Assiduo e attento lettore dei preziosi interventi sullo specifico della cultura e dell’insegnamento dell’italiano negli States da parte di un’addetta sul campo, diciamo fra i banchi, l’esperta Filomena Fuduli Sorrentino, mi sorprende l’allarme di catastrofi presenti e incombenti sull’esistenza e addirittura sulla sopravvivenza della nostra cultura nell’insegnamento, primario, secondario e universitario in America. Da un calo, fisiologico o no, possibilmente transitorio e incidentale, delle iscrizioni ai corsi di NY e vicinanze si è passati a vaticinare la completa scomparsa della lingua italiana con la perdita del “posto”.
Intanto mi sarei aspettato che l’analisi fosse comparativa e segnalasse la situazione delle altre lingue straniere, imposte encomiabilmente nei corsi di laurea delle scuole americane. Pur tuttavia mi è lecito precisare che, come avviene in ogni paese del mondo, le scelte delle seconde e terze lingue sono talvolta pilotate, diciamo indirizzate, dalle situazioni contingenti di maggiore vantaggio o momentanea visibilità della nazione parlante. Anche in Italia si sono verificate oscillazioni nelle scelte delle lingue scolastiche curriculari ed extrascolastiche. Ci sono state fasi di netto ed esclusivo dominio dell’inglese, con taglio verticale di francese e spagnolo, altre con aperture verso il tedesco per ovvi motivi di uso in una nazione economicamente egemone. Ma ci sono state anche proficue emergenze di arabo e cinese, sì, a seconda delle aperture e delle speranze di sbocco del mercato del lavoro.
Mentre scorrevo questi drammatici allarmi una fortuita coincidenza, il contatto via rete con Xin Liu. Il mio naturale stupore: è Lecturer alla Pennsylvania State University Park, pensate di che lingua: come Teaching language and content courses in Italian studies program. Un cinese che insegna italiano alla Penn University con piena competenza avendo conseguito il dottorato di ricerca in Studi italiani del Dipartimento di Studi romanzi presso la University of North Carolina a Chapel Hill. Tema: la comunicazione culturale tra Italia e Cina dalla fine del XIX secolo ad oggi, le loro identità nazionali in opere letterarie, così come in fiction e non-fiction film, i vari aspetti della letteratura italiana del Novecento, con un particolare interesse per Italo Calvino. Si badi, il rivoluzionario Calvino di Santiago di Cuba, quello di Il barone rampante e Le cosmicomiche, ma soprattutto delle Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Questo in sintesi il suo strabiliante curriculum.
Perciò la mia immediata curiosità e la domanda: come era possibile che un cinese insegnasse italiano in una fase in cui i vostri numerosi interventi descrivevano una realtà a dir poco drammatica per la diffusione della lingua italiana e in modo più tragico per l’esclusione della cultura italiana dai grandi campus e circuiti americani. Perciò la mia domanda in maldestro inglese sulla stranezza che un cinese insegnasse italiano alla Penn State University, ove un mio amico nato lì e professore di latino e greco in Italia non riuscì ad ottenere una cattedra. E a lui la richiesta di avere il polso della situazione nel suo specifico sito. La risposta in perfetto italiano che mi permetto, a suo onore e gloria di rendere pubblica: «È vero che la lingua italiana ha perso, e continua a perdere popolarità negli Stati Uniti, specialmente negli ultimi tre decenni. Comunque, dato che l’Italia è ancora la quinta destinazione turistica nel mondo, e ogni anno ci sono tanti studenti americani vanno in Italia per programmi di study abroad, non mi sembra che la lingua sia veramente in via d’estinzione. Inoltre, negli Stati Uniti, gli universitari non si possono laureare senza soddisfare i requisiti di lingue straniere, perciò, almeno oggi, non è troppo difficile trovare abbastanza studenti per riempire le classi di lingua italiana. La parte più difficile è come convincere gli studenti a scegliere l’italiano come un major or minor, e a seguire i corsi di livelli più avanzati sulla cultura e letteratura. Però, è una sfida per gli studi umanistici, non solo per l’italiano».
