C’è un direttore di giornale ucciso a colpi di P38, ci sono le rivendicazioni delle Br, poliziotti e giornalisti che danno la caccia agli assassini, personaggi ambigui e pericolosi e poi tutti gli ingredienti del giallo, compreso ovviamente il colpo di scena finale. Ma tutto ciò è soprattutto un modo per raccontare la Bologna e il giornalismo degli Anni Ottanta con sana e ironica nostalgia. Mauro Bassini, giornalista di lungo corso, collaboratore de “La Voce di New York” ed ex vicedirettore del “Quotidiano nazionale” (“il Resto del Carlino”, “La Nazione” e “Il Giorno”) in Piombo ai giornalisti, edito da Minerva, offre un amarcord in cui fantasia e realtà, personaggi veri e verosimili si fondono piacevolmente nelle quasi duecento pagine del romanzo.
Tutto inizia con un cadavere in mezzo a una stradina del centro, il cadavere del direttore del principale quotidiano della città. Sarà poi la rivendicazione delle Br a ‘spiegare’ una morte che appare assurda agli occhi di tutti: “Mercoledì 10 novembre 1982 un nucleo armato delle Brigate Rosse ha colpito Luigi Mazzoni, direttore politico del giornale di regime L’Emiliano, velinaro del ministero dell’Interno e di piazza del Gesù. Portare l’attacco allo Stato imperialista delle multinazionali e ai giornali della sua propaganda (…) Piombo ai giornalisti servi del potere”.
La notizia del delitto arriva nottetempo a Leo Giannini, impareggiabile cronista di nera, direttamente dal capo della Squadra Mobile, Antonio Pollice, a conferma di un saldo e riservato rapporto tra i due. Poi rimbalza alla trattoria ‘da Vito’, dove celebrando il rito della tagliatella e delle petroniane facezie si ritrovano quasi ogni sera giornalisti dell’“Emiliano” e dell’“Unità”, cantanti, artisti, professori universitari. “Sarà meglio correre al giornale”, così il capocronista Pierino Benetti interrompe la consueta divertente disfida politico-professionale con Ciro Soglia, capocronista del quotidiano fondato da Gramsci e reduce da Radio Mosca, bisogna prepare la ribattuta a insaputa della concorrenza, distratta soprattutto dal menu. La mattina dopo è soltanto “L’Emiliano” a riportare la notizia del delitto. Il classico buco dato a tutti.

Mentre arrivano a Bologna inviati da tutta Italia, dalla Questura, il capo della Squadra Mobile guida la caccia ai terroristi. Intanto, Giannini va a caccia di notizie, indizi, sospetti su un attentato terroristico che ha ucciso il suo direttore e che a due anni dalla strage alla stazione rigetta la città nell’incubo.
È la città che vota Pci ma compra “L’Emiliano”, la città “civile e piacevole” che ospita la più grande federazione comunista dell’Occidente, la città bonaria in cui però i meridionali vengono chiamati marocchini. Tra improbabili 007 arrivati da Roma e lettere anonime arrivate in redazione (una di queste attribuisce la responsabilità dell’omicidio addirittura a Lucio Dalla), la pista politica traballa, nonostante un secondo volantino Br dove il gioviale e simpatico (ai più) Mazzoni viene definito “una famigerata canaglia anti proletaria”.
È il bravo quanto astuto Giannini (in amicale combutta con il capo della Mobile, improvvisamente estromesso dalle indagini) a individuare un possibile altro movente, tra un alternarsi di individui equivoci, ineguagliabili maestri del raggiro, assicuratori truffaldini, loschi agenti di viaggio, o emarginati come Demo, barbone e testimone dell’agguato, che diventa presto il secondo morto assassinato.
Bologna aspetta la verità, mentre ‘da Vito’ tra Benetti e Soglia continua il susseguirsi di “baruffe meravigliose, di infinite discussioni di politica e di giornali, liti belle e vere, fatte di passione, di insulti rispettosi, di genialità e stupidaggini, anche di partigianeria, di ideologie incancrenite, di colpi duri, ma sempre sopra la cintura”. Duelli quotidiani in nome del capitalismo e del comunismo, condotti con taglienti corsivi sulle rispettive testate e interrotto a sera davanti a tagliatelle e labrusco.
Ai tavoli della trattoria, un tempio della bolognesità fatta di piatti senza pretese, politica e arguzie, incontriamo tra i tanti anche Guccini e Dalla, il fumettista Bonvi, docenti dell’Alma Mater. In piazza Maggiore c’è Beppe Maniglia, singolare chitarrista che da anni intrattiene i bolognesi e che tra gli spettatori, secondo i si dice, un giorno ha visto comparire Bruce Springsteen (e si dice anche che The Boss gli abbia comprato un cd). In via Barberia, sede del Pci, ecco spuntare il mitico (per i comunisti) Pajetta e un giovane D’Alema, “compagno che farà molta strada”. Per le strade vagano le ombre di Bifo e dei reduci del ‘77.

È la Bologna che intreccia passioni e delusioni, nuove aspettative e decrepite certezze; è la Bologna rossa che ridendo e piangendo si va tingendo di rosa e di nero; è la Bologna che Bassini, indossando nel romanzo i panni del giovane cronista, racconta con amore e nostalgia. Nostalgia per una città-mondo, in cui c’è un giornale-mondo. “L’Emiliano” è il “Resto del Carlino”, e proprio da qui l’autore ricava una serie di anedotti e gag che fanno parte della memoria del giornale. “In 500 contro un albero, tutti morti”, esempio dell’incapacità di un titolista. “Scusa Gloria, mi chiedevo una cosa”, “Dimmi Marchino”, “Mi chiedevo…cosa ne pensi del sesso anale?”, “Sei un cretino”, “Gloria mi deludi. Ti ho fatto una domanda seria”, esempio di dialogo tra la “succosa” redattrice quarantenne e il compagno di scrivania.
Ecco il vice capocronista che in redazione si fa prendere le misure di statura, gambe e braccia perché ha ordinato una fantastica auto sportiva, una Morgan: ovviamente “su misura”. C’è il bravo e colto inviato che di consueto entra in redazione gridando “Branco di giornalisti, costituitevi”. Ci sono i cronisti che improvvisano una cerimonia per un lettore affacciatosi in redazione: “È il millesimo lettore che quest’anno ci viene a trovare. Questo significa che lei ha vinto la prestigiosa collezione annuale completa del Bollettino ufficiale della Regione Emilia Romagna»; e il poveretto se ne va (contento) con otto chili di carta da buttare. Piccoli flash che sarebbero stati bene in “Prima pagina”, il film di Billy Wilder con Jack Lemmon e Walter Matthau, e che appartengono ormai a un giornalismo d’altri tempi, quando si consumavano le suole delle scarpe cercando notizie e non gli occhi davanti a un computer per copiare le notizie dal web, quando le redazioni erano variopinte comunità umane e intellettuali e non asettici luoghi impiegatizi.
Un certo rimpianto per quel mondo sