A Francesco De Gregori piace creare occasioni di incontro intime, anche a New York. Se vi sembra un paradosso, dal momento che parliamo di uno dei cantanti italiani più seguiti, la chiacchierata di lunedì sera, 7 novembre, alla Casa Italiana Zerilli Marimò e il concerto del “Principe” al Town Hall del giorno dopo lo hanno confermato. Infatti, i 1500 paganti del teatro si sono potuti godere appieno il cantante, concessosi senza ritrosie in una prova maiuscola.
Cantante bagnato, cantante fortunato, verrebbe da dire: il cielo sopra Manhattan è grigio, ma nemmeno la pioggia ferma i numerosi fan di De Gregori, che si dimostra ancora una volta capace di unire generazioni e nazionalità diverse grazie ai piccoli eroi e agli amori impossibili delle sue canzoni. Ad applaudirlo sono infatti moltissimi italiani, ai quali la melodia struggente di “Viva l’Italia” regala un po’ di nostalgia (nonché un solitario pugno chiuso alzato in mezzo al pubblico, memoria di un passato ideologico ormai abbandonato, ad accompagnare il passaggio “Viva l’Italia che resiste”), ma anche tanti americani, come la signora di mezza età seduta in platea che accompagna ritmicamente con la testa ogni nota e che si fa tradurre dal marito italiano le parole delle canzoni. Un pubblico eterogeneo anche per età: ci sono i fan storici, con i capelli bianchi, che si mostrano le foto di figli e nipoti sugli smartphone, prima dell’inizio del concerto; e ci sono i trentenni, che lo hanno scoperto più tardi e che ne apprezzano di più il repertorio storico.
Francesco De Gregori sale sul palco puntualissimo, alle 20.05. L’intimità da incontro tra amici è sottolineata dalla sobrietà del set: l’asta col microfono al centro, per lui, poi da sinistra a destra i quattro musicisti che lo accompagneranno con chitarre, basso, strumenti elettronici e piano. Non c’è la batteria, forse perché troppo baccano non serve. Il cantante è magrissimo, vestito di nero ma con mocassini bianchi, gli occhiali ma niente cappello: subito sommerso dagli applausi, ci tiene a specificare che questa è la prima volta che canta a New York, e questo gli fa un certo effetto. La scaletta inizia con “Gambadilegno a Parigi”, canzone tratta dall’album “Pezzi” del 2005: il “Principe” presenta ogni canzone con una breve intro, spesso spiritosa e mai troppo esplicita, così che le note sgorghino sempre come una piccola sorpresa anche per le orecchie dei più affezionati. La prima parte del concerto scivola via all’insegna di quelle che lui stesso definisce, scherzando, delle «canzoni tristi o tristissime», aggiungendo però che tanto «se siamo allegri noi, che ce ne importa?». Tra le più intense “Il cuoco di Salò” (dall’album “Amore nel pomeriggio”, 2001) e “Non è buio ancora”, traduzione in italiano di “Not Dark Yet” di Bob Dylan. Dylan è un autore che il cantante ha rivisitato recentemente con l’album “De Gregori canta Bob Dylan – Amore e furto” del 2015: nel presentarla, ha scherzato sul suo «cantare in italiano, in America, la canzone di un cantante americano».
«Ora invece ci divertiamo» introduce alla seconda parte del concerto, incentrata sulle canzoni più famose del suo repertorio, quelle che non hanno bisogno di introduzioni e per questo partono subito, magari lasciando spiazzati quando il cantante strimpella qualche nota a caso accordando la chitarra. Si parte con la recente “Vai in Africa, Celestino!” dall’album “Pezzi” (2005), e più avanza nel territorio della sua carriera più De Gregori regala al suo pubblico delle piccole chicche. Lo strumento principale del suo show è la voce, potente e fresca, identica al timbro che tutti quelli che come me non lo avevano finora ascoltato dal vivo conoscono. E poi con una mimica coinvolgente quando – come un direttore d’orchestra – agita le mani o allunga le braccia in una sorta di metaforico abbraccio nei confronti dei membri della band sul palco con lui. Il pubblico viene coinvolto sempre di più in un crescendo che passa da “La Storia” (con il famosissimo «La Storia siamo noi, nessuno si senta offeso») a “Titanic” (che in un’intervista a La Voce di New York aveva promesso di voler dedicare a quei “ragazzi di terza classe che per non morire si va in America”), fino a “Generale” (resa molto blues con l’accompagnamento dell’armonica al ritornello). Per arrivare a “Buonanotte fiorellino”, a “Rimmel”, e alle strepitose “Alice” e “La donna cannone”, che lascia cantare al pubblico al suo posto.
Come in ogni concerto che si rispetti, dopo quasi due ore De Gregori si ritira ma solo per essere richiamato a grandissima voce. A questo punto la sorpresa finale, perché insieme a lui c’è la moglie Alessandra Gobbi, una ragazza «che ho conosciuto tanto tempo fa e che mi è piaciuta così tanto da diventare la mia ragazza e poi mia moglie». Con lei, la sua Chicca, De Gregori regala al pubblico un duetto di “Anema e Core”, canzone napoletana di Salve D’Esposito e Tito Manlio incisa negli anni ’50: un ultimo messaggio di amore e di speranza.
Due ore di musica in un clima, come detto, di grande intimità. De Gregori, come un padrone di casa gentile e premuroso, introduce il pubblico alle sue canzoni ma senza mai imporsi. Accontenta i gusti dei suoi fan di ieri e di quelli di oggi cantando praticamente tutto il repertorio: uniche eccezioni “Il bandito e il campione” e le canzoni scritte con De André negli anni ’70, mentre non è mancato un toccante ricordo del grande amico Lucio Dalla con la sua “Gesù bambino”. Dopo la data di Boston, domenica 5 novembre, il tour americano di De Gregori si chiude con un grandissimo successo: buona la prima a New York, caro Principe, e arrivederci.