Se siete madrelingua italiani, andatevene da un’altra parte. Questo articolo non è per voi. L’ho scritto per gli studenti stranieri della nostra lingua che — sono pronto a scommetterci — non essendo riusciti a capire la spiegazione durante i corsi d’italiano, hanno letto e riletto quello che varie grammatiche scrivono per provargli a spiegare il congiuntivo, ma, poverini, mica l’hanno capito ancora.
E questo non perché siano poco intelligenti, tuttaltro. Ma perché neppure il 99.9% degli italiani — inclusi quelli che lo usano “correttamente” e inclusi gli insegnanti — comprendono la natura vera del congiuntivo, confusi come sono dalla fantagrammatica che maestre e professori (e persino professoroni!) gli hanno rifilato per anni e ancora gli rifilano.
Se sei uno studente non-madrelingua di italiano, leggi con attenzione. Potresti vedere finalmente risolti alcuni dubbi su uno dei modi verbali più sfuggevoli che esistano (e se a te ti sarebbe venuto da scrivere “uno dei modi verbali più sfuggevoli che esistOno”, tranquillo, avresti scritto giusto uguale): parliamo del congiuntivo italiano.
I registri dell’italiano e l’antilingua
Occorre intanto avere ben chiaro il concetto di registro linguistico, ovvero quel meccanismo molto istintivo che ci porta a rivolgerci in modo diverso a persone diverse a seconda del rapporto che abbiamo con loro. Né io né voi ci rivolgeremmo ad un professore universitario o ad una persona più anziana di noi con le stesse espressioni con cui ci rivolgiamo ad amici e parenti. Né metteremmo per iscritto frasi che in un contesto colloquiale sono perfettamente adeguate. In ogni circostanza utilizziamo “lingue” leggermente diverse, “registri linguistici” diversi, appunto.

I registri esistono un po’ in tutte le lingue. Mio figlio Leo (italiano di passaporto, ma cresciuto linguisticamente nel sistema scolastico americano) è arrivato da solo a capire che è meglio usare lingue diverse a scuola a seconda dell’interlocutore e del contesto. Leo ha scoperto da solo i registri, che poi sono quelli che gli americani chiamerebbero semplicemente dialects.
Quello che gli studenti liceali italiani devono arrivare da soli a capire (perché nessuno ha il coraggio di dirglielo apertamente) è che a scuola non gli insegnano propriamente l’italiano, bensì una lingua un po’ straniera dettata da una norma dotta che qualcuno, in un qualche momento della storia italiana, ritenne utile per lo sviluppo e la carriera di quei giovani.
L’apprendimento di quella “lingua dotta” servirà come messaggio in codice per chi li leggerà e ascolterà in futuro. Il messaggio leggibile tra le righe di chi si esprime dottamente significa pressappoco “io ho studiato. Regolati di conseguenza”.
Comprendere la differenza tra queste due lingue, l’italiano “standard” e l’italiano “dotto”, è un requisito per capire molti usi del congiuntivo che troverete sulla vostra strada e, soprattutto, per sapere quando è (sia) il caso di usarlo nei vostri scritti. Detta in altre parole, il congiuntivo continuerà a sfuggirvi tra le mani come un’anguilla fintanto che non avrete compreso il suo vero valore semantico (più spesso che no, la mancanza di un valore semantico!) e come questo modo verbale sia legato intimamente ai registri linguistici dell’italiano (quello che i linguisti chiamano “variabile diafasica”, terminologia tecnica questa, ma utile da riconoscere).

Se un insegnante di italiano, contravvenendo alle indicazioni della premessa, avesse letto fino a qui, potrebbe eccepire che sia esagerato parlare di lingue diverse per mettere in contrapposizione un presunto italiano standard con un presunto italiano dotto, come ho fatto io già in passato parlando di “italianorum”.
Eppure non sono l’unico a pensarla così. Gli scrittori a volte dicono cose sulla lingua che sono più interessanti di quelle raccontate dai linguisti. Un famoso scrittore, Italo Calvino, parlò addirittura di antilingua.
Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua.
L’esempio che Calvino diede dell’antilingua è significativo (oltre che molto divertente):
Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata”. Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: “Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante.
Ebbene sì. Tanti anni di liceo classico e scientifico servono per insegnare ai giovani italiani a scrivere in una lingua di questo tipo. Se fossi ministro della pubblica istruzione, mi occuperei di questo problema per prima cosa. Ma non divaghiamo.
L’aspetto che mi preme osservare è che non esiste una lingua italiana sola e indivisibile, ma ne esistono tante. Gli italiani “almeno mediamente dotti” sono semplicemente quelli che padroneggiano una specie di bilinguismo interno dato dalla conoscenza dall’antilingua. Questo bilinguismo si manifesta non solo nel lessico, ma anche, come vedremo, nell’uso dei modi verbali, congiuntivo in primis.
Poi mi giro pensando che ci sei te
Ho preso questa frase dalla canzone arrivata seconda al Festival di Sanremo 2019. E’ una frase semplice semplice dell’italiano contemporaneo. Eppure, se un liceale la usasse in un tema, la penna rossa e quella blu del prof si avventerebbero implacabili correggendo in “Poi mi giro pensando che ci sia tu”.
Il pronome “te” può essere usato intercambiabilmente col “tu” in italiano, ma non nell’antilingua dell’italianorum. Gli studenti liceali italiani sarebbero castigati subito per quello. Concentriamoci, però, sul congiuntivo.
L’insegnante liceale direbbe allo studente che ci vuole “ci sia tu”. Se lo studente chiedesse il perché, la spiegazione sarebbe qualcosa tipo:
“Il congiuntivo serve a presentare l’azione espressa dal verbo come incerta, ipotizzabile, desiderata, dubbia o soggettiva.”
In aggiunta, il professore aggiungerebbe che l’uso del congiuntivo in quel caso è obbligatorio: l’indicativo in quella subordinata lo obbliga a segnare la frase come “errata”. Nel far questo, il professore non si è accorto di essersi contraddetto: occorre usare il congiuntivo perché imposto dalla norma dotta OPPURE per sottolineare una sottile differenza semantica?
Da un secolo questa “lezione” viene incessantemente ripetuta agli studenti nelle scuole italiane, ma nessuno fa molto caso alla sua contradditorietà, sembrerebbe.
La fantagrammatica
Se un professore di storia venisse in classe a raccontare gli episodi del Trono di Spade, al posto dei fatti avvenuti realmente e storicamente documentati, e li spacciasse per Storia, saremmo davanti ad una materia nuova: la fanta-storia. Sarebbe una disciplina divertente, ma non ci aiuterebbe molto a capire il mondo in cui viviamo.

Similmente, la grammatica dovrebbe descrivere la lingua che utilizziamo, sia per gli stranieri che vogliono impararla che per i madrelingua, in modo da offrire utili indicazioni quando vogliamo scrivere nel modo più chiaro possibile: la grammatica e i vocabolari sono utilissimi riferimenti quando siamo presi dal dubbio su come esprimerci (specialmente per quelli a cui ronza ancora nella testa qualche buffo dialetto).
A quanto pare esiste anche la fantagrammatica: una disciplina che, usando concetti grammaticali, descrive però strutture linguistiche immaginarie, partorite dalla mente di alcuni studiosi, invero, ma che non rispecchiano l’uso reale dell’italiano. A quanto pare, alcune dosi di fantagrammatica sono insegnate nelle scuole italiane, inframmiste alla grammatica vera e propria.
Il ruolo del congiuntivo secondo la fantagrammatica
Nel caso del “qual(’)è”, le regole generali di elisione e troncamento portano dritte dritte a giustificare la versione “qual’è” come corretta in quanto elisione di “quale è”. E poco importa se al tempo di Mago Merlino e della Madre dei Draghi alcuni druidi usassero la parola “qual”. Oggi esiste solo “quale” in italiano contemporaneo. Affermare che la grammatica giustifichi “qual è” come unica forma corretta in virtù di cosa avrebbero usato anticamente i druidi significa fare fantagrammatica.
Nel caso del congiuntivo, la situazione è analoga. Gli insegnanti italiani rifilano un atto di fede astratto agli studenti con la pretesa di poggiarlo su logiche che non reggono neppure ad un’analisi superficiale. Nel caso in questione non esiste nessun congiuntivo con valore semantico che dia(dà) alcuna sfumatura diversa di significato. “Pensando che ci sei te” e “pensando che ci sia tu” significano esattamente la stessa cosa, senza neanche un grammo di differenza.
La prova? Facile: se ci fosse una differenza, i bambini ci arriverebbero da soli a capirla, ma così non è. I libri delle elementari fanno i salti mortali per evitare il congiuntivo in racconti ed esempi. Esso verrà fatto entrare in testa ai pargoli negli anni successivi, a forza di letture che imprimano (imprimono) quell’uso alto e innaturale dei verbi nelle loro menti.
In francese e spagnolo l’uso del congiuntivo in casi come questo semplicemente non c’è, e poco importa se non ci sia mai stato o sia scomparso da secoli. In spagnolo si può solo dire: “Me vuelvo pensando que estás ahí” e non “que estes ahi”.
Fantagrammatica insegnata a scuola? Possibile?
Qui potreste essere perplessi. Esistono fior di professori pronti a giurare che ci sia una sfumatura diversa di significato quando si sceglie di utilizzare il congiuntivo, penserete voi.
Il problema è che a furia di ripetersi la storiella tra loro, anche i grammatici si sono convinti che una differenza esista (esiste), ma si tratta di pura autosuggestione.
Affermare che c’è (ci sia) una differenza di significato tra due espressioni non è sufficiente a provare che tale differenza esiste davvero.
Per fare un esempio banale, prendiamo due parole che in italiano contemporaneo sono assolutamente sinonimi: calzoni e pantaloni. Io potrei sostenere che esiste(esista) una sfumatura di significato diversa, del tipo che i calzoni sono(siano) più eleganti dei pantaloni, o anche viceversa. Potrei scrivere questa cosa anche su un vocabolario. Ma il fatto rimane che le due parole, all’atto pratico, possono essere usate in maniera totalmente intercambiabile in italiano e questo fa la gente quando scrive e parla. Se facessi un test e chiedessi a cento italiani di indicare se percepiscono i pantaloni come più eleganti dei calzoni o viceversa, troverei che tale differenza in italiano non c’è.
Per quanto riguarda il congiuntivo, la situazione è analoga. Nel tentativo di trovare un modello che spieghi il congiuntivo senza coinvolgere i registri linguistici, le grammatiche italiane hanno rifilato per anni le storie sul “modo della possibilità, del dubbio e del desiderio”. Fantagrammatica.
Quindi congiuntivo e indicativo sono totalmente intercambiabili?
Non è affatto quello che ho detto. E per due buoni motivi. Un motivo di registro (che spiego ora) e uno sui diversi usi del congiuntivo in proposizioni dipendenti e subordinate (su cui torno dopo).
Riprendiamo le frasi:
Penso che ci sia tu / penso che ci sei tu.
In italiano le due frasi sono totalmente intercambiabili. Nell’antilingua solo quella col congiuntivo è accettata. Se intendete usare un registro formale o anche “medio”, l’uso del congiuntivo è d’obbligo. Se volete dimostrare di essere istruiti, dovete saper inserire il congiuntivo anche quando non serve a nulla. Quella è la vera ragione, anche se nessun insegnante italiano ve lo dice esplicitamente.
A rendere più complesso il discorso c’è un altro aspetto: ogni italiano semi-dotto percepirà come più o meno corretto il mancato uso del congiuntivo secondo gusti e sensazioni personali che nessuna grammatica riuscirà mai a descrivere nel dettaglio.
Forse Google, un giorno, userà l’Intelligenza Artificiale per darci una foto mese per mese della grammatica italiana vera analizzando in tempo reale la lingua usata su libri e web, ma fino a quel momento l’uso corretto del congiuntivo andrà a sensazione, un po’ come il limite di velocità effettivo che chi vuole guidare in Italia è costretto ad adottare strada per strada a prescindere da qual’è (quale sia) quello indicato dalla segnaletica.
Registro a parte, tutti i congiuntivi sono quindi rimpiazzabili con l’indicativo?
Attenzione. Non ho detto neppure questo.
Intanto ci sono usi molto comuni del congiuntivo nelle frasi principali (proposizioni indipendenti) che hanno, questa volta sì, valore semantico. Pensiamo a frasi tipo “Dica”, “Mi scusi” o “Si sieda”. Sono imperativi, dite? In realtà sono congiuntivi esortativi, anche se ultimamente le grammatiche li rappresentano come imperativi di terza persona. Ma prendiamo altri esempi:
“Che Dio ce la mandi buona!”, o anche “Qualcuno mi aiuti!”
Qui il congiuntivo ha valore semantico talmente forte che lo troviamo usato anche in inglese “Somebody help me” e in norvegese “Noen hjelp meg”. Ebbene sì. Quando ha un chiaro valore semantico, il congiuntivo lo troviamo vivo e vegeto anche nelle lingue germaniche!
Il congiuntivo nelle subordinate (proposizioni indipendenti)
Concentriamoci quindi sull’uso del congiuntivo nelle subordinate. È lì che le cose si fanno complicate. A rendere complicato tutto è l’assunto che una classificazione binaria del tipo “giusto” e “sbagliato”, che è quella dei libri di grammatica scolastici, è(sia) adeguata a rappresentare la complessità della lingua.
Questo assunto è errato. Strafalcioni a parte, la natura della lingua è tale che moltissime parole, costrutti e frasi ricadono in un “purgatorio della norma” in cui l’aderenza o meno a certe regole dipende solo dal gusto di questo o quel grammatico, o anche semplicemente alla sensibilità di chi legge (o anche dallo stato d’animo di chi ci legge a quell’ora del giorno o della sera!)
Spiego con un esempio. Consideriamo la frase:
“È impossibile negare che la terra gira intorno al sole.”
Potrei trovare grammatici che affermano che vada benissimo. Altri invece potrebbero sostenere che occorra il congiuntivo. Dal momento che la giustificazione classica, quella che chiama in causa “il modo della soggettività, dell’incertezza, del dubbio, dell’ipotesi, del desiderio, della speranza e del timore”, qui non funzionerebbe, ho visto con i miei occhi evocare il misterioso “congiuntivo tematico”, una supercazzola fantagrammaticale di raro ingegno.
Passando alla scuola, gli insegnanti stessi sono confusi, e non per colpa loro visto che la fantagrammatica regna sovrana anche tra i grammatici: alcuni insegnanti potrebbero segnarlo come erroruccio, mentre altri potrebbero non farci neppure caso. Altri ancora potrebbero far finta di non vederlo perché non lo saprebbero giustificare.
Se ci fosse un modo di dimostrarlo con un esperimento, non mi stupirei se dato un medesimo insegnante, quello segnasse “l’errore” o meno a seconda se la correzione avvenisse prima o dopo il pranzo.
Qual’è la regola che sottende all’uso del congiuntivo nelle subordinate allora?
Mettiamo il caso che io, in questo momento, faccia la seguente affermazione un po’ estrema:
Il congiuntivo nasce in latino come modo delle frasi subordinate. L’italiano ha ereditato l’uso del congiuntivo dal latino, ma lo ha fatto senza coerenza, arrivando ad una situazione caotica che non è stata rettificata neppure per via dotta. Nelle subordinate il congiuntivo non ha MAI valore semantico, ma solo diafasico (di registro).
Affermazione forte. Così forte, infatti, che non la faccio mia al 100%, anche se ci vado molto vicino. Però mi è utile per ragionare con voi sul congiuntivo. Teniamola presente.
