Alex ha quell’immediatezza comunicativa intuitiva, rapida, che si porta dietro da chissà quanto tempo, forse ha perso il conto anche lui. Snocciola velocemente concetti e ricordi, nulla di scontato. Ci si dimentica di chiamarlo con il suo vero nome, Aldo Perone, perché anche se adesso ha, come si suol dire, appeso il microfono al chiodo, con lo pseudonimo di Alex Peroni è tra coloro che hanno fatto la storia delle radio libere in Italia. Una storia che, inevitabilmente, si intreccia con quella di New York. E comincia a fine anni ’70, poco dopo l’anno zero della nascita di un mondo nuovo per la musica, e per lo stile di vita, che guardava oltreoceano.
Alex approda a Studio 105 quasi per caso, quando era ancora un liceale. Fu chiamato per un incontro dopo una sua telefonata per chiedere un disco. Quel suo modo di essere veloce, sintetico, piacquero quanto la sua voce. E, giovanissimo, rimase a lavorare. “L’America, e New York in particolare, erano un punto di riferimento per tutti noi speaker, conduttori e dj. Era difficile entrare in contatto con questi mondi, realizzare dirette, avere audio, registrazioni. La musica d’oltreoceano che arrivava in Italia non veniva trasmessa da nessuno, pareva quasi di contrabbando”.
E quando nascono le prime radio libere in Italia, la coincidenza è esplosiva: “Accade con l’avvento della disco-music a New York. In Italia prima c’erano locali da ballo con orchestre, raramente musica americana. Tutto parte non tanto da Barry White ma da Donna Summer e dai Village People. Musica che è figlia diretta di quei generi nati proprio a New York”. Era il periodo in cui Nile Rodgers gettava le basi per i successi di Chic e Sisters Sledge. Quello dei Blondie, dei lenti di Billy Joel. Ed è il periodo in cui nascono le prime discoteche: “Il riferimento più importante fu lo Studio 54. In Italia nacquero migliaia di locali, repliche più o meno fedeli dello storico locale di Manhattan, qualcuna ne copiò anche il nome. Una rivoluzione per lo stile di vita dei giovani, un punto di riferimento degli under 35. C’erano emozioni mai provate prima, amori, trasgressioni che in Italia non erano ancora pensabili. La consacrazione è stata la proiezione della Febbre del Sabato Sera, guarda caso girato a New York, per giunta con un protagonista italo-americano. Ci siamo sentiti autorizzati ad essere protagonisti di quel mondo lì”.
E poi? “Le radio italiane hanno cominciato a prendere una serie di contatti con quelle di New York. C’era una sorta di ponte verso l’America, dove nasceva tutto”.
Alex Peroni approda a Manhattan per la prima volta nel 1986. “Ero con Alberto Hazan, l’editore numero 1 delle radio libere in Italia. Era un visionario. Si deve a lui il primo network nazionale, Radio 105. Insieme abbiamo avuto un’illuminazione e dopo pochi anni abbiamo aperto una sede a New York, a qualche isolato da Times Square, da dove trasmettevamo in diretta due ore al giorno in Italia. A inaugurare quello spazio fu Marco Mazzoli, poi sono arrivati altri speaker, non solo dj ma anche giornalisti, che si sono alternati nel tempo. Avevamo lo sguardo su tutte le novità di New York, eravamo nel pieno dell’occhio del ciclone”.
Un filo diretto con l’America anche con gli stessi artisti “Vedi, per tutti gli anni ’80 Radio 105 è stata l’unica radio nazionale privata. Le altre, le competitor, sono arrivate dopo. La promozione delle novità in Italia era inevitabile, ed è ovvio che da noi venivano tutti. Io ero uno dei dj principali, stabilivo la programmazione musicale, conoscevo tutti e tutto quello che ruotava intorno a loro, dai più famosi Stevie Wonder e Madonna ai meno conosciuti. Una sorta di direttore occulto, lo ridivento ufficialmente nel ’99”.
Certo che di cose ne hai da raccontare “Guarda, ho finito un manoscritto, è una ricerca sulla storia delle radio, un manuale”.