Partiamo da questa prospettiva, sulla quale concordo pienamente. È di questi mesi l’analisi sconcertante del trend di formazione delle scuole italiane. Si rimarca la dealfabetizzazione della maggioranza che riesce a stento a capire la paginetta di cronaca o non sa più leggere il quotidiano o non legge più affatto giornali, neppure la tanto diffusa Gazzetta dello sport. Anche fra i laureati per di più verifico quotidianamente un analfabetismo di ritorno. Ultimissima la frequenza scolastica che nonostante gli incentivi e le penalità anche del codice continua a diminuire. Non parliamo del “marinare” le lezioni. Si sono attivati gli strumenti informatici, la pagella elettronica e l’informazione diretta delle assenze degli alunni alle famiglie. Eppure in tutta la penisola e maggiormente al Sud, grave addirittura nei Licei classici, l’assenza è diventata allarmante fino a raggiungere un terzo del monte ore. Perciò il dibattito quotidiano sulla stampa e i social. Titolo: le Università fanno troppo poco, la scuola non offre strumenti, mancano le riforme, troppe riforme da parata. Il rimpallo delle accuse e l’antitesi dei rimedi, fumose e originali soluzioni di bla bla in cui il cane si morde la coda. Si cominciò con la riforma di Luigi Berlinguer, professore di diritto, con un progetto troppo velleitario di riforma globale di tutti gli studi, dalle scuole materne fino alle scuole secondarie superiori. Poi vennero le celebri tre “i” minuscole di Letizia Moratti, inglese, informatica e impresa. Da lì non ci vedemmo più avanti. Ogni ministro ha voluto lasciare la propria impronta fino alla recente Buona Scuola (sottotitolo online “Facciamo crescere il paese”) che Renzi si volle intestare, tranne a far licenziare il suo ministro, Stefania Giannini, glottologa, venuta al posto di Maria Grazia Carrozza bioingegnere.
Per carità di patria tacciamo della new entry del Governo Gentiloni, nonostante sia una fotocopia. Tutto è cominciato con l’idea che la scuola superiore dovesse passare attraverso lo sviluppo di quella vocale, che tutto dovesse essere orientato verso l’impresa. Al vecchio, “moderno”, concetto che l’istruzione scolastica di base dovesse essere formativa dell’uomo, quindi fornitrice degli strumenti per leggere e capire la realtà, si era affermata in una società del profitto e del consumo l’idea che la scuola dovesse preparare dei tecnici per il padrone, compito che era stato assegnato un tempo agli ITI. Perciò si era voluto umiliare ancora i Licei, degradandoli ad istituti professionali. Su altro fronte non si placa l’assassinio della nostra identità culturale con la guerra contro il latino e il greco e contro i Licei classici. In questa linea progettuale di scadimento culturale tutte le scuole superiori sono diventate Licei. Ma d’altronde se si è ridimensionata anche la filosofia, chi può spiegare a questi “modernisti” che il Liceo era in Grecia un’altra cosa, rispetto al Ginnasio e alle esercitazioni ginniche. La Cultura è divenuta un optional, un contorno che può ospitare anche spettacoli e scienze culinarie. Perciò la selva di Liceo professionalizzanti. Il discorso pertanto parte da qui dalla declassazione della scuola, della lingua normativa, della tradizione storico-letteraria, culturale in ampio raggio.
Se le mie impressioni sono esatte, se l’analisi dei discorsi del re e del seguito caloroso dei suoi votanti è vera, mi pare che in America le cose non vanno tanto meglio. Alle eccellenze di alcune Università, si oppone l’ignoranza culturale delle masse entusiaste del linguaggio becero e scurrile. Mi immagino le loro performance scolastiche. E il nuovo ministro di istruzione, miliardaria di scuole private, non si sconvolge neppure per le armi in classe. I nostri cari amici che temono la fuga dall’italiano si sono addentrati oltre la soglia dell’insegnamento della lingua materna degli studenti americani? C’è un imbarbarimento globale in epoca di globalismo. E il guaio è che il nemico del globalismo si vanta del suo linguaggio da trivio.
La colpa è sempre ed esclusivamente degli insegnanti. E lo dice un insegnante di lungo corso e di materie alquanto toste. Se non si hanno le capacità di cavare dal bruco la farfalla è meglio votarsi ad altro mestiere. Noi dobbiamo ammaliare i ragazzi e riempirli di meraviglia davanti ai tesori della cultura. Consapevoli che la guerra deve essere senza quartiere contro un nemico subdolo che si serve delle stesse armi della magia. Si è di fronte ad un nemico insidioso che si presenta con il volto ingannevole e vuoto di FB, dei Pokemon, delle faccine e delle sigle, dei geroglifici dettati dalla fretta della velocità. Dobbiamo perciò da “maestri” scoprire e offrire tutte le magie della lingua per stordire questi giovani che corrono verso altre fascinazioni, tornare alla maieutica socratica.
Se si vuol vincere. Le fughe dalla scuola, il disinteresse, il disamore centrano non solo l’italiano in patria, l’italiano nel mondo, ma anche tutte le lingue del mondo. Ma ci si pensa a quella catastrofe che sta avvenendo? Non è soltanto la scomparsa dei dialetti sostituiti da una lingua mediatica. Sta scomparendo la scrittura. I ragazzi non sanno più materialmente scrivere, quando lo fanno usano maiuscolo e corsivo nella stessa parola. E siamo appena all’inizio fra anni, che dico fra mesi, i ragazzi digiteranno soltanto. Con una velocità supersonica che mi strabilia.