Se un semi-dotto di quelli che si trovano sui social provasse a contraddirmi, potrei facilmente sostenere che le seguenti frasi sono(siano) del tutto equivalenti dal punto di vista del significato, rendendogli difficile smentirmi.
Aspetta che torno – Aspetta che io torni.
Non si può negare che la terra gira/giri intorno al sole.
Sei sicuro che ero/fossi io?
Non sopportava che la moglie lo tradiva/tradisse.
Difficile argomentare che, dal punto di vista del significato, queste frasi non siano assolutamente equivalenti. Un linguista avrebbe però alcune mosse valide con cui rispondere con controesempi che dimostrano un valore semantico del congiuntivo nelle subordinate in alcuni casi:
Ammetto che mia moglie mi tradisce – Ammetto che mia moglie mi tradisca.
Una bella differenza tra le due. Nel primo caso il linguista sarebbe semplicemente al corrente del comportamento della moglie fedifraga. Nel secondo, non solo lo sa, ma gli sta pure bene.
O anche:
Ti ho chiamato perché tu sappia – Ti ho chiamato perché tu sai.
In questo caso, il fatto che la congiunzione “perché” valga sia come “poiché” (introducendo una causale) che “affinché” (introducendo una finale) porta la frase ad avere significati opposti per via dell’uso del congiuntivo. Nel primo caso il linguista ha chiamato per informare qualcuno, nel secondo per avere informazioni dal chiamato.
Che dire? Bella mossa quella del linguista. Tanto di cappello. Quelli sono due casi in cui in italiano contemporaneo il congiuntivo si è conquistato un ruolo semantico anche nelle subordinate, e sono il motivo per cui non faccio totalmente mia l’affermazione un po’ estrema di cui sopra.
Il congiuntivo, introdotto in italiano per via dotta, si è comunque conquistato in alcuni casi un ruolo semantico nelle frasi subordinate. A mio parere sono casi abbastanza circoscritti e costruiti giocando sull’ambiguità in italiano di alcune parole, ma tant’è. Se la lingua la fanno gli italiani (affermazione in cui credo fermamente), quei casi vanno riconosciuti e in qualche modo “modellati” dalla grammatica.
L’orecchio di Paola (o Andrea, o Silvia, o @Napalm51)
A volte, discutendo con amici e con sconosciuti online sulla natura del congiuntivo, chiedo se questa o quella frase sia corretta con domande del tipo: “La frase: ‘non sopportava che la moglie lo tradiva’ è corretta oppure no?”
A chi mi risponde di no chiedo di motivare la risposta. L’intervistato, allora, richiama alla mente la regoletta fantagrammaticale sul “modo del desiderio e del dubbio”, si accorge che non si applica ad una frase dove dubbio non c’è e risponde: “ad orecchio mi suona male”.
A quel punto affermo: “benissimo. Quando insegniamo agli stranieri l’italiano, nel capitolo sul congiuntivo, scriviamo ‘chiamate Paola’! Ci penserà lei a farvi decidere se serve (serva) il congiuntivo oppure no, secondo il suo orecchio allenatissimo” (speriamo di riuscire a clonarla).
I registri linguistici e il congiuntivo
Assodato quindi che le affermazioni sul valore semantico del congiuntivo (nelle subordinate) siano più spesso che no sciocchezze, quale modello sarebbe efficace per spiegare il congiuntivo a chi non ci arriva “a orecchio”?
Come a questo punto immaginate, la chiave di volta sono i registri linguistici. Non si può spiegare l’uso del congiuntivo agli stranieri (e neanche agli italiani testardi se è per quello) se non si mettono in primo piano i diversi registri e non si fa riferimento a quelli nello spiegare l’uso nelle diverse situazioni.