In effetti Alex è stato docente all’Università Cattolica di Milano nel Master “Fare Radio”, ruolo che lo ha portato a riflettere su quanto non si sappia di quel mondo “Io non voglio morire senza aver lasciato una verità storica, sono uno dei tre o quattro che ha visto tutto di quel periodo, voglio lasciare un’eredità”.
Hai dato un titolo al tuo manoscritto? “Si. Non trovo più la radio. Perché tutto quello che ha contraddistinto la nascita di un fenomeno non c’è più. Noi andavamo a cercare la musica nel negozio di importazione di dischi, eravamo in pochi a farlo, e i talent scout erano pazzeschi”.
Alex, con la sua voglia di comunicare che non lo abbandona mai, ci anticipa qualche riga di questo suo lavoro sulle radio. E del perché sul suo primo biglietto da visita c’era scritto Alex Peroni – Fantino del disco. “Il nome disc-jockey non ha mai avuto una traduzione chiara, letterale, ci avete mai pensato? Probabilmente no, del resto non è rimasto l’unico termine senza una sua versione in italiano: da check-in a check-up, da selfie a download. Però con quella denominazione gli anglo-sassoni avevano trovato un modo per fotografare un’azione ed il suo spirito, figurando un personaggio un po’ giullare e un po’ mago, capace di creare un ritmo maneggiando degli oggetti rotondi contenenti musica bellissima, la quale aveva il solo limite di terminare all’ultima curva del microsolco. I disc-jockey le davano invece il seguito che tutti speravano, intuendo e facendo suonare altra musica, ideale per non interrompere quel flusso di momenti entusiasmanti ed emozionanti… E poi ancora e ancora.”
E allora il disc jockey “non è il maestro, o il ‘primo della classe’, se mai è lo sciamano. Ed ecco che diventa fondamentale come egli comunica al suo popolo, ecco perché ‘jockey’ e non ‘wizard’ o ‘player’, c’è più il joker delle carte, o il fantino, traduzione letterale di jockey, che non corre, non salta, non suona e non canta, ma sa guidare veloce come nemmeno il cavallo stesso, la musica, saprebbe fare da solo”.
E il racconto prosegue: “Quelli che come me hanno avuto l’immensa fortuna di trovarsi ad avere 18 anni, ma anche 20-25 in Italia, nel momento del big-bang che generò le radio libere, private, commerciali che dir si voglia, ebbero l’opportunità di entrare in un mondo tutto nuovo, inesplorato e istantaneamente affollatissimo, in cui all’improvviso migliaia di coetanei potevano parlare in un microfono e altri milioni non volevano sentire altro. Di noi, alcune decine formarono la prima generazione di futuri professionisti del microfono. Non avevamo predecessori, né maestri. Potevi solo ascoltare di notte Radio Luxembourg (per quell’incredibile miracolo della fisica che permette alle onde radio di viaggiare più lontano in assenza di luce solare) e assimilare almeno i primi rudimenti da veri DJs che diventarono subito i nostri idoli. Come Bob Stewart, Tony Prince, Benny Brown, grandi voci, ritmo perfetto, acume e sintesi. All’inizio li scimmiottavamo tutti, ma appena aprivi bocca tu, ti rendevi conto che con la nostra lingua era tutta un’altra musica.”
Impresa impossibile? No “la magia c’era: dal momento in cui la tua voce arrivava tramite la radio, anche i tuoi amici avevano di te una percezione diversa. Eri tu, ma quel pulpito affilava la tua comunicativa, l’amplificava. o l’annacquava. Fin lì era puro istinto. C’era tutto da imparare, senza un manuale, né un collega esperto a cui chiedere. Si passava tutto il tempo nei locali della radio, poi al bar, per strada fino al mattino, a discutere tra di noi di come risolvere i dubbi e sperimentare soluzioni, su ogni aspetto. Finivi quel passaggio in diretta e chiamavi subito gli altri per raccontarlo, discuterlo, migliorarlo… Niente di più empirico, la teoria sarebbe venuta dopo”. Molto dopo quei momenti magici che anche i radioascoltatori dell’epoca ricordano con un sorriso, ripensando a quando venivano lanciati in radio nuovi ritmi, nuove vibrazioni, nuove emozioni.