Avevano promesso di tornare solo con la certezza di avere tra le mani un disco sincero, capace come il precedente di parlare con estrema spontaneità al pubblico. E a giudicare dall’esercito dell’Alcatraz di Milano composto soprattutto da giovani che cantano le nuove canzoni fino a consumare la voce, quasi come una recita del rosario, la promessa dei Canova è stata mantenuta. Perché la sincerità è elemento fondamentale, quello su cui la giovane band milanese guidata da Matteo Mobrici ha saputo costruire, live dopo live, il proprio marchio di fabbrica. Non una scelta scontata per una band che in soli due anni ha saputo bruciare record su record, costruendosi una fan base ampia che continua a seguirli e sostenerli.

“Vivi per sempre”, il nuovo album in vendita dal 1 marzo anticipato dai singoli “Groupie”, “Domenicamara” e “Goodbye Goodbye”, è una sorta di passaggio di testimone tra passato e presente con cui i Canova puntano a restare nel tempo. Un imperativo che sa di speranza, un augurio che svela l’obiettivo di Mobrici e compagni. Con una sola arma: le melodie catchy, la scrittura schietta e i ritornelli aperti e irruenti. L’album, così come il precedente, non è un concept bensì una raccolta di canzoni figlie di momenti diversi e di circostanze e ispirazioni a sé stanti. Le canzoni che i Canova presentano in “Vivi per sempre” oscillano tra il pop super catchy della scrittura di Mobrici e il rock ruvido ma armonioso della band milanese.
I protagonisti del loro live sono i sentimenti, le notti insonni, le rincorse, le sigarette, le bevute, le domeniche noiose, ma anche l’infanzia, eors appunto e thanatos, raccontati con una sincerità a tratti disarmante che fa da colonna sonora alla quotidianità.

Ci mettono un po’ a salire sul palco, tanto che i fan li incitano ad uscire cantando il tormentone “Threesome”. Ma eccoli arrivare: Mobrici rompe il ghiaccio salutando ed è un tutt’uno con l’emozione e i suoi immancabili occhiali da sole, nonostante giochi in casa. Così arriva “Shakespeare”, l’introspettivo e nostalgico sipario che apre la serata all’Alcatraz. Ed è subito un’esplosione di colori e coriandoli: “E guardavo le onde del mare / Le vedevo correre e girare / Dicevo sono io tutto quello che sono, posso volare / La la la la ”.
Ma è nel momento di “Manzarek” che ti accorgi della forza comunicativa dei Canova: un esercito di innamorati che la canta a squarciagola, muniti di cellulare e pronti a taggare sui social la persona amata che magari non corrisponde: “Se c’è una cosa che odio di più / È che non posso vederti quando ti spogli con una canzone dei Doors”.

Canzone dopo canzone lo spettacolo è sempre più colorato e sincero. E’ avvolto da un mix di romanticismo metropolitano, un briciolo di malinconia e molta spontaneità che consacra i Canova come giovani e autorevoli protagonisti del pop indipendente made in Italy. Un’instantanea che fotografa uno spaccato generazionale che trova continuamente conforto nelle parole di chi ascolta e descrive le necessità dei giovani di oggi, cresciuti con poche speranze ma con la certezza dei sentimenti. Così come l’inno immancabile di “Vita sociale”: “Passano leggi sul posto fisso / Non averlo neanche, io nemmeno l’ho visto / E mando a puttane la mia vita sociale / Vorrei morire, anche se per un giorno solo.”
Il gran finale del concerto è affidato a “Threesome” e c’è chi non può fare a meno di richiederlo proprio ai ragazzi dei Canova. Si sorride in un clima di assoluta tranquillità a scanso di equivoci e insieme a chi ha voluto celebrare emozioni e racconti di straordinaria ordinarietà.