Decisa, chiara. Combattente, come il nome del suo tour. Scandisce bene le parole, e ancor meglio i concetti. Perché come le ricordiamo di aver detto e come ci conferma di voler fare, “una volta che raggiungi i 60 anni non hai più tempo o voglia di dire di sì quando invece pensi di no: le cose le dici esattamente come le pensi”. E come le dice a tutti, le dice anche a noi de La Voce di New York. Fiorella Mannoia, al telefono, per citare una collega con cui ha condiviso tradizione musicale e scuola, è come un fiume di parole. Un fiume di concetti, di ricordi, di musica e di progetti. La cantante nata a Roma 63 anni fa, dopo essersi esibita per il suo 100esimo concerto a Milano, e dopo il grandissimo successo di “Un, due, tre Fiorella”, il TV show su Rai 1 che ha ottenuto il 21% di share e tenuto 4 milioni di persone incollate al televisore, è pronta al grande esordio statunitense: il 23 febbraio 2018, si esibirà per la prima volta a New York, al The Town Hall.
Non ha una canzone preferita tra quelle che ha cantato. Per una interprete sarebbe crudele, ci dice, essere costretta a sceglierne una. Ma è ben sicura di una cosa: ogni frase che ha pronunciato al microfono, ogni strofa ripetuta, ogni canzone intonata la re-intonerebbe non una ma mille volte. Nessun rimpianto insomma. Anche perché i testi che ha reso vivi con la sua voce, icona di un’Italia che c’è ancora, sono spaventosamente attuali. In primis, la fragilità delle donne da salvaguardare, “perché non è una colpa essere fragili” o “essere pronte a dire un altro sì”. La necessità, quasi d’obbligo, di continuare a credere nell’amore perché “si deve sempre reagire alle delusioni e gli uomini non sono tutti uguali”. E l’importanza del movimento #MeToo, contro “gli abusi di potere che devono essere sempre denunciati, perché un uomo che abusa del suo potere in un posto di lavoro è da condannare senza sé e senza ma e c’è ancora un enorme sommerso da scoperchiare”. Mentre da non condannare è chi, maldestro, non sa corteggiare. Perché quel genere di uomo è “solo da respingere”.

Con uno sguardo alle elezioni in Italia del 4 marzo, con una parte del cuore rivolta a sud, all’Africa che l’Occidente ha maltrattato “e ora ne viviamo le conseguenze sulla nostra pelle” perché “tutto ricade sulle nostre spalle”, Fiorella Mannoia si prepara al suo esordio al The Town Hall di New York. Pronta a cantare, come sempre, con il cuore in mano. Dicendo quello che le passa per la mente, nel preciso momento in cui le passa per la mente. E con un animo sempre disruptive che le permette di dire: “Nel mio concerto a New York prometto emozioni”. Non ne dubitiamo.

