Uno dei risvolti meno amari della pandemia è l’aver prodotto buoni frutti creativi, ispirando, nella riflessione del proprio animo e nel silenzio spettrale delle città, l’ingegno di molti artisti. Uno fra i più interessanti prodotti artistici nati durante il lockdown è il documentario musicale Roma verso la luce, presentato da The Autumn Salon e Sanlorenzoartevillage Films e diretto da Alessandro Rossellini (nipote del celebre regista Roberto Rossellini), dedicato alla figura e alla carriera della soprano Natalia Pavlova, degna discendente di una famiglia di grandi artisti. Figlia del musicista Andrej Shatsky e della celebre poetessa Vera Pavlova, vanta fra i suoi antenati persino il grande poeta Alexander Pušhkin.
Il film nasce dalla collaborazione italo-americana, ancor più preziosa in quanto prodottasi nelle difficoltà logistiche del lockdown, di importanti artisti – a partire dal grande violoncellista e compositore Giovanni Sollima – registi, tecnici del suono e altre maestranze, uniti nell’ideale comune di non soccombere allo sconforto generale, ma di tenere alto lo spirito attraverso la musica, tanto più in un periodo in cui non era possibile praticarla dal vivo. Questo film conduce lo spettatore in un viaggio di ascensione musicale e spirituale, a partire dalle opere dei compositori rinascimentali e barocchi Monteverdi, Frescobaldi, Caccini e Merula, per giungere alle composizioni contemporanee create in diretta collaborazione con Natalia Pavlova, come La preghiera di San Francesco del compositore americano Eli Tamar, Salve Dolce Vergine di Iraida Yusupova e Voi sapete ch’io v’amo, ispirata a un madrigale di Alcadelt e riadattata da Giovanni Sollima per la voce della soprano.
I principali protagonisti del film – la soprano Natalia Pavlova, il regista Alessandro Rossellini, il produttore e direttore esecutivo David Colantoni e il violoncellista Giovanni Sollima, ne raccontano la lavorazione a La Voce di New York.
Come e quando è nata l’idea di realizzare un documentario che raccontasse la sua storia artistica?
Natalia Pavlova – “Durante gli anni di pandemia 2020-2021, nonostante il lockdown, non mi sono fermata, ma ho continuato la mia attività artistica, facendo concerti online presso la piattaforma americana Groupmuse, che ha sede a Boston. Per fortuna, con l’aiuto di Christos Vayenas, uno dei dirigenti di questa piattaforma, ne ho fatti tantissimi, e proprio alla fine di 2020 Christos mi ha proposto di fare un film che raccontasse la mia storia artistica durante la grande chiusura, registrando i momenti migliori dei miei concerti in spazi particolarmente suggestivi. Era il miglior regalo di Capodanno che ci potesse essere, e così ho accettato, e nella primavera abbiamo cominciato le riprese”.
Come ha vissuto psicologicamente il lockdown? L’arte le è venuta in soccorso per combattere il senso di isolamento che ha colpito ogni individuo del pianeta?
Natalia Pavlova – “Mi sentivo persa, impaurita, come se non sentissi più la terra sotto ai piedi… L’arte e la creatività, l’idea di questo film erano il soccorso e la speranza. È stata una fortuna che i fantastici musicisti abbiano accettato il mio invito, il tiorbista Nicola Pignatiello, il chitarrista Alessandro Sabattini, gli organisti Marco Lo Muscio e Alessandra Ciccaglioni, la violoncellista Nasim Saad. Lo stesso vale per il bravissimo fonico Marco Zagarella che si è poi rivelato anche un ottimo montatore, come anche per l’eccellente montatore Arthur Anayan, arrivato da Mosca. Per coronare il tutto, si è aggiunto lo straordinario violoncellista e compositore Giovanni Sollima, che per miracolo è potuto venire a Roma dalla Sicilia, nonostante il blocco, per fare le riprese. Con lui abbiamo fatto una nuova versione del brano Voi sapete che v’amo dall’album Caravaggio, trascrizione che Sollima ha scritto appositamente per la mia voce. E sono stata doppiamente fortunata per il fatto che è entrato nel lavoro il regista Alessandro Rossellini, amico di mio marito David Colantoni, direttore artistico del film, senza il quale non avrei mai ottenuto questo risultato! “Non cadiamo in disperazione, anche perché abbiamo la musica”, dico io, chiudendo il film”.
