In un recente articolo, Elisabetta de Dominis fa delle considerazioni interessanti sulla salute della nostra lingua, la quale soffre una scissione fra tendenze conservatrici (in dissoluzione) e tensioni progressiste anglofonizzanti. La mia breve analisi partirà proprio dalla lingua inglese, e dalle sua peculiare posizione progressista, per poi soffermarsi su quelle che a mio avviso sono le due componenti fondamentali della lingua italiana.
La lingua inglese cresce nei vocaboli ad un ritmo molto superiore rispetto a quella italiana; questa sua capacità rispecchia i processi creativi di una politica progressista che consuma termini sigle ed espressioni attraverso incessanti movimenti d’opinione; i quali, a loro volta, formano e guidano il dibattito del paese. All’interno di questa lingua, la capacità di nominare (sintetizzando opinioni e ragionamenti piuttosto complessi) è notevole.
Questa capacità di essere paradigmatica della lingua, sospinge la cultura verso la scienza ed i suoi progressi in chiave sociologica, psicologica, delle scienze cognitive e comportamentali. Le materie umaniste devono integrarsi (o compromettersi) all’interno di un sistema di analisi di dati e di esperimenti senza i quali non sarebbero recepite in accademia e non potrebbero gettare le basi per il futuro dibattito pubblico; il quale, a sua volta, trasformerà questioni (di genere, di razza, di sesso etc.) in materiale politicamente corretto per talk show, tv show e film.
L’inglese arriva, per addizione, ad una grado elevato di complessità; tuttavia parte da informazioni semplici e da intuizioni cartesiane; verità che si devono dare per assodate. Facciamo un esempio: quando si arriva in una università americana, da professori o insegnanti stranieri, si partecipa a riunioni più o meno formali, in cui si viene preparati a al sistema educativo americano. Non vi sono discussioni, ma linee guida, non vi sono differenze di vedute ma uno sguardo sulla differenza che la scopre e la riconosce tale, accentando e rispettandola a priori.
Tale rigidità fa parte della lingua inglese, delle verità granitiche, delle certezze inscalfibili della sua cultura. Le differenze sono quelle che saltano agli occhi (colore della pelle, genere, sesso) la verità è un sentimento di chiarezza e semplicità, un istinto. Gli americani colti hanno questa cultura, e la chiamano scientifica. Non ammetterebbero che i loro presupposti fondamentali fossero considerati il frutto di un punto di vista particolare o di una educazione. Respingono con animosità ogni filosofia relativista. Il bianco è simile al bianco ed il nero al nero. La soluzione per le possibili ambiguità è quella di aumentare il ventaglio delle opportunità di scelta; si coniano altre parole, si forgiano altre definizioni, pullulano i vocabolari ed anche le mode. Da questa idea di fondo deriva la capacità creativa dell’inglese in America.
Non si ammette la possibilità del paradosso, il linguaggio deve rimanere paradigmatico. Cosi, si garantisce il progresso: la lingua può continuare a scoprire il mondo, aggiungendo, e consumando, creando un capitale di parole, le quali sono dei prodotti sempre più sofisticati e tecnologici, forgiati allo scopo di identificare chi siamo; perché è nell’identità che risiede la giustizia. Ed è la giustizia sociale il motore del progresso e del bene.
La lingua cresce allora smisurata insieme a questo progresso verso la giustizia. Tale processo passa dalle accademie e arriva fino alla politica; da Hollywood fino al rap, tutto il mondo anglofono ne è coinvolto.
Come si comporta invece la nostra lingua?
L’italiano è stato, a lungo, conservazione. Diviso fra registro alto e basso, solo ultimamente ha conosciuto la confusione che essere diretti comporta: l’idea cioè, che non avere registri ma acquisire il registro unico della verità sia utile o necessario.
Ci nutriamo di cultura americana perché additiva, fortemente legata al discorso tecnico del definire gli oggetti in maniera peculiare; la consumiamo in quanto produttiva, nel senso che il suo consumo concede l’accesso a forme di socialità che garantiscono l’inclusione. Il giovane studente acquista un lessico progressista che lo porterà a fare carriera in una università che offre quel tipo di discorso (foucaultianamente inteso) ai suoi studenti. Lo stesso accade per altri classi sociali e posizioni lavorative.