Fiorella Mannoia, lei ha cantato tantissime canzoni che gli italiani nel mondo ricordano e cantano, scritte da diversi autori. Qual è quello che è più in sintonia con le sue parole? Con quale ha avuto più feeling?
“Quello con cui ho collaborato di più è stato Ivano Fossati ed è quello che anche musicalmente, proprio a livello di estensione, mi si avvicina di più. Nel senso che quando so che Ivano scrive una canzone per me, so che quella canzone non mi darà difficoltà vocale perché siamo sulla stessa tonalità. Per cui forse quello con cui sono sempre stato in sintonia anche umana è lui. Ma non è solo: ho cantato molto anche con Enrico Ruggeri nel corso degli anni, con De Gregori. Non saprei dire esattamente. Forse Ivano è quello che umanamente mi è più vicino, ecco”.
E quindi la canzone a cui lei è più affezionata, qual è? So che le canzoni sono un po’ come dei figli per voi cantanti, quindi non si potrebbe dire, ma la incito a scegliere…
“Difficile dirlo, sì. Come dire, Quello che le donne non dicono è la canzone che mi ha aperto le porte della canzone d’autore ed è quella che mi rappresenta di più, per cui la gente mi riconosce, a cui devo tantissimo. Ma sono molto affezionata a I treni a vapore, ad esempio. È difficile dirne una. È quasi crudele (ride, ndr)”.
Guardi, glielo confesso: la mia canzone preferita da lei cantata è “Come si cambia”.
“Ecco vede, ognuna ha la sua. Immagini quanto sia difficile per noi. Noi poi in genere siamo sempre tendenzialmente portati ad avere piacere di cantare l’ultimo disco, l’ultimo nato diciamo, e tutte le attenzioni sono rivolte a quello”.
Ha citato Quello che le donne non dicono. Un testo particolare, che ha trent’anni. Non crede che l’immagine delle donne in quella canzone sia nel mondo di oggi stereotipata? “Fragili”, “arrendevoli”, pronte a dire ancora “un altro sì”. Oggi la canterebbe in modo diverso? E Ruggeri, la scriverebbe in modo diverso?
“Beh, le dico, sulla fragilità non bisogna vergognarsene. Le persone sono anche fragili, non è una debolezza, e lo sono anche le donne. Non bisogna sempre ostentare forza e coraggio, bisogna accettare le fragilità, che non ha accezione negativa. Sul ‘dire un altro sì’, beh, significa che siamo pronte di nuovo nonostante le esperienze negative a continuare a credere nell’amore. Ci sono tanti modi di leggerla, sa. Essere ancora pronti ad amare nonostante un’esperienza negativa è una cosa positiva, perché non bisogna mai chiudersi. Bisogna essere pronti a rimettersi in gioco, sperando certo di non incappare negli stessi errori, ed essere quindi pronti ad amare di nuovo. Ma questo fa parte della vita”.
Quindi è un inno al rimettersi in gioco coi sentimenti?
“Guai se un’esperienza negativa ci porta a chiuderci in sé stesse e ad avere paura degli uomini. Guai a chiudersi. Gli uomini non sono tutti uguali, per cui certo bisogna non ripetere gli stessi errori, ma non bisogna demonizzarli tutti. Bisogna sapere scegliere quello giusto e non cadere nelle trappole. E per questo, quella canzone è positiva”.
Ecco a proposito dei diritti delle donne, sul movimento #MeToo, in qualità di donna e di cantante, provo a giocare con le parole della sua canzone e le chiedo: che cosa le donne ancora non dicono, oggi?
“Questo è un movimento che io ho appoggiato, e non bisogna mai dimenticarsi di non confondere le avances di un uomo che, come dice Catherine Deneuve, a volte può essere maldestro, con l’abuso di potere. Perché è vero, è possibile che un uomo ci provi con una donna in maniera maldestra e la donna deve avere tutte le possibilità e i diritti di dire: ‘Guarda, hai capito male. Fermati perché non sono disponibile’. Ma con #MeToo qui si sta parlando di abusi di potere, che è ben diverso dall’approccio perché abuso di potere significa che il datore di lavoro abusa del suo potere per attuare molestie su una donna che lavora e sa benissimo magari che ha un posto di lavoro che non lo può perdere. Questo è da denunciare e questo succede nelle fabbriche, negli uffici, nel cinema, nella musica e in tutti i luoghi di lavoro. Bisogna denunciare l’abuso di potere, non l’avances di un uomo maldestro che non ha capito e che magari ti mette una mano sul sedere. Quella è un’altra cosa. L’abuso di potere va denunciato, sempre. Questo movimento delle donne non deve dimenticare mai di denunciare l’abuso di potere, non il corteggiamento maldestro di chi è sciocco”.
Insomma, distinguere tra uomini stupidi e uomini predatori.
“Esatto, chi approfitta del proprio ruolo per molestare una donna e ottenere qualcosa che va al di là di ciò che le viene offerto, va denunciato”.

Io ricordo un film di una ventina d’anni fa, un film americano con Michael Douglas e Demi Moore, che ribaltava i ruoli: un uomo che veniva abusato dal suo capo donna. Lei crede a questo scenario?
“Perché no? Sì, l’abuso di potere non ha sesso. Certo, ed è innegabile, è che la statistica ci insegna che sono di più gli uomini nei posti di potere delle donne. Ecco perché la percentuale è così più alta, perché i posti di potere sono occupati dagli uomini. Ma se si registrano nel mondo situazioni al contrario, l’uomo che denunci! È il concetto di abuso di potere a essere sbagliato”.
Ma con il movimento #MeToo, almeno in Occidente possiamo quindi dire di essere a un punto di svolta, effettivo, che quell’abuso e quelle forme di potere non si accetteranno più?
“Che non si accetterà più è azzardato da dire. Io spero che accada, ma è azzardato. Anche perché tutte le donne che hanno denunciato fino ad ora e hanno fatto bene a farlo sono attrici, sono donne benestanti. Ma quanto sommerso c’è nei posti di lavoro? Con donne che non sono famose o non sono ricche e che purtroppo sopportano nei posti di lavoro le avances e le molestie, e che per questo non possono denunciare perché da quel lavoro dipende il sostentamento della famiglia?”.