Volendo spezzare una lancia a favore dei fantagrammatici, occorre dire che tirare in ballo i registri significa rendere abbastanza complessa la spiegazione, e anche più fragile. Quello che vale secondo una sensibilità linguistica maggioritaria oggi potrebbe non applicarsi tra dieci anni o poco più. Eppure un insieme di regole adeguate non può che passare di lì
Per prima cosa occorre “mappare” i registri. La brava linguista (e dopo tante discussioni anche amica) Vera Gheno mi segnala il lavoro fatto dai linguisti in questo campo (lo schema di Gaetano Berruto ad esempio), oltre al fatto che i dialetti regionali (variante diatopica) hanno ancora il loro peso in italiano e questo potrebbe complicare ulteriormente le cose. Il sito della Treccani riporta un ottimo intervento sull’argomento.
Per gli obiettivi di questo articolo, ho identificato una suddivisione più semplice di quella di Berruto fatta di cinque registri italiani (senza concessioni ai regionalismi) che vanno dal colloquiale all’antilingua (i due livelli più elevati).
1 – Registro colloquiale
Lingua parlata in contesto informale. Scrittura in chat. Canzone rap/pop/trap. Commento veloce sul web. Registro in cui si possono trovare esempi di quello che i grammatici potrebbero chiamare “sintassi non sorvegliata”.
Esempio:
La giostra del parco giochi cade a pezzi. È pericolosa per i bambini. Dobbiamo toglierla di mezzo subito.
2 – Registro informale
Blog. Email ad amico o conoscente. Commento lasciato sul web perché altri lo leggano.
Esempio:
Il parco giochi del condominio è vecchio. La giostra è piena di ruggine e potrebbe essere pericolosa per i bambini. Occorre rimuoverla in tempi rapidi.
3 – Registro medio
Articolo di giornale o rivista. Telegiornale nazionale.
Esempio:
Alcuni condomini hanno segnalato la pericolosità del parco giochi. A causa dell’età, la giostra è fatiscente e potrebbe mettere a rischio l’incolumità dei più piccoli. È necessario rimuoverla al più presto.
4 – Registro alto (antilingua)
Lettera della scuola al genitore di uno studente. Avviso ai condomini.
Esempio:
Si segnala che, a causa della vetustà del parco giochi condominiale, alcuni impianti ludici, con particolare riferimento alla giostra, potrebbero rappresentare un rischio per l’incolumità dei minori che li utilizzassero. Per questo motivo è stata posta all’ordine del giorno nella prossima riunione di condominio l’approvazione delle spese per la rimozione solerte di suddetta attrezzatura a spese del condominio stesso.
5 – Registro altissimo (antilingua)
Lettera di avvocato. Discorso di cariche istituzionali.
Esempio:
A nome del nostro cliente, Dott. Mario Rossi, condomino presso il vostro condominio, con la presente diffido il condominio da Lei amministrato dal ritardare ulteriormente le attività tese a mettere in sicurezza le attrezzature site nell’area comune dello stesso ed adibite a parco giochi. La condizione delle attrazioni ludiche ivi poste, con particolare riferimento alla giostra, sono tali da rappresentare una minaccia all’incolumità di minori che si trovassero ad accedervi.
Con questi cinque registri come riferimento, vediamo come l’uso del congiuntivo viene avvertito come adeguato dai madrelingua nei diversi casi. Ovviamente la scheda è allestita da un parlante particolare (io) in un periodo particolare (autunno 2019) e la schematizzazione potrebbe andare rivista tra qualche tempo. Eppure, fidatevi. Se state imparando l’italiano, avrà più senso la mia mappa che non la lista di regole variamente incoerenti e complicate dei diversi libri di grammatica.
Legenda:
Verde = Adeguato al registro.
Giallo = Così così. Potrebbe causare la temporanea elevazione del sopracciglio di alcuni.
Rosso = Non adeguato al registro.
Partiamo con le subordinate soggettive
Di questo esempio abbiamo già parlato. Come significato sono assolutamente intercambiabili praticamente in tutti i registri. In un contesto colloquiale, qualcuno potrebbe percepire come lievissimamente forzato l’uso del congiuntivo, ma il condizionale è d’obbligo.
