Cosa sarebbe avvenuto, se in altri tempi che furono si fosse varcato il confine non plus ultra di questa «aiuola che ci fa tanto feroci»?
Nell’VIII secolo a.C. l’aedo Omero, “Colui che non vede”, raccolse e cantò la vita di uno dei partecipanti decisivi per la conquista di Troia, quello del cavallo ingannatore. È l’opera più moderna ed originale che avviò la civiltà occidentale attraverso un procedimento al playback, per narrare la completa biografia, dalla nascita alla morte di Odysseus, l’Oudeis o ‘Nessuno’, come si connota egli stesso all’orribile antropofago Polifemo; il nome divenne in dialetto eolico Ulysseus, il latino Ulixes dall’eolica Cuma, il nostro Ulisse, quello della riscrittura di James Joyce o della interpretazione di L’ultimo viaggio di Giovanni Pascoli o il moderno superuomo di D’Annunzio. Solo questi brevi flash per un eroe sul quale sono piene biblioteche di scritti.
Cantava Omero che al momento della parenza, dopo un anno, dalla dorata prigione di Eea, l’isola dell’aurora (Circeo o Ponza?), rinunziando all’immortalità e alle malie di Circe, maga o «dai riccioli belli, dea tremenda con voce umana», Odisseo, sempre ossessionato dalla nostalgia della sua Itaca e di Penelope, seguì il di lei consiglio e andò ad interrogare nell’Ade sulla via del ritorno il Tiresia, cieco e indovino per antonomasia. È la prima nekyomanteia in assoluto della storia umana, il rito della profezia dei morti. Tiresia gli racconta dei Pretendenti, i Proci che gozzovigliano nella sua regia e di Penelope che tesse e disfa di notte la tela, gli predice la loro uccisione «con la forza o con l’inganno». Il tutto avverrà e sarà cantato nella seconda parte dell’Odissea che prese nome proprio dall’uccisione dei pretendenti (la Mnesterophonia).

Per noi di estremo interesse è il misterioso epilogo, nel quale così l’indovino consiglia ad Odisseo:
Prendi un agile remo, e in via ti poni;
E va’, finché non giunga ad una gente
Che visto mai non abbia il mar pescoso,
Che sal non mesce ai cibi, e non conosce
Che sian le navi dalle pinte prore,
E i remi che son l’ali delle navi.
Spiega che comprenderà di essere giunto fra tali popoli,
Se qualcun che t’incontri sul cammino
Dirà che un ventilabro hai su le spalle.
Allor tu pianta l’agil remo in terra;
E, svenati a Nettuno un arïete,
Un toro e un porco non castrato, a casa
Ritorna, ed offri senza indugio a tutti
Gl’immortali del cielo abitatori
Un’ecatombe. Al mar così sfuggito,
Lentamente da placida vecchiezza
Consunto, morirai dal tuo felice
Popolo circondato. Io tel predico.
È il mistero più arcano e sconvolgente del poema sulle peripezie di Odisseo e quello che affascinerà per secoli. Tutto il canto aveva come tema il ritorno, il nostos (da cui ‘nostalgia’, cioè ‘dolore del ritorno’). E allora? Perché una nuova partenza, se tutto il poema era motivato dalla brama del ritorno? E a che scopo? Chi è questo popolo che non conosce il mare e non usa il sale? E cosa rappresenta l’uomo del ventilabro, la pala di legno che divide grano da pula in uso ancora nel dopoguerra dai nostri contadini? Vorrebbe forse alludere ad un popolo dedito all’agricoltura che sconosce la pesca? E cosa vuol dire che “la morte giungerà dal mare”?

