva Platani e il Museo trapanese dell’Emigrazione di Santa Ninfa. La mostra, presentata per sei mesi negli spazi espositivi di Ellis Island, a New York, dopo avere girato l’intera America, da Boston a Miami, è ora sbarcata a Palermo, come primo evento di un progetto che prelude alla realizzazione del Museo regionale dell’Emigrazione siciliana. In quest’ottica è stato firmato un protocollo d’intesa tra il commissario dell’Autorità Portuale, Antonino Bevilacqua, il rettore dell’Università di Palermo, Roberto Lagalla e il presidente della rete dei Musei Siciliani dell’Emigrazione, Marcello Saija. A quest'ultimo, deus ex machina del progetto, chiediamo di spiegarci le ragioni della partenza.
“Nell’immaginario collettivo, ma anche in alcune analisi storiche datate, le ragioni che spiegano l’emigrazione sono sempre connesse con la crisi economica dei territori da cui la gente parte: la difficoltà di esportare gli agrumi, la crisi delle miniere di zolfo e di pomice, la contrazione di prodotto nelle tonnare e nelle saline, il terremoto di Messina, la crisi della filossera, la mafia, efficacissima nel controllo sociale delle masse contadine. Tutti elementi che danno l’immagine delle condizioni economiche dell’isola a cavallo dei secoli XIX e XX, ma che non bastano a spiegare la grande migrazione. Altre volte infatti, in passato, la Sicilia era stata colpita da profonde depressioni senza che per questo si fossero aperte le frontiere. La stagione migratoria non è dunque solo il frutto di crisi economiche, ma è il risultato di diversi fattori che si intrecciano tra loro, distinguendo tra cause endogene (fuga dal latifondo) e cause esogene (richiesta di lavoro da parte dei mercati edili americani e forte potere attrattivo della partenza)”.
Che peso ha avuto l’American dream?
“L’attrazione per il nuovo mondo, il desiderio di vivere in modo più libero e giusto, é stato determinante. A questo si aggiunge il ruolo degli agenti (più di cinquemila, ufficiali e non), sparsi per tutta l’isola, che vendono passaggi transoceanici per conto delle compagnie di navigazione: vendono un prodotto immateriale che si chiama “sogno americano” da cui ricavano un lauto compenso. Il sistema coinvolge come operatori gente comune: barbieri, levatrici, bottegai, che persino nei villaggi più sperduti, fanno propaganda e reclutano clienti. Il cinema lo ha ben raccontato con Nuovomondo di Emanuele Crialese: questi agenti vendono per 200 lire (circa 8.000 euro) l’idea dell’America che rappresenta un’occasione da cogliere immediatamente. Sono state ritrovate delle guide che descrivono un paese fantastico che li aspetta, dove è possibile fare fortuna velocemente, dove la frutta ha dimensioni enormi e “i fimmini” sono tutte bellissime”.
Si parte in modo differenziato?
“Si. Nella Sicilia occidentale la situazione è quella dei latifondisti, dei gabelloti mafiosi e dei braccianti affamati che partono per primi, in modo emorragico, alla fine dell’800, da Palermo, da Agrigento, dal Nisseno. Nella parte orientale vi è invece la piccola e media proprietà contadina; a Ragusa solo il 7% della superficie disponibile è occupato dal latifondo. Per questa ragione l’emigrazione ragusana che parte dai primi del 900’, raggiunge l'apice intorno alla I guerra mondiale”.
Come è nata l’idea di creare una rete di musei dell’emigrazione?
“Abbiamo ricevuto numerose richieste da tutte le parti della Sicilia e dall’estero. È cresciuta la voglia di appartenenza, d’identità, di legame con la terra madre”.
Qual è il suo sogno?
“Il MEI, Museo nazionale Emigrazione Italiana, che ha sede a Roma, nella prestigiosa e simbolica sede del Vittoriano, nato alla vigilia della commemorazione del 150° anniversario della proclamazione dell’Unità d’Italia, dovrà chiudere i battenti il prossimo dicembre, a causa della mancanza di fondi. L’emigrazione italiana rappresenta una tappa fondamentale nel processo di costruzione dell’italianità. Il 1913 è stato l’anno del maggior picco dell’emigrazione. Il MEI chiuderà proprio nel centenario di quella importante data, alla fine del 2013. Sembra impossibile se si pensa a tutto il denaro speso e ai preziosissimi materiali che custodisce. Il mio sogno ambizioso è che possa essere ospitato proprio a Palermo, che è stato il maggior porto d’imbarco del fenomeno migratorio italiano. Un’occasione da non perdere per la città che si candida a capitale della cultura 2019”.