Attraverso film telefilm ed altri media si insinua l’I cant breathe, il quale non diventa mai un non posso respirare. Si cercano dappertutto le strade di Minneapolis, la loro autenticità e verità, e naturalmente si assume la lingua inglese, non cosi straniera se sa offrire identificazione, se riesce a pungolare i nostri sentimenti.
Lo impariamo sin da bambini: l’originale di un film, la sua autenticità, consiste nell’unione e nella composizione di immagine e parola; è tale unione (che si vuole naturale) a far nascere la metafora principale della realtà in cui viviamo.
Poco importa che sia una costruzione artificiale, che sia una semplicità prodotta al tavolino di una sala di montaggio, poco importa che l’audio sia inserito dopo e che le immagini siano impressioni statiche a cui si dona una determinata velocità. Poco importa, se nella nostra vita, pensieri e parole non trovano una naturale composizione univoca, se agire e pensare sono corpuscoli cavalcaniamente separati fra loro e dal resto. Poco importa che il paradosso di cui consiste la nostra vita si nutre di disgregazione più che di identità.
L’italiano tenta di essere progressista e si fa anglofono per un desiderio di autenticità che passa da un canale di sentimenti diretti che vengono trasmessi attraverso le parole dei testi originali. L’italiano trova la sua autenticità nel make America great again o in un whatever carpito fra i sottotitoli di un telefilm. La verità si sposa all’idealità della causa che si persegue, e per questo si sono visti scendere in piazza i giovani italiani ed europei a sostegno di quelli americani.
Rimane, in sospeso, qualcos’altro. Rimane la solitudine sociale politica e linguistica degli immigrati africani nelle moderne schiavitù che il nostro territorio impone loro. Rimane questo vuoto culturale proprio nel punto in cui la cultura non è solo pretesto ideale ma sottotesto ideologico. Si tratta di un vuoto? Di una mancanza culturale? Di una predisposizione linguistica? Quando si parla del territorio locale, di provincia o di periferia, all’italiano progressista e derivato dei telefilm si sostituisce l’italiano conservativo dei valori storici che relativizzano il progresso.
Proprio dove ne avrebbe più diritto, l’italiano pare refrattario a dare nomi che costruiscano un canale scientifico di progresso; diffida di questa prolunga di nomi sopra nomi e continua ad analizzare gli eventi riusando vecchi schemi, in modi piu o meno complessi. Sostiene e tollera il paradosso, considera l’ipotesi che si sia e che non si sia diversi, analizza le parole come differenti dai pensieri e dalle azioni; soprattutto, lo fa, attraverso la fucina cinica e paradossale dei dialetti, da cui l’italiano è forte debitore.
Si tratta, quindi, di una lingua divisa in due. Non che i parlanti facciano una precisa scelta, conseguenziale all’agire politico. Le due tendenze linguistiche riescono, incredibilmente, a convivere. Si usano parole e slang inglesi per analizzare la realtà ideale, in vari registri, dal comico al drammatico; mentre invece, si mantiene una sobrietà conservativa quando si tratta del nuovo che avanza sotto i nostri occhi, i nostri nasi, le nostre bocche. Si rimane divisi fra un italiano derivato e progressista e un italiano conservativo e relativista. Questo stallo rispecchia la situazione politica del paese ed anche una certa libertà della sua cultura.
L’italiano rimane, infatti, parzialmente libero da mode e movimenti, da soluzioni e progressi. E tuttavia, sia tratta di una libertà inoperosa, ineffettiva. Ha il candore delle persone che ancora possono dimenticarsi di se: il suo grande senso storico lo porta ad annacquare le conquiste momentanee in eventi ciclici per i quali non serve davvero inventare parole nuove.
La fortuna e la rinascita della lingua sono tutti i suoi respiri nuovi; i nuovi parlanti di italiano, africani e asiatici, aggiungono infatti un respiro diverso alla lingua. Non importano le parole nuove, i mischioni, i maquillage che gli americani amano considerare quando si parla di facili integrazioni. No, si tratta di materia invisibile, del respiro innato di una cultura che prende le parole di una lingua e le rimodula a partire da diaframma, bocca, lingua, denti. Quando sapremo (o vorremo) ascoltare, ecco che sentiremo parlare ai nuovi italiani, il nuovo italiano.