Quali sono stati i luoghi fisici e gli spazi virtuali nei quali ha potuto continuare a esercitare la sua professione in un periodo di chiusura di tutti i luoghi dell’arte e dello spettacolo?
Natalia Pavlova – “Durante il lockdown, gli unici luoghi aperti nei quali era possibile cantare e fare le riprese erano le chiese, le bellissime chiese di Roma, l’unica città al mondo con un patrimonio così vasto e bello. Per noi era importante svelare, aprire e interagire con lo spazio sacro della chiesa. Nel finale del film questo spazio sacrale si espande e diventa qualcosa di più grande: mentre sto osservando Roma dalla cima del Gianicolo, con lo sfondo della bellissima panoramica romana con le croci delle chiese e le cupole in dissolvenza, si vede Sollima che suona da solo, rappresentando il simbolo della resistenza artistica, della creatività della vita, e il sole che sta tramontando vicino alla chiesa ortodossa di Santa Caterina, la Luce spirituale dentro di noi”.
Lo stesso titolo del documentario, “Roma verso la luce”, porta in sé una suggestione spirituale. Si riesce ancora a individuare una spiritualità nella martoriata Città Eterna?
Natalia Pavlova – “Assolutamente! Infatti il concetto del film poteva nascere solo in una città come Roma, dall’energia che emana dalle sue strade, chiese, cime…! Mi ricordo come a certo punto, cantando il brano di Sollima, ho avuto questa idea: la visione del movimento dal basso verso l’alto, dal buio verso la luce, dalle tenebre della cripta antica verso soffitti e panoramiche delle chiese, dalle luci delle candele verso la luce del sole, fino alla “luce” dell’artista, della speranza e dell’amore. Discutendo la trama con Alessandro Rossellini, abbiamo pensato che il racconto stesso del film rappresentava una perpetua ascensione”.
Come ritiene che il sacrale fascino dell’antichità e la frenesia e il caos della vita moderna riescano a convivere armoniosamente in questa città?
Natalia Pavlova – “Credo che Roma sia una città unica al mondo, anche perché la città antica è conservata quasi interamente e si convive ogni giorno in questi due mondi, l’antico e il moderno. Nel film il contrasto tra antichità e modernità ha un ruolo molto importante, tra rumori urbani e suoni antichi delle campane, tra l’immagine della chiesa e il rumore della strada, tra suono del flusso del tempo e suoni della musica antica… mi interessava il loro intreccio e il dialogo in crescendo verso il finale, “come di due voci in duetto armonioso“, come dico nel monologo…”.
Giovanni Sollima, la sua partecipazione al documentario ha comportato uno spostamento fisico in un mondo sospeso. La pandemia è stata per lei una pausa di riflessione o piuttosto è stata foriera di stimoli creativi?
Giovanni Sollima – “Direi entrambe le cose. Il tempo sospeso, l’aver stravolto totalmente il senso del giorno e della notte mi ha dato la possibilità di comporre due opere liriche, iniziare uno Stabat Mater, scrivere diversa musica strumentale concentrandomi su grandi architetture e, al tempo stesso, sui minimi dettagli, oltre ad aver portato a termine alcune ricerche sulla musica per violoncello del ‘700 e del primo ‘800 letteralmente “tampinando” bibliotecari di mezzo mondo. Sono riuscito a fare un lavoro di mappatura sul manoscritto (sublime, attribuito ad Anna Magdalena) delle Suites per violoncello di Bach, studio radicale che rimandavo da anni perché la vita “normale” non mi dava la possibilità di affrontarlo; sono riuscito a ristudiarle da zero e a registrarle. Sono riuscito inoltre ad allevare un cucciolo di San Bernardo e a fare cose che fino a quel momento mi apparivano proibite, come di un’altra vita. E poi con la “pausa di riflessione”, certamente in tutti – o forse no, non abbastanza! – si è innescato con potenza il pensiero di associare la pandemia in particolare all’arretramento dell’essere umano, costretto a rintanarsi per sfuggire a qualcosa di cui è, o potrebbe essere, responsabile… e ancora, l’osservare la natura finalmente libera di respirare ed esprimersi durante quel tempo sospeso segnato dal lockdown”.
Come ha scelto di rappresentare in musica il fascino della Città Eterna e le sue contraddizioni?
Giovanni Sollima – “Per la verità, da palermitano, non ho mai scelto. Sono stato abituato o costretto fin da piccolo a rappresentare fascino e contraddizione di un luogo. Ma credo sia anche una forma di sublimazione. In ogni caso la musica ha bisogno di contraddizioni”.
