Scriveva Schopenhauer: “Quando ci si accorge che l‘avversario è superiore e si finirà per avere torto, si diventi offensivi, oltraggiosi, grossolani, cioè si passi dall’oggetto della contesa (dato che lì si ha partita persa) al contendente e si attacchi in qualche modo la sua persona.”
Delle tante espressioni linguistiche che l’italiano ci ha regalato per descrivere qualità e, come in questo caso, qualità anche meno invidiabili, ce n’è una che sembra non aver perso il suo lustro. Non è noto chi lo pronunciò per primo, ma quel “lei non sa chi sono io” ancora oggi ha i suoi accoliti.
Anzi, ha esteso la misura in termini di privilegi percepiti. La sindrome del lei non sa chi sono si è evoluta. Quel senso di entitlment, del sentirsi cioè autorizzati a fare o dire tutto anche quando questo significa non rispettare le regole. Appunto, perchè quel lei non sa chi sono io è come se misticamente facesse discendere su colui che lo pronuncia un “diritto inalienabile” a usare per esempio la corsia preferenziale per tagliare il traffico, saltare la fila, o l’usare un linguaggio volgare, una volta si diceva da scaricatore di porto, poveri portuali, in un apparente senso di libertà che nessuno deve osare contraddire.

Totò, Manfredi, Sordi, ce l’hanno ricordato quanto all’italiano, nel senso generale del termine, piaccia l’avere ragione, il non mettersi in discussione. Qualche tempo fa, scrissi un mio pensiero su una pagina Facebook di un gruppo di cui faccio parte. Non mi capita spesso di avere il tempo di entrare in discussioni, men che meno in risse virtuali. Il lavoro, i miei studenti di italiano e, per finire, un figlio affetto da deficit dell’attenzione (per chi non conoscesse questo disturbo, sono quelle persone quasi sempre molto intelligenti, con un quoziente intellettivo alto o sopra la media, ma che si perdono in un bicchiere d’acqua perchè, appunto, non riescono a concentrarsi sulle attività da svolgere) mi precludono questo lusso. Il mio post prendeva spunto da un episodio dove un adulto si era rivolto ad un bambino con un…ti do un calcio in…la parte anatomica è facilmente individuabile.
Poco importa se quel bambino sembra stesse giocando in maniera un po’ troppo rumorosa davanti al negozio del tiracalci e forse meritava una strigliata. La propensione ad usare subito modi aggressivi, quel senso di insofferenza se qualcosa detto o fatto non è allineato alla “giustezza” del nostro punto di vista, è una tendenza che non posso fare a meno di notare ogni volta che torno in Italia. Un uso invadente di un linguaggio volgare, dell’insulto libero da parte degli adulti ma, sempre più spesso, anche da giovanissimi. Una volta il vaffa, o cicciobomba per prendere in giro un compagno di classe sovrappeso, e poche altre infelici espressioni, erano il linguaggio che si poteva sentire nei cortili sotto casa quando ci si ritrovava dopo i compiti.
Erano accettabili? Accettate? Ovvio che no, il denigrare, l’usare un linguaggio scurrile non è mai accettabile. Si usava, ma non era diventato la normalità. Oggi però la tendenza si è invertita. Sia chiaro, qui non si sta parlando di 60 milioni di italiani che si sono lentamente incafoniti guardando reality show o lo scambio di turpiloqui tra politici. Il solo fatto però che una consistente percentuale di adulti e non solo si senta legittimato a usare espressioni volgari in ogni situazione, a denigrare, a coprire di epiteti il malcapitato insegnante che cercava solo di fare il proprio lavoro, mi fa pensare a una sorta di devoluzione della società.

C’è chi ha commentato la mia posizione dicendo che tanto ormai fanno tutti così, è la norma. Altri hanno plaudito all’adulto aggiungendo che di calci in… ne sarebbero serviti due. Le risposte e la tracotanza che mi sono tirata addosso mi hanno infastidito, non tanto perchè mi rendevo conto di parlare con persone che non avevano alcun interesse a mettersi in discussione, tu non sai chi sono io, io parlo come mi pare, quanto mi pare, ma perchè con quel: “fanno tutti così, perfino bambini di quinta elementare bestemmiano e ne dicono di ogni”, implicitamente si legittima un qualcosa di sbagliato.
Lo scrittore Italo Batavo nel suo libro L’Italia di sempre, edito nel 2019 scrive: “Maleducati, scortesi, aggressivi, incivili. Sempre di più, sono gli italiani, ovunque: in casa, in auto, per strada, all’estero, perfino online. Negli ultimi decenni gli abitanti della penisola sono stati oggetto di una mutazione antropologica: hanno deciso di dare a tutti la licenza di fare il proprio comodo senza curarsi degli altri, senza punizioni e sanzioni sociali. Ne è uscito un paese irriconoscibile e superficiale, dove c’è una continua esibizione di cafonaggine, ignoranza e volgarità”.
Non mi definisco una bigotta, anzi ho una sorta di idiosincrasia per i bacchettoni, nè mi indigno per una parolaccia sentita, ma resto dell’idea che debbano esistere dei limiti, situazioni e luoghi dove un po’ di perbenismo, nel senso di buone maniere, non guasterebbe. Il turpiloquio a mio avviso segna una visione rozza della lingua, soprattutto se, come adesso, viene visto come una cosa normale. L’Italia è sicuramente in buona compagnia, che siano gli Usa, la Germania, o il Sud Africa: insomma, la rozzezza si trova ovunque. La differenza sta nel legittimarla o prendere posizione contro di essa. Nel mio post commentavo cosa accade nella società italiana, e per un attimo avevo dimenticato di ossequiare il Lei non sa chi sono io! L’Italia sarà sicuramente uno tra i Paesi meno violenti, ma è anche tra i Paesi più maleducato al mondo.