Coventry, Inghilterra. Fine gennaio di due anni fa. Non fa freddo, anzi, ma piove a dirotto da giorni. Il mio hotel è a pochi passi dalla stazione ferroviaria, eppure dopo poche centinaia di metri a piedi sono già fradicia. In abitino nero e tacchi a spillo improbabili per quel tempo inclemente salgo al volo sul primo bus che passa e sono fortunata. È quello per l’università di Warwick, il campus dove si terrà il concerto. Ho ventitré anni e sto andando al mio primo concerto rock da quando sono maggiorenne. L’ultimo era stato Lou Reed otto anni prima. Ian Hunter and the Rant Band. Chi sono, penseranno i lettori? In fila per entrare alla Copper Room, la venue dello show, sono l’unica giovanissima tra fan ultrasessantenni. Una signora scozzese, commossa dalla mia storia e dal lungo viaggio, mi cede il posto sotto il palco e mi stringe la mano. Non siamo più di duecento persone. Arriva Ian, saluta il pubblico e incomincia a cantare. Io sono stupefatta. Il mio idolo è a pochi centimetri da me e se mi metto in punta di piedi posso quasi sfiorargli il polpaccio. Non conosco i musicisti che lo accompagnano, ma sono bravi. Ricordano Buff, scomparso da pochi giorni, e Ziggy. All the Young Dudes chiude lo show. E, sopraffatta, piango tutte le lacrime del mondo cercando di darmi un contegno. Thank you, Mr. Patterson. Rimani così come sei, per sempre nostro, per pochi eletti.
Ian Hunter compie settantanove anni il tre giugno, ma sembra ancora un ragazzino: alto e secco secco, gli immancabili occhiali da sole, li porta da sempre, a coprire due bellissimi occhi azzurro spento e il sorriso timido e malizioso di allora. I suoi fan, relativamente pochi, lo idolatrano, eppure i più non lo conoscono neppure di nome. L’Italia lo ignora del tutto. Perché? È stato il frontman dei Mott the Hoople, la piccola band dell’Herefordshire che a un passo dallo scioglimento venne salvata da un regalo inaspettato di David Bowie, la canzone-simbolo del glam rock, e divenne grande per caso. Ma faccio un passo indietro.
Ian Hunter Patterson nasce a Oswestry pochi mesi prima dello scoppio della guerra. Lascia lo Shropshire con la famiglia e si rifugia prima a Londra e poi a Hamilton, vicino a Glasgow, dove vivrà a lungo. Il padre e la madre sperano metta la testa a posto, ma lui sogna prima il calcio, poi la musica. Però non ha né piedi buoni né una voce potente, si è sposato giovanissimo, non è più un ragazzino. Suonicchia e canticchia prima negli Apex Group, poi con gli Scenery. Nel 1969 Guy Stevens, folle manager dei Procol Harum – morirà appena trentottenne di overdose di farmaci, i Clash gli dedicheranno un b-side – prende i Silence, ex Doc Thomas Group, composti dal bassista Pete Overend Watts, un batterista, Dale Buffin Griffin, Mick Ralphs alla chitarra e Verden Allen degli Inmates all’organo e li ribattezza Mott the Hoople, dal nome di un romanzo minore del giornalista americano Willard Manus. Mott come Norman, lo scapestrato; Hoople, quasi intraducibile, suona bene e basta anche se non è comune nell’inglese parlato. E Mott the Hoople sia. Via il cantante Stan Tippins, relegato a ruolo di roadie, e dentro Ian Hunter, che forse lo convince di più. Patterson, il vero cognome poi abbandonato, ha già trent’anni e questa è la sua ultima possibilità di farcela.
I Mott the Hoople non fanno ancora glam rock, ma piacciono abbastanza. Il panorama musicale inglese è variegato. Il progressive rock gode di ottima salute; gli Who escono con Tommy, opera rock magistrale, David Bowie è grande ma non ancora grandissimo mentre Marc Bolan è il leader indiscusso della gang glam, entrambi rappresentati dallo storico manager Tony Visconti. Dopo tre anni insieme gli Hoople non vanno più d’accordo e dopo Brain Capers e un tour con più ombre che luci decidono di appendere i plettri al chiodo e separarsi. Overend Watts lo comunica a Bowie, amico della band, e David propone loro due pezzi a patto che non si sciolgano: Suffragette City, rifiutato da Ian Hunter e poi incluso in The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, e All the Young Dudes, un particolarissimo inno alla vita dal testo strampalato e il ritornello orecchiabile. Wendy che ruba da Marks & Spencer, Freddy che si strappa il glitter dal viso, funky little boat race; e poi Billy che parla di suicidio e Jimmy che si veste da donna come Sugar e Holly, i transessuali di Walk on the Wild Side, Lou Reed. La band non ha dubbi: questo pezzo è un gran pezzo. All the Young Dudes raggiunge la vetta della classifica nel luglio del 1972 e quel capoccione di riccioli biondi diventa l’idolo delle ragazzine. At last! Bowie la canterà, ma il brano è per Ian Hunter e si sente.