In quale direzione musicale l’ha portata la sinergia con la soprano Pavlova?
Giovanni Sollima – “Con Natalia ci conosciamo da alcuni anni, abbiamo collaborato in più occasioni e mi ha sempre colpito per versatilità, capacità di affrontare qualsiasi repertorio o stile, cultura, sensibilità”.
Alessandro Rossellini: come si sono incrociate le sorti artistiche fra lei, la cantante Natalia Pavlova e il produttore David Colantoni, tanto da decidere di collaborare insieme a un documentario?
Alessandro Rossellini – “Sono un vecchio amico di David Colantoni, ci conosciamo da moltissimi anni e abbiamo sempre pensato di fare dei progetti insieme, cosa che per un motivo o per l’altro non ci era mai riuscito. Finalmente, con la pandemia che ha rallentato tutto anche nel senso di impegni, abbiamo avuto modo e tempo di iniziare con questo documentario, che ha rappresentato un’ottima prima occasione. Inoltre, conoscendo Natalia, e soprattutto apprezzando il suo immenso talento, mi è sembrato veramente importante, attraverso questa occasione, metterlo a fuoco e farlo conoscere”.
Il documentario è stato realizzato durante il lockdown con pochi mezzi. Com’è stato lavorare in una bolla di sospensione temporale e di grande difficoltà per i lavoratori dello spettacolo, con persone tuttavia animate dal sacro fuoco dell’arte?
Alessandro Rossellini – “Il documentario è stato girato, a causa del lockdown totale, in piccoli spazi di apertura dov’era possibile fare le riprese. L’Italia poi è il Paese dove le chiese rimangono aperte e ci siamo concentrati a girarlo in luoghi che hanno un enorme valore artistico e storico, ovvero tre antichissime chiese costruite sulle mura di basiliche paleocristiane, luoghi straordinari. Per quanto mi riguarda mi sono concentrato per far fruttare al meglio quello che avevamo, pochissimi elementi tecnici, anche per la difficoltà in lockdown di spostare una troupe, che quindi era ultra-ridotta, cercando in qualche modo di usare più la mia esperienza di fotografo che quella di regista che è alle prime armi, e quindi concentrandomi nella fotografia all’interno delle chiese. Credo che quello sia stato il mio apporto migliore, oltre a consigliare un livello qualitativo elevato anche per tutte le altre cose che purtroppo non sono riuscito a seguire in prima persona. Insomma, anche se abbiamo lavorato con difficoltà estrema in pieno lockdown e quindi non ho potuto fare come realmente avrei voluto, spero che questo documentario serva a mettere in luce il grandissimo talento di Natalia che mi ha molto impressionato anche per la sua serietà e per la straordinaria energia con cui porta avanti il proprio lavoro, ed è stato molto piacevole collaborare con un amico come David con la speranza di fare altre cose insieme quanto prima”.
David Colantoni: nel documentario è presente come interprete il violoncellista e compositore italiano Giovanni Sollima. Com’è nata l’idea di collaborare con lui?
David Colantoni – “Quando ho sposato mia moglie mi sono reso conto che aveva portato una dote inestimabile: grazie a lei sono stato introdotto nel mondo della musica classica, un mondo a cui ho il rimpianto di non appartenere come musicista, e sono diventato amico di artisti di eccezionale caratura, ad esempio il pianista Boris Vadimovič Berezovskij, con cui spesso passiamo, insieme con le famiglie, le estati al mare in un’isola della Croazia che si chiama Brac, o al violinista Sergej Aleksandrovič Krylov, altro grande amico, e molti altri ancora. E poi Giovanni Sollima, che ho conosciuto sempre grazie a Natalia a una cena a casa di un liutaio francese a Roma circa dieci anni fa. Con Giovanni è stato subito un colpo di fulmine anche intellettuale. Giovanni è un genio totale, un compositore, un musicista ma anche un pensatore, e un animale politico in senso aristotelico. Ci è capitato di passare notti intere fino all’alba a dialogare. Insieme abbiamo fatto già alcune cose, fra cui una di cui vado particolarmente fiero: un concerto al Campidoglio nel 2017 per gli ottant’anni dalla morte dei fratelli Rosselli. In quell’occasione Giovanni ha trascritto per ensemble di violoncelli il secondo movimento della Settima Sinfonia di Beethoven, che fu eseguito nel 1937 a Parigi ai loro funerali per volontà testamentaria di Carlo Rosselli, e si è presentato a Roma con otto violoncellisti, senza chiedere un solo cent, come atto di civismo, un dono alla memoria dei giovani Rosselli. Un uomo di una generosità infinita. Lo amo. Ritengo sinceramente che la musica ai livelli di questi artisti sia la più alta forma di espressione umana, un miracolo”.