In America il Presidente Donald Trump ha espresso opinioni shock su come conquistare le donne, opinioni che tutti hanno potuto ascoltare in una registrazione scioccando gli americani eppure è stato eletto e…
“Beh ma anche noi abbiamo avuto un Presidente del Consiglio eletto che aveva una visione delle donne un po’ strampalata. Ognuno si tiene il politico che si è eletto, che le devo dire? Se è stato eletto vuol dire che la gente lo ha voluto”.
A proposito, il 4 marzo in Italia si vota. Lei qualche anno fa aveva mostrato simpatia per i M5S, poi però si è detta stufa di loro per certe posizioni, soprattutto sui migranti. Che ne pensa?
“Sì sull’immigrazione ad esempio non sono molto chiari, perché il tema è scottante. E quindi chiunque manifesti un’apertura viene attaccato. Ma l’apertura non deve esserci solo in Italia sull’accoglienza, che è viceversa un problema mondiale ed europeo, un fenomeno biblico che va risolto con la volontà politica del mondo intero”.

So che ha fatto un viaggio in Africa, tra l’altro…
“Sì, in Kenya. Non sono esperta di Africa ma con il fatto che ho registrato un album dal nome “Sud” mi sono informata. Non si può pretendere di andare in un intero continente e farne carne di porco con le multinazionali, con le colonie finite ma che non sono finite affatto, con multinazionali che distruggono interi ecosistemi, senza nessuno che dica niente. Qui ci vuole un ridisegnamento delle risorse: non si può pensare che si possa andare in un continente e fare i propri comodi senza pagarne le conseguenze. Quello di oggi è il risultato di politiche scellerate”.
Il Segretario Generale Onu Antonio Guterres ha detto di recente che i migranti non sono un problema, ma un’opportunità. Frase fatta o c’è del vero?
“Innanzitutto diventano opportunità se si sa come gestirli e occuparli, perché se vengono rinchiusi nei centri come gli animali diventano una bomba che rischia di esplodere. Le nostre periferie in Italia del resto sono come bombe che stanno per esplodere perché già hanno grandi problemi di loro. E riempirle di migranti che non sono occupati e che rischiano di diventare manovalanza della criminalità organizzata che c’è già, diventa un problema serio. Noi in Italia siamo stati abbandonati: i francesi hanno bombardato la Libia senza che nessuno gli dicesse nulla, creando un caos nella regione pazzesco, e poi hanno chiuso le frontiere. Ma davanti alla Libia ci siamo noi. Veda Ventimiglia. Bisogna che il mondo intero si prenda le responsabilità di quello che ha fatto in quelle aree: bombardare la Libia è stata la cosa più assurda e più vergognosa degli ultimi tempi. Così come l’Iraq. Hanno bombardato la Libia, hanno bombardato l’Iraq, hanno creato un tale caos che alla fine al confine a pagarne le conseguenze siamo noi, abbandonati a noi stessi”.

