Alla fine dell’8oo il filosofo Nietzsche, attraverso il suo personaggio Zarathustra, annuncia al mondo che Dio è morto. È una notizia da prima pagina, il funerale più ardito dell’umanità, che infatti non viene celebrato. Dio è morto, bisogna farsene una ragione, non si deve più vivere in funzione di qualsiasi altro senso della vita che non sia la vita stessa quotidiana: nessuna eternità, nessun aldilà.
Da lì a breve il novecento confermò il grave lutto dell’umanità, con due guerre mai viste fino allora, per estensione mondiale e per potenza delle atrocità. Insomma nella prima metà del ‘900 Dio era morto davvero oppure, stanco e deluso, si era preso una piccola pausa.
Per fortuna le guerre finiscono e arriviamo al 1965. Soffia finalmente già un vento di nuovo, che chiameremo per sempre il ’68: una nuova utopia che nasce dalla protesta dei giovani e sceglie le ali della musica per viaggiare, contagiare, rivoltare. Francesco Guccini la anticipa con un capolavoro che intitola proprio “Dio è morto”, canzone culto di una generazione, spinta dai Nomadi, riproposta da altri artisti famosi, cantata più o meno da tutti i giovani italiani da allora in poi.
La differenza con Nietzsche è che il dio di Guccini ha la d minuscola, non tocca le cose di lassù, anzi: è un invito a buttare via tutto il falso di quaggiù per riprenderci qualcosa di vero e nobile in cui credere. Libertà, giustizia, solidarietà, pace, musica, arte, amore: le parole nel ’68 smettono di essere parole e vanno a tempo, prendono la forza della poesia che si rinnova in quanto mito e oracolo, annunciando una rivoluzione fatta di chitarre, strade, palchi, spiagge e buon vino.
Guccini rivela alla nostra piccola e borghese Italia che anche qui sta arrivando qualcosa, che c’è una nuova generazione con il futuro in mano, figlio di una nuova speranza e di una rivolta senza armi e poi ricorda:
“…se dio muore è per tre giorni e poi risorge. In ciò che noi crediamo, dio è risorto. In ciò che noi vogliamo, dio è risorto. Nel mondo che faremo, dio è risorto”.
Oggi sappiamo che non è andata proprio così: il dio del ’68 ha avuto poco di eterno, dagli anni ’80 in poi parte di quella generazione ha cominciato a trasformarsi ovunque da hippy in yuppie, in Italia è esplosa dal tappo la Milano da bere e negli anni 90 il mondo intero si ri-accorda sulla finanza e l’economia globale che rompono per sempre con l’utopia delle chitarre. Il resto è storia di oggi: guerre, nuova povertà, forte discriminazione socio-economica, politica corrotta e scarsa leadership, giovani in fuga. È rimasta solo la tecnologia a promettere futuro da sogno: low cost per tutti, miliardi per pochi.
Per chi fa coaching – e per qualunque educatore e leader – è il momento di tornare ad allenare la visione: quale nuova utopia potrà farci ripartire?
È la domanda che propongo a voi: in quale utopia credereste a partire dal 2023?
Ci sono alcuni segnali da cogliere come la sostenibilità, l’economia circolare, il recupero e la tutela del pianeta, la diversità, il ritorno all’ascolto della persona più che dell’algoritmo. Bastano questi temi o sono solo parole? Possono essere cantati, scorrere in rima e andare a tempo? Possono riaccendere i cuori e i palchi? Muovere le piazze? Possono davvero farci brindare questo ultimo giorno del 2022?