Sul versante dell’antilingua, invece, solo il più rigido dei contesti formali impone l’adozione del congiuntivo in questo caso.
Esempio molto simile al precedente, benché l’utilizzo di una frase articolata, costrutto dell’antilingua, finisca per esercitare una forza di attrazione del congiuntivo maggiore nei contesti formali.
Subordinate oggettive
L’uso del congiuntivo è avvertito come adeguato in praticamente tutte le circostanze, eccetto forse il registro 1.
Di contro l’indicativo viene percepito come adeguato solo nei registri più bassi.
Ho discusso prima questo caso. L’uso del congiuntivo è avvertito come necessario un po’ in tutti i contesti ad eccezione di quelli più informali del parlato. L’uso di “te” al posto di “tu” viene considerato (a torto) errato soprattutto tra i parlanti meridionali.
Questo esempio l’ho aggiunto solo per completezza. In questo caso l’indicazione data dalla “tradizione dotta” (che impone l’indicativo in quanto “modo della certezza”) coincide con l’uso della lingua nei registri più bassi che predilige l’indicativo anch’essa, complice la mancanza di un qualsiasi valore semantico del congiuntivo.
Nella lingua parlata, l’utilizzo del congiuntivo suona inadeguato. Tra le altre cose, il fatto che le persone singolari dell’indicativo presente sono(siano) uguali obbligherebbe il parlante a inserire il pronome soggetto dando alla frase un’affettazione che stona col contesto. Nei registri dell’antilingua, invece, il congiuntivo è d’obbligo.
Praticamente lo stesso come l’esempio precedente.
Questa frase l’ho presa da una famosa canzone di Adriano Celentano e come tale “corretta per definizione” in un registro colloquiale, anche se da considerare non adeguata già nel registro medio.
Subordinate oggettive invertite
L’inversione della subordinata per motivi di enfasi si porta dietro l’uso del congiuntivo anche nei registri medi e medio-bassi.
Subordinate dichiarative
Qui vale un discorso del tutto analogo a quello fatto precedentemente. Nessun valore semantico del congiuntivo. Solo diafasico.
Subordinate concessive
Le subordinate concessive sono molto interessanti, dal momento che è la congiunzione subordinate che ha finito per determinare la scelta tra congiuntivo e indicativo prevaricando persino sulle considerazioni di registro. Ovviamente questa è prova ulteriore della mancanza pressoché totale di un valore semantico dato dal congiuntivo.
Interrogative indirette
Se affermassi che in italiano contemporaneo nel caso di interrogative indirette la scelta del congiuntivo rispetto all’indicativo è totalmente facoltativa, andrei molto vicino alla realtà. Il congiuntivo non è adeguato solo nei registri più bassi a causa del tono “aulico” che quel modo verbale tende a portarsi dietro.
Subordinate con pronomi indefiniti
Quando siamo in presenza di un pronome indefinito tipo chiunque, dovunque, comunque, qualunque, qualsiasi o altro costrutto “indefinente”, sia i registri alti che quelli medi richiedono il congiuntivo. “Dovunque tu vai” è plausibile solo nei registri più bassi. Il mio sospetto è che questo uso sia facilitato dalla mancanza del congiuntivo futuro (“Dovunque tu andrai” si porta dietro “Dovunque tu vai” in modo abbastanza naturale).
Subordinate temporali
L’uso di “prima che” si porta dietro il congiuntivo (senza apporto semantico ovviamente). Abbiamo il solito problema dell’odore “aulico” del congiuntivo. Dal momento che l’indicativo suona comunque “ignorante”, la lingua viva ha trovato altri modi per risolvere questa specie di “dissonanza cognitiva grammaticale”, modi che poi si sono fatti strada col tempo anche nei registri più alti.
Se invece di “prima” parliamo di “dopo”, allora tradizione dotta e uso comune convergono sull’indicativo facendo tutti felici.