Torniamo alla musica, secondo lei è uno strumento sociale? De Gregori ci disse che la musica non deve insegnare nulla, spiazzandoci un po’. Lei cosa ci dice?
“Le dico che la musica di Francesco mi ha insegnato molto invece, la mia formazione di essere umano la devo agli studi ma anche alla musica. De André, ad esempio. Oltre che a Francesco appunto, che ha contribuito alla formazione di una generazione intera, come Dylan in America. Penso l’abbia detto per eccesso di modestia. E credo anche che i giovani abbiano bisogno di punti di riferimento musicali. Non parlo però dell’essere fan, che è un concetto che proprio non mi piace, penso di essere l’unica in Italia a non avere un fan club. Non lo voglio, non mi piace che la gente mi veda un idolo. Mi fa piacere essere punto di riferimento, detesto essere idolatrata”.
Ma tornando un attimo al #MeToo, c’è una canzone che si sposa particolarmente con il movimento?
“In questo momento la canzone che più rispecchia questo movimento delle donne e il momento storico di oggi si chiama “Nessuna conseguenza”, dell’ultimo disco. Una canzone che ha aiutato tante donne a reagire, da quello che mi scrivono via mail. Oppure c’è “Combattente” che esorta a rialzarsi sempre dopo una caduta. Ma ci sono tante canzoni che hanno fatto presa sulle nuove generazioni, che fino a poco tempo fa non avevo”.
Qual è la canzone che secondo lei descrive meglio l’Italia che ha vissuto lei e l’America degli ultimi 30-40 anni?
“Anche qui, è difficile dire una sola canzone che descriva un intero Paese. Penso a Bruce Springstein con ‘Born in the USA’ per l’America e forse “W l’Italia” di De Gregori per l’Italia”.
Lei ha dichiarato di recente una frase vicina a quella di Jeff Gambardella de La Grande Bellezza, del film Premio Oscar: “Non mi va più di perdere tempo, perché il tempo è un bene prezioso”. E poi ha aggiunto: “Non mi va più di dire sì quando penso no. Se uno non dice quello che pensa a 60 anni, che cosa campa a fare?”. La conferma?
“Beh, sì, sennò quale sarebbe l’unico vantaggio dell’età che avanza? Poter dire tutto quello che si vuole. Io non mi freno più, dico sempre quello che penso e cosa secondo me non va”.

C’è una canzone nel suo enorme repertorio che non canterebbe più?
“Le dico la verità, no. Dovrei andare troppo indietro nel tempo, ma penso che ogni canzone rappresenti un periodo storico quindi la ricanterei. “Caffè nero bollente” ad esempio rappresenta com’ero nel 1981: magari non la canterei più in quel modo perché sono lontana da quel genere musicale, ma non rinnego i contenuti”.
Mina, Milva, Ornella Vanoni, Patty Pravo, Mia Martini…: c’è stata una grande tradizione di interpreti femminili nella cultura musicale italiana. Lei si sente di far parte di questa tradizione?
“Fatte le debite proporzioni con le possibilità vocali, perché Mina ad esempio ha un’altra estensione vocale mentre con una Ornella Vanoni ho più compatibilità, direi che sì, mi sento parte di questa tradizione”.

Ed è ancora viva o è finita, questa tradizione? Ha degli eredi?
“Credo che solo il passare degli anni ce lo potrà dire, perché chi esce dai talent oggi non ha nemmeno il tempo di poter maturare. Oggi se esci da un talent riempi subito il palasport, noi ci abbiamo messo vent’anni di esperienza e di gavetta prima di farlo. Quindi non so se queste nuove cantanti riusciranno a maturare con gli anni, leggendo tanti libri e migliorando loro stesse. Io glielo auguro, di non farsi prendere da un facile successo e di fermarsi lì come esseri umani. Non si può essere grandi interpreti se non si cresce, se non si capiscono le canzoni che si cantano, se quei testi non vengono assimilati, soprattutto se si tratta di testi importanti. Devi leggere, capire le metafore, crescere come essere umano e poi come artista. E io è questo che auguro a queste giovani cantanti, che oggi cantano canzoni leggere come facevo anche io alla loro età. Ma man mano che crescevo però, ho cercato di fare canzoni che cantassero il mio essere, che mi somigliassero. Mi sono sempre assunta le responsabilità di quelle parole, ma questo l’ho capito nel mio percorso, maturando. Spero possano farlo anche loro senza pressioni”.
Come Ornella Vanoni, lei ha cantato molto anche la musica brasiliana…
“Sì, la mia voce come quella di Ornella si presta a quel tipo di musica. Ho cantato anche con Pino Daniele...”

Agli italiani d’America, che saranno in maggioranza nel teatro ad ascoltarla, quale canzone dedica del suo grande repertorio?
“Non me la sento di dirne una. Ogni canzone racconta una storia, è una piccola sceneggiatura e un piccolo mondo. Io dedico a loro tutto il concerto e ogni canzone che canterò, perché ognuna rappresenta una sfaccettatura di tutto l’animo umano”.
Insomma, lei promette emozioni.
“Sì, esatto. Prometto emozioni”.