Sto pagando una Coca zero al bar dell’Ariston. E’ passata la mezzanotte da poco. Nella sala stampa sopra all’Ariston volano sbadigli. Dal televisore attaccato in alto sopra al salmone affumicato nel piatto di ceramica bianco con la pellicola pronta per il pranzo di domani, Amadeus dice: “E ora richiamiamo Tiziano Ferro”. Dal retro del bar si alza una voce maschile, chiara, limpida. Dice: “Ancooora?”.
Mi viene da pensare Ancora quando escono sul palco Albano e Romina Power, quando Tiziano Ferro canta Mia Martini ed è crescente, quando canta una versione più jazz di “Volare”.
E’ la serata inaugurale della 70esima edizione del Festival di Sanremo, è la prima serata di Amadeus e tutto sa già di muffa. Fiorello è uno scalda pubblico che ha mestiere e tratta l’Ariston come un palco qualsiasi, senza paura. Le polemiche pre-inizio sulle donne dettano l’agenda degli interventi. Diletta Leotta, convincente sul palco, si rivolge alla nonna seduta in platea. Parte dicendo “La bellezza capita e non è un merito”, anche se la sua un po’ lo è, così artificiale e ricercata nel nome della perfezione.
Rula Jebreal convince di più, anche se in platea questa volta c’è la figlia, che si commuove come lei. Femminicidio, rispetto per le donne, appelli, frasi di canzoni. Ma aleggia la sensazione che la retorica appesantisca il tutto, lasciando poco alla fine.
Il Sanremo che vorrei è pieno di Achille Lauro, che canta “Me ne frego” fregandosene realmente. Scende la scalinata con un mantello nero con decori dorati per poi spogliarsi e rimanere in una tutina trasparente e glitterata che non nasconde nulla. Si mette in mostra come un novello Freddie Mercury (solo per lo stile, sia chiaro) scalzo e sfrontato, gender fluid, impavido, fiero del suo non nascondere tatuaggi e mancanze. Il web impazzisce, tra quel senso di imbarazzo di una cosa che non faresti mai e l’atto liberatorio del fregarsene delle convenzioni e delle etichette. Vorrei un Sanremo così, meno imbustato, più moderno, con effetti wow obbligatori in vere performance, manifesti di attivisti invece di interpreti di attività altrui.
I giornalisti applaudono il bel canto di Diodato e l’energia moderna di Elodie. Al primo posto della classifica provvisoria si posizionano delle perdibilissime Vibrazioni.
Nel Sanremo che vorrei la serata finisce a mezzanotte e non all’una, e ne vorresti ancora, perché ti dà degli spunti culturali di crescita, delle cose a cui non avevi mai pensato, una canzone che ti racconta una storia, una donna forte a fianco ad un uomo forte senza retorica e piano triste in sottofondo. Nel Sanremo che vorrei si parla di politica, senza evitarla sapientemente. Perché se nel 2020 il tema sono le donne, e per di più in seguito alle polemiche, abbiamo un problema: il #MeToo c’era nel 2017, sono passati 3 anni e siamo ancora qua. A navigare nel qualunquismo, nel mappazzone che conforta, dove a nessuno venga da alzare un sopracciglio. La ribellione lasciata ad una tutina che brilla, indossata da un maschio impavido o in cerca di visibilità. Che però alla fine della prima serata di questo Festival, è purtroppo l’unica cosa che ci rimane addosso.