Il film è dedicato a suo padre, il grande pittore e film maker italiano Domenico Colantoni. Qual è l’eredità artistica che le lascia suo padre?
David Colantoni – “Soprattutto una visione dell’arte come strettamente intersecata con il sociale, lo storico e il politico. Invece, come lascito ontologico, la consapevolezza della complessità dell’essere esseri umani, pieni di enormi contraddizioni, come tanti cerchi da quadrare”.
Come si intrecciano le sorti della famiglia Colantoni con quelle della famiglia Rossellini?
David Colantoni – “Conosco il regista e fotografo Alessandro Rossellini da svariati decenni, siamo molto amici. Sua sorella Rossa abitava sul mio stesso pianerottolo di casa per anni. Spesso incontravo la loro nonna, Marcella, la prima moglie del grande regista Roberto Rossellini – quella, per intenderci, che si vendette i gioielli di famiglia per terminare la lavorazione di Roma Città Aperta – al mercato di San Lorenzo, dove abitavamo tutti, e qualche volta le portavo le buste della spesa fin su a casa. In gioventù ho passato tre anni a lavorare in una casa di produzione cinematografica, la Paravalley, dividendo lo studio con Gil Rossellini, lo zio di Alessandro e Rossa, poi tragicamente scomparso. Ho conosciuto tutti i Rossellini in maniera del tutto indipendente; direi che mi unisce a queste persone favolose un qualche destino. Prima ancora di conoscerli mi ero innamorato di Roberto Rossellini non semplicemente come regista, ma come intellettuale. Da giovanissimo infatti mi era capitato fra le mani un libro che raccoglieva i suoi scritti, dove si disegna una vicenda di un intellettuale e di un artista di sempre più difficile collocazione nel panorama via via sempre più provinciale italiano, soprattutto a causa di quei film – come Europa 51, in cui recitava quella Ingrid Bergman strappata dall’amore a Hollywood di cui era la stella nascente – profondamente impegnati e dolorosi, e che i produttori non volevano più fare, come racconta Rossellini stesso”.
Come si legano i rapporti con la famiglia Rossellini al documentario?
David Colantoni – “Quando, durante la pandemia, Christos Vayenas e i bostoniani di Groupemuse, un media che produce concerti online divenuto strategico durante il lockdown, hanno proposto a Natalia di fare un documentario imperniato sulla sua musica e su Roma come scenario unico e favoloso, ho subito pensato al mio amico Rossellini, che per amicizia, con un budget minimo e pochissimi mezzi che avevamo a disposizione, generosamente ha accettato di fare la regia. E da lì poi sono venuti altri amici che, egualmente, hanno partecipato in cambio di un rimborso spese, mettendo su una troupe il cui lavoro aveva il valore di diverse decine di migliaia di euro che certamente non avevamo. La pandemia ha giocato a nostro favore, perché tutto era sospeso in quel sinistro incantesimo del lockdown in Italia e le persone non avevano quel volume normale di impegni che generalmente hanno, così abbiamo dato vita a questa bellissima avventura, un piccolo miracolo. Oggi Alessandro, che ogni giorno posta qualche foto da una diversa città del mondo dove viene proiettato il suo documentario Rossellinis, non avrebbe avuto un secondo libero da regalarci come ha fatto con enorme generosità”.
Natalia Pavlova, portare avanti un legame sentimentale e un sodalizio artistico a così alti livelli è una complicazione o un’opportunità?
Natalia Pavlova – “Assolutamente un’opportunità! La mia vita in Italia sarebbe impossibile senza mio marito, che mi sostiene moltissimo anche artisticamente. Lo considero un grandissimo artista che mi apre al mondo dell’arte e degli intellettuali italiani e non solo, com’è accaduto durante la realizzazione di questo progetto, e poi ha un grande cuore. Nella nostra relazione, intesa anche come sodalizio artistico, posso crescere come artista, non limitandomi solo al canto, ma in senso più ampio umano e spirituale, che è la cosa più importante!”.
Dopo la première di New York, contate di promuovere il documentario in giro per il mondo?
Natalia Pavlova – “Certamente, abbiamo già in programma di mandare il film a importanti festival internazionali”.