Subordinate consecutive
Nessuna sorpresa qui. Uso del congiuntivo dettato esclusivamente dal registro. L’italiano ha comunque trovato il modo di aggirare la necessità del congiuntivo con espressioni più agili.
Subordinate finali
Per quanto riguarda le finali, l’uso del congiuntivo è obbligato. Al di là di possibili espressioni dialettali (che comunque personalmente non ho mai sentito), nessun italiano userebbe perché o affinché seguito dall’indicativo a prescindere dal registro. Quello a cui si assiste, invece, è un cambio della struttura della frase che, come effetto collaterale, permette di non utilizzare il congiuntivo (infinito, in questo caso, grazie alla forma implicita).
Frasi ipotetiche
La costruzione delle frasi ipotetiche è interessante perché la tradizione dotta prevede un balletto abbastanza complesso di congiuntivo e condizionale. Non stupisce che la lingua viva abbia trovato scorciatoie e che quelle scorciatoie trovino il modo di evitare l’uso del congiuntivo e/o del condizionale. La scorciatoia è, ovviamente, l’uso dell’indicativo imperfetto.
I registri alti impongono l’uso della forma classica, e con la forma classica non si sbaglia anche nel registro medio. Detto questo, oramai si trova comunemente sui giornali italiani l’utilizzo delle forme con l’imperfetto indicativo in una o in entrambe le “gambe” della frase ipotetica (protasi e apodosi).
Nei registri più bassi e colloquiali, la seconda forma diventa quasi d’obbligo.
Conclusioni
Quando avevo scritto il mio primo articolo sul “qual’è” l’anno passato e ancora attribuivo alla Crusca un ruolo normativo della lingua italiana (prima che mi facessoro notare che loro descrivono la lingua, non la “normano”), esortavo l’Accademia a portare un po’ di ordine nel congiuntivo con queste parole:
Se i professori hanno davvero tanta voglia di fare del bene alla nostra lingua, farebbero anzi meglio a portare un po’ d’ordine alle regole che sottendono all’uso del congiuntivo. Oggi più che mai la scelta tra congiuntivo e indicativo appare come una dottrina esoterica praticamente impossibile da spiegare agli studenti stranieri della nostra lingua, per non parlare dell’uso errato che ne sento talvolta fare anche dai difensori del congiuntivo!
La scheda dell’Accademia della Crusca sul congiuntivo non mi aveva mai convinto.
Mi è servito un po’ di tempo, ma alla fine sono riuscito a capire la natura del congiuntivo italiano e ad identificare le logiche che sottendono ad un suo uso corretto. Sono logiche che, a mio parere, aiuteranno gli studenti stranieri della nostra lingua più della fantagrammatica che trovano in quasi tutti i libri di grammatica, scolastici e non.
A mettermi sulla buona strada sono stati il professor S. C. Sgroi (Dove va il congiuntivo? Ovvero il congiuntivo da nove punti di vista, 2013) e il professor Francesco Sabatini (L’italiano dell’uso medio: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, 1985).
Essenzialmente, il congiuntivo nelle subordinate è il retaggio dell’uso del congiuntivo in latino. Tale uso è ancora vitale nei registri alti della lingua italiana, ma viene evitato nei registri più bassi tramite l’utilizzo di perifrasi, costrutti impliciti (resi possibili dalla scelta di parole diverse) o anche con il passaggio secco all’indicativo (operazione facile vista la mancanza di un apporto semantico).
Il tentativo di vari grammatici di inquadrare il congiuntivo senza fare riferimento ai registri ha portato molta confusione non solo tra gli studenti (sia italiani che stranieri), ma anche nel corpo docente, come ho avuto modo di verificare personalmente quando ho sentito insegnanti ripetere la favoletta del “modo dell’incertezza” per poi incagliarsi al primo esempio che smentisce che quello sia l’uso effettivo.
Se siete studenti stranieri di lingua italiana e, come immagino, l’uso del congiuntivo vi ha sempre lasciato perplessi, fatemi sapere se questo articolo vi ha aiutato nei commenti.
Buon congiuntivo diafasico a tutti!