23 aprile 2018.
In una sala come di un patronato parrocchiale, di quelle senza locandine, senza impianti o casse. Di quelle con il pavimento con le piastrelle disegnate a forma di sasso. Sali le scale e te lo trovi davanti, il concerto di Diodato. E’ una domenica sera di appena due anni fa. Antonio Diodato, 38 anni pugliese, ha fatto un bel Sanremo assieme a Roy Paci con il brano “Adesso” e si avventura in un tour europeo. Lo intercetto ad Amsterdam. L’atmosfera è davvero intima, ma non è merito della luce soffusa, dell’assetto acustico del concerto o delle candele, ma del fatto che siamo in non più di 30 persone. Compresi i fonici.

Ma fa nulla. Diodato canta senza lesinarsi, parla con il poco pubblico, presenta le canzoni, socchiude gli occhi sui finali, ti racconta com’è nato quel brano, ti racconta il perché e sembra guardarti negli occhi. Ho trascinato due amici italiani con me che lo conoscono poco nulla, lo apprezzano anche loro: talento e umiltà insieme fanno così tanto rumore che non riesci a non accorgertene. Dopo il concerto ci sembra giusto andare a salutarlo, come un amico che ti ha accolto in casa, fa niente se la casa è la sua voce. Lui ti chiede da quanto vivi fuori, curioso, il selfie non è una foto di circostanza ma un ricordo che ti fa sorridere. Scendiamo tutti e 3 le scale, ci diciamo “Che bravo, che carino, lo sai che è l’ex di Levante”.

3 febbraio 2020
Diodato fa sentire il suo pezzo dal vivo al teatro Ariston di Sanremo ai giornalisti durante le prove generali. Le 2 di pomeriggio, per iniziare 5 ore di prove, sono un orario nefasto. Chi ha pranzato è in fase digestiva, si sbadiglia commentando i brani con i colleghi. Le prove sono in ordine alfabetico, la D arriva in fretta. Quando parte la sua “Fai rumore” si ferma ogni brusio. Il brano arriva subito e convince. In sala scatta il primo applauso del pomeriggio, uno dei pochi della giornata. Diodato si è conquistato la stampa che non smetterà di tifare per lui fino alla finale e che gli conferirà il premio alla critica dedicato a Mia Martini.
9 febbraio 2020
Diodato vince la 70esima edizione di Sanremo e lo fa in modo pulito e onesto.
“Ringrazio tutti quelli che hanno fatto un passetto alla volta con me – dichiara quasi alle 3 di notte in una sala stampa irrequieta per lo spoiler del nome del vincitore, fuoriuscito un’ora prima della proclamazione in tv – Dedico la vittoria alla mia famiglia, al mio team che mi conosce bene e che sa l’attenzione con cui voglio fare rumore. Dedico questo premio alla mia città, Taranto, che è una città dove bisogna fare rumore.”
Parla dell’importanza del lavorare in modo artigianale, sarto della melodia, fabbro del testo.
“La gente in questi giorni mi ha detto “Hai scritto la mia canzone” e questo succede quando scrivi qualcosa che sa di te, che puzza di te. Se riesci ad essere sincero con te stesso quell’emotività arriva anche a chi ti ascolta.”
“Ho cantato per 8, 800, 8mila persone. Continuerò a farlo condividendo la gioia che ho nel fare questo mestiere. Mi sentivo nel posto giusto della mia carriera anche allora, quando erano in pochi ad ascoltarmi, avevo esattamente quello che mi meritavo. Mi esponevo fino ad un certo punto. Con le ultime canzoni, con gli ultimi lavori sono riuscito a buttar giù il muro di incomunicabilità. Se oggi la gente si è avvicinata è perché io ho permesso loro di avvicinarsi.”

Sì, parteciperà all’Eurovision, previsto il 16 maggio a Rotterdam, in Olanda e sì potrebbe vincere pure quello.
“In questo momento mi sento di dire che non ho paura. Del resto il mio nuovo album si chiama “Che vita meravigliosa””.
Di questo Sanremo nato sotto la stella della polemica ci rimarranno forse Amadeus e Fiorello, visto che la Rai ha già chiesto loro di firmare l’edizione 2021.
Ci rimarrà la lite tra Morgan scheggia impazzita e Bugo che abbandona il palco venerdì sera, come le migliori rockstar tra ripicche e scenate da prime donne. A proposito di donne ci rimarrà in bocca il tema principale di un Festival interamente dedicato a raccontare il femminile per combattere il femminicidio e le disuguaglianze, fatto spesso però con stucchevole retorica strumentalizzata, senza accorgersi che il messaggio più forte l’ha portato in scena un outsider che da scaletta doveva solo essere un cantante.
Achille Lauro durante la finale si esibisce vestito da Elisabetta I e lo fa con una coerenza artistica, visiva, provocatoria che sembra canzonarti con un Chiamatemi cretino tanto i cretini siete voi. E’ l’emblema del gender fluid mentre il maschile e femminile li ha saldi in testa, e li usa per superarli.
“Elisabetta I è riuscita a fregarsene, a tener testa agli uomini con cui si confrontava: lo faceva anche attraverso il suo aspetto, indossando abiti larghi sulle spalle, per rendere la propria fisicità imponente quanto la propria personalità e per non essere mai inferiore ai propri interlocutori maschili”, spiega in una nota. Poi sui suoi social si descrive come “Elisabetta I Tudor, vergine sposa della patria, del popolo, dell’arte e difensore della libertà. Che Dio ci benedica”.
Non ci rimarrà in testa la canzone di Anastasio, il grande favorito che se ne esce con un 13esimo posto. Ne riparleremo per quanto riguarda Francesco Gabbani, arrivato secondo, e i Pinguini tattici nucleari, arrivati, a super sorpresa, persino terzi.
Ci rimarrà il monologo di Benigni, il premio Giancarlo Bigazzi per la migliore composizione musicale dato a Tosca per la sua magnifica “Ho amato tutto”, arrivata sesta.
3 febbraio 2020
All’Ariston Tosca ha appena finito di cantare il suo brano. Tirare su con il naso mi pare poco professionale, ma ho gli occhi lucidi come sempre succede quando ascolto una signora canzone. Faccio un gesto con la mano sinistra, la sventolo disegnando un cerchio a mezz’aria, proprio quando mangi qualcosa di saporito. La giornalista seduta alla mia destra sulle poltroncine rosse di velluto nota prima la mano, poi gli occhi lucidi.
“Evidentemente non abbiamo gli stessi gusti”, mi dice piatta, senza confidenza. “A me questa canzone non dice nulla”. Non rispondo. La T è quasi in fondo all’alfabeto, è tardo pomeriggio, sarà stanca. Penso che avrei voluto prenderla per mano, portarla con un balzo due anni indietro, mollarla da sola al centro della stanzetta ad Amsterdam del patronato, ad ascoltare Diodato, a capire se il non sentire le emozioni tramite la musica è un problema di chi la fa o di chi la ascolta. O semplicemente del non aver vissuto abbastanza, confondendo il rumore per la musica, e la musica per il rumore.
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