Verden Allen e Mick Ralphs lasciano, subentrano Morgan Fisher e Luther Grosvenor con il soprannome di Ariel Bender. Seguiranno due album-cult, Mott nel 1973 e The Hoople l’anno dopo, ma la band non regge l’urto delle folle, del successo improvviso e Hunter lascia il timone. Gli Hoople rimasti proseguono come Mott per qualche tempo. Mick Ronson, ormai liberato da Bowie, è come un fratello per Ian Hunter, che ne intuisce il potenziale e lo tiene ben stretto a sé. Il sodalizio durerà fino al 1993, l’anno della morte prematura di Ronno. L’amico gli dedicherà Michael Picasso tre anni dopo, in Artful Dodger. Hunter nel frattempo intraprende una brillante carriera da solista, con alcuni flop e molti successi: All American Alien Boy, You’re Never Alone With a Schizophrenic (con la mitica Cleveland Rocks!) e Rant e When I’m President in tempi più recenti. Le hit più celebri? Once Bitten, Twice Shy, il primo singolo nel 1975 poi riarrangiato da molte band, e All of the Good Ones Are Taken, dal video ironico e indimenticabile. Quarantatré anni senza la storica band e la voglia di rimanere attuale, di produrre musica di qualità. Fingers Crossed, il suo ultimo album, è del 2016. Il primo singolo è Dandy, magnifico tributo a David Bowie. Un cerchio che si chiude.
Quest’estate i Mott the Hoople rimasti tranne Phally – Overend Watts e Dale Griffin sono scomparsi di recente, mentre Mick Ralphs è reduce da un ictus – si riuniranno per tre date europee. Dopo molti anni mancherà però il birthday gig, lo storico show della Winery di Varick Street a Manhattan che riunisce i fan americani di lunga data. Da una decina d’anni Ian Hunter è accompagnato dalla Rant Band, cinque musicisti di grande talento. Mark Bosch e James Mastro, ex Bongos, alla chitarra elettrica, poi Steve Holley, già batterista di Paul McCartney per un paio di album degli Wings e infine gli italoamericani Paul Page al basso e Dennis DiBrizzi alle tastiere.
Quando scopro i Mott the Hoople ho quindici anni e sono già insolitamente preparata in materia di musica. American Idiot dei Green Day, punk rock, è stato il mio primo album. Amo i Ramones e i Sex Pistols, ascolto già Bowie e Bolan da qualche tempo, ma di Ian Hunter, da brava italiana, non ho mai sentito parlare. Un caro amico amante del glam mi propone di ascoltare All the Young Dudes insieme: ti piacerà, vedrai, disse. Di quei momenti ricordo tutto, il click di avvio, il labbro che mi trema, le lacrime al ritornello. A fine canzone sono a pezzi e innamorata.
Ma quell’amico, che amico e basta non era, morirà improvvisamente di lì a breve rendendomi il rock indigesto per anni. Ascoltare i Mott the Hoople mi costringeva a rivivere il lutto. Dal concerto di Lou Reed a Loulé in Algarve allo show di Coventry non avrei più messo piede in una sala concerti. Ma una sera di novembre 2015, chiusa in casa da giorni per un’influenza tenace, ho pensato bene di cercare Ian Hunter su Google scoprendo così che mancavano pochi mesi al tour del Regno Unito. Senza pensarci due volte ho comprato un biglietto aereo per Birmingham e un ticket for the fantasy, come diceva Saturday Gigs. Da quella sera ho visto la Rant Band svariate volte tra States, Inghilterra, Scozia e Italia, cercando di coniugare lavoro e passione. Grazie a Paul, tra l’altro, ho avuto modo di stringere la mano a Ian e avere una fotografia con la band nel backstage della Winery. Una bellissima persona e un artista sottovalutato. Buon compleanno, eterno ragazzo. You were a dude and the dude was you.