E fu l’anno 1321, l’anno della morte di Dante Alighieri, già così universalmente noto, caso unico, con il solo suo nome. Aveva appena terminato la Commedia, giustamente definita già da Giovanni Boccaccio “Divina”. Era stata l’opera del lungo suo esilio, l’irrequieto vagare dal 1302, dalla Lunigiana a Ravenna che accolse le sue spoglie. Come lascia intendere dall’incipit doveva essere sui trentacinque anni, quel “mezzo del cammin” della vita umana. Così lui stesso lo spiegava in un passo del Convivio (IV, 23, 6-10). Nato nel 1265 l’avvio della prima cantica si deve collocare nella primavera del 1300, anno straordinario e speciale in quanto papa Bonifacio VIII Caetani indisse il primo Giubileo della chiesa cattolica. Non gli bastò perché Dante lo spedisse all’Inferno fra i simoniaci, conficcato in una buca a testa in giù e i piedi accesi da fiammelle. Dante non conosceva il greco, come anche gli uomini colti del suo tempo. Boccaccio ammirava i caratteri del suo codice e se ne estasiava. Perciò cominciò l’avventura dell’apprendimento di tale lingua. Tuttavia sarà Dante a far rivivere in una dimensione arcana l’uomo omerico dal multiforme ingegno (polytropon, πολύτροπον) nella nuova società dell’evo medio, e a spingerci a interrogarci sulla mirabolante intuizione di Cristoforo Colombo di cercare nuove terre al di là di quelle colonne nelle quali si era posto l’estremo ed invalicabile confine del mondo. Caso emblematico, anche quella di Dante era stata una katabasis, una ‘discesa negli Inferi’ in carne e ossa, l’Averno che aveva cantato il suo duca e maestro, Virgilio, nell’evocazione delle anime da parte di Enea, nell’antro della Sibilla cumana (Eneide, libro VI). Un altro solo eroe era sceso nel regno dei morti, l’Eracle che ripotò Alcesti al marito Admeto, ma ancor più portentoso nella sua decima fatica, quando catturò Cerbero, il cane a tre teste che custodiva l’Ade. Orfeo aveva fallito la sua missione di riportare in vita la sua Euridice. Anche Dante, esule dalla perduta Firenze e ramingo senza meta alla ricerca di se stesso, ripete questa mistica e rituale esperienza della discesa nell’Oltretomba, affascinato e guidato però dall’Ulisse a lui noto, quello della mediazione di Ovidio, il poeta degli amori, plurali rispetto all’unica Lesbia di Catullo, il poeta della cosmesi delle donne e dello straordinario viaggio nei miti vissuto nelle sue Metamorfosi. Era l’Ovidio della fine di un’epoca, dell’esilio a Tomi nel Mar Nero ove morrà, il poeta che Dante saccheggerà come fonte dei miti antichi. Ovidio presenta un Ulisse fallace, uomo di raggiri e falsità, a cominciare dal darsi per pazzo per non andare alla guerra di Troia per finire con l’inganno del cavallo di legno. Così è per lui narrato da Macareo, compagno di Enea che egli abbandonò quando «infiacchiti e resi tardi dell’inoperosità, ci si comandò di entrare di nuovo in mare, di nuovo far vela». Egli memore del monito di Circe sulla lunghezza del viaggio e sui rischi del mare preferì restare e non seguirlo (Metam. XIV, 435-40).

Ed è questo l’Ulisse che Dante colloca assieme a Diomede, suo sodale in eroismi, fra i consiglieri fraudolenti, presenti e indissolubilmente legati anche in morte in una fiamma biforcuta. Ma con Dante (Inferno, XXVI, vv. 49-142) è tutt’altra storia, in un bipolarismo in cui si riverbera il mistero dell’ultimo viaggio adombrato da Omero. Se in Omero era il prototipo del vagare, prigioniero di forze centrifughe che egli alla fine riesce a controllare, nel passaggio dal caos al cosmos, con Dante è campione dell’eccesso alla ricerca dell’altro e per conseguenza di se stesso, campione della conoscenza che oltrepassa i limiti umani fino alla punizione divina. Commenta Antonio Buttitta che non è più l’eroe mitico, ma diviene l’eroe laico, prefigurazione della società del Rinascimento, è soprattutto un alter ego di Dante, novello Ulisse coinvolto in un viaggio rischioso a sfida della cultura ufficiale del suo tempo. Partito da Circe,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore.
Ecco la chiave di queste esperienze eccezionali che meglio specificherà in seguito. Perciò si rimise in mare e con una piccola barca e pochi fidati compagni, ormai vecchi e stanchi vide la Spagna e il Marocco e, lasciata Siviglia e Ceuta, attraversò le Colonne di Ercole, l’odierna Gibilterra (Gebel-el-Tarik, montagna di Tarik),
quella foce stretta
dov’ Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si mett.
Così apostrofò i suoi compagni:
O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.
E «volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo». Andando a sinistra scorgeva le stelle della notte e per cinque lune,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’ altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.
Quale era la terra oltre quelle colonne mai profanate, la terra misteriosa, profetizzata e rimasta innominata e ignota per la morte di tutti, quella terra del ‘non più oltre’, il non plus ultra? Era il sogno di quella terra da tutti predetta, da Omero all’isola Atlantide nota a Platone (Timeo 17a-27b)), quando Colombo e i marinai «si misero a navigare alla cappa, temporeggiando sino al venerdì, quando giunsero a un’isoletta dei Iucayos che nella lingua degli indigeni era detta Guanahanì» (Diario del primo viaggio).

Mi è piaciuto rievocare questo perenne sogno dell’umanità, allora la ricerca della mitica Atlantide, oggi la Luna e Marte, in celebrazione del Dantedì, 25 marzo, data in cui si ipotizza l’inizio del viaggio nell’Inferno. E a umile corollario di questo anno particolare che celebra in tutto il mondo il VII Centenario dalla morte con migliaia di manifestazioni il più ‘divino’ poeta che tentò il cammino alla scoperta delle profondità dell’anima umana. Era stata la sua una delle tante pazze profezie della letteratura, da Jules Verne con le sue Cinque settimane in pallone o Dalla Terra alla Luna, al mirabolante dei romanzi distopici odierni, 1988 di George Orwell, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, Abissi d’acciaio di Isaac Asimov. In questa catastrofe dell’uomo sconfitto da un virus senza vita nell’era della scienza perfetta, forse la speranza di Dante:
Non v’accorgete voi che siam vermi
nati a formare l’angelica farfalla.
E ancora con lui verrà anche il giorno in cui «torneremo a riveder le stelle?».