
La recente scomparsa del maestro Ezio Bosso ci riporta a un punto zero, ponendoci improvvisamente di fronte alla natura musicale dell’essere umano. Del direttore d’orchestra, compositore e pianista, sono disponibili in rete numerosi documenti audiovisivi, così come possiamo facilmente accedere alla discografia e al catalogo delle opere. Quello che l’insegnamento del maestro ci trasmette è tuttavia un esempio di vita, in quanto l’uomo ha saputo forzare con impeto beethoveniano la prigione della disabilità ristrutturando completamente il rapporto intrattenuto con lo strumento. Un diverso approccio al pianoforte, in funzione dei limiti imposti dalla patologia, gli ha infatti permesso di ricavarne nuove sfumature, modificando il peso dei tasti e intervenendo personalmente sull’accordatura.
Un musicista risponde sempre allo strumento con nuove idee, componendo nuove pagine, oppure rivedendo l’interpretazione del repertorio alla luce della mutata condizione esistenziale. Nel caso di Ezio Bosso tale risposta non si è piegata ai cedimenti del corpo, ma ne ha invertito la direzione trasformando il problema in opportunità. Il compositore torinese ha dunque saputo reagire alle avversità della malattia con sentimento di gratitudine alla vita, testimoniato dal contagioso sorriso che sempre illumina il suo eloquio. Nell’affrontare la complessa patologia degenerativa, Bosso non si è limitato a un brillante esercizio di problem solving, ha operato una sterzata interiore che ne ha potenziato la forza vitale.
Ci mancherà non solo il grande musicista, ricorderemo con altrettanta nostalgia la figura di intellettuale completo che sapeva parlare di musica insegnando a sentire tra le note e oltre le note, potenziando la capacità di osservazione degli ascoltatori. Nella sua principale attività di direttore, Ezio Bosso eseguiva le prove a porte aperte, introducendo il pubblico al repertorio e disvelando con grande efficacia il funzionamento della macchina orchestrale, il cui fattore determinante risiede a suo avviso nello studio, individuale e collettivo. Della preparazione musicale e dello studio il maestro amava sottolineare l’aspetto avventuroso e critico, dal quale derivano apertura mentale e curiosità intellettuale. Si soffermava inoltre sull’impatto rivoluzionario e dirompente dell’arte di Beethoven, il quale si schiera apertamente a favore dell’espressione dei sentimenti attraverso la musica, contrariamente a quanto prescritto dai dettami del formalismo classico, che tende invece a escluderli. Atteggiamento con il quale Ludwig van Beethoven prefigura e anticipa il movimento romantico, contrapponendosi alla neutralità del formalismo con la stessa carica oppositiva che il punk avrebbe esercitato, a distanza di un secolo e mezzo, nei confronti dei canoni tradizionali del rock.
A questo proposito Ezio Bosso intravede alcune similitudini tra la musica impropriamente denominata classica e la musica rock, in particolare sotto il profilo della propensione al coinvolgimento personale e alla sofferenza fisica che accomuna i musicisti di entrambi i contesti, senza peraltro curarsi troppo dei risvolti commerciali, aspetti di cui deve invece tenere conto la pop music, ai professionisti del cui ambito riserva in ogni caso grande rispetto.
Oltre al fatto musicale in senso proprio, Bosso ci invita a guardare con attenzione a tutte le possibili declinazioni della musica, e all’utilità sociale che possiamo trarne, portandola in tutti i contesti dove il vuoto che contorna il disagio possa essere riempito.
Lo studio approfondito dei classici, da Bach a Chopin, non rappresenta per Bosso un semplice rispecchiamento artistico riflesso dall’interpretazione, è piuttosto il mezzo per trasmettere il messaggio musicale della tradizione con l’intento di produrre nell’ascoltatore un cambiamento. Da questo punto di vista, per collegarci a una metafora proveniente della scena musicale britannica che negli anni Settanta ruotava attorno agli Henry Cow, la musica va concepita come martello, non come specchio, ovvero non come semplice espressione della cultura ambiente ma come strumento per modificarla.

Il maestro Bosso spiega inoltre come la musica viva di vita propria, fluendo immanente nei suoni della natura, e che l’intervento dell’uomo consista nel ripeterne gli effetti attraverso la voce e gli strumenti per trarne beneficio e ispirazione. Ne deriva quindi una concezione sacerdotale del musicista, il quale sotto questo profilo funge da tramite e non da protagonista, funzione che nulla toglie allo spessore stilistico del compositore e dell’artista. Si tratta tuttavia di una concezione in cui l’aspetto ieratico è decisamente ai margini, esplicandosi in realtà in una funzione eminentemente pratica, di servizio, svolta sin dalle origini della musica occidentale nei monasteri del nono secolo da parte del cantore, il quale presta la propria voce alla musica e alla parola. D’altra parte, quello di Kantor è il titolo più elevato nelle istituzioni musicali luterane al tempo di Bach, nel diciottesimo secolo.
Probabilmente il lascito più significativo che ci viene dal maestro consiste nella rivalutazione del silenzio inteso come presupposto dell’ascolto. Il mondo in cui viviamo disconosce di fatto il silenzio: il suono concepito come riempitivo si trasforma in rumore di fondo, e nel rumore non è possibile ascoltare. Prerogativa della musica, ci ricorda Ezio Bosso, è il gioco di aspettative creato dai silenzi intorno ai quali essa stessa si struttura, insegnando all’umanità l’arte dell’ascolto, unica cura possibile della comunicazione malata.