Il menù che Sanremo 2019 ci propone è un minestrone di generi musicali: sapori di indie e pop, di soul e rock ma anche di rap ed r’n’b.
Claudio Baglioni l’aveva promesso poco più di dieci giorni fa parlando di “senso della bellezza, bizzarria, sincerità e verità”, l’istantanea poco sfocata dell’attuale panorama musicale italiano. E in certo senso le scelte del direttore artistico colorano, e non di poco, le portate principali del suo Sanremo 2.0.
Circa quattro ore di musica non stop a pochi passi dalla scenografia ideata da Francesca Montinaro per renderci conto che la “rivoluzione musicale” di Baglioni procede a passo veloce, senza aver paura di osare. Ce ne accorgiamo quando salgono sul palco dell’Ariston gli Zen Circus, pisani col rock tatuato sul petto (ma anche sulle bandiere e capirete stasera il perché) che scelgono il modo migliore per festeggiare i venti anni di carriera. “L’amore è una dittatura” è una scelta per nulla scontata: un brano in cui le percussioni e le chitarre fanno da padrone, tanto da evocare per tutta la durata il classico tic-tac dell’orologio senza perdersi in un futile ritornello (che non c’è); testo per nulla banale come del resto tutti quelli scritti da Andrea Appino, che ci presenta la sua versione del tempo odierno “senza dire cazzate” e con l’occhio rivolto ai “porti chiusi”.
Le portate arrivano uno dietro l’altra, senza nemmeno il tempo di fare una pausa caffè o digestivo: solo musica. Tanta musica, come quella che ritroviamo nel pezzo dei Negrita, ambasciatori autentici del rock made in Italy di questo cast che non deludono le aspettative. “I ragazzi stanno bene” parte con un fischio che si candida a diventare tormentone di questa edizione numero sessantanove del Festival. Poi spazio ad atmosfere tipiche western condite dal suono della chitarra elettrica che portano a riflettere sui rapporti intergenerazionali strizzando l’occhio alla politica (cattiva?): “Di fantasmi sulle barche e di barche senza un porto come vuole un comandante a cui conviene il gioco sporco”. Convincenti.
L’abbuffata musicale continua con il rock di Loredana Berté e la sua “Cosa ti aspetti da me”, pezzo scritto da Gaetano Curreri (e si sente). Cosa vogliamo da te, Loredana? Che resti sempre così rock. Potente, vigorosa.
Chi invece, convince meno è Il Volo. La canzone si chiama “Siamo musica” esattamente come l’ingrediente principale che manca in questo piatto. Tre voci bellissime, nulla di più. L’effetto sorpresa di “Grande amore” è finito da un pezzo. Sazia a metà anche Daniele Silvestri con “Argento vivo”, forse il testo più lungo e complicato dei ventiquattro in gara che ricorda nell’intro “Chemistrails” di Back.
I piatti gourmet che Baglioni ha scelto si chiamano Ex Otago e Mahmood. I primi, promotori di quel microcosmo indie che piace sempre più alle very normal people, saranno osannati dai più dopo questo Festival, che solo inizialmente li etichetterà come fotocopia dei Thegiornalisti (sono attivi dai primi anni 2000 a differenza dei colleghi). “Solo una canzone” è una ballad indie pop che sa tanto di amore adulto e introspettivo, pur sbilanciandosi in un “caloroso abbraccio scenico” che Maurizio Carucci (frontman della band) ci proporrà ogni sera. Credibili.
Il secondo, vera rivelazione di questo cast, si mangia il palco dell’Ariston con un pezzo dalle sonorità tipiche dell’ r’n’b, incanta la stampa in platea e si candida a vincitore, Ultimo ed Irama permettendo che i bookmakers continuano a dare per favoriti, anche se in realtà si presentano in gara con canzoni decisamente scontate e lontane parenti delle scelte apparentemente “rivoluzionarie” di Baglioni.
Se invece dovessimo ordinare dell’ottimo vino la scelta ricadrebbe senza dubbio su Paola Turci e la sua voce che migliora col passare degli anni: non bisserà il successo di “Fatti bella per me” di due anni fa ma Paola si conferma artista erotica e frizzante, come sempre. Tutto quello che invece, manca ad Anna Tatangelo, bocciata al primo ascolto con una canzone che ci informa del suo “nuovo-vecchio” rapporto con Gigi D’Alessio. Ce n’era davvero bisogno?
Il piatto principale arriva solo verso la fine delle prove e a proporcelo è un ragazzaccio di Livorno con faccia da talent su cui, Universal prima e Sony dopo, hanno scommesso: Enrico Nigiotti emoziona e convince con “Nonno Hollywood”, forse la canzone più bella di quest’anno, che mette in risalto tutta la bravura del livornese nella costruzione musicale e un testo bellissimo che lo consacrerà tra i “nuovi” grandi della musica italiana.
Solo contorno per Arisa che tenta la carta sorpresa uscendo dalla sua comfort zone ed esibendosi sulle note di un brano super ritmato che cadrà presto nel dimenticatoio. Rivedibile. Poco saporito anche Achille Lauro che sveste i panni di trapper per vestire quelli insoliti di cantante rock, riuscendoci solo a metà. Menzione speciale per Simone Cristicchi e la sua “Abbi cura di me”, candidato al possibile premio della critica con una preghiera molto recitata e poco cantata che fa riflettere sul tema della fiducia e che conquista colore solo verso la fine grazie al grande lavoro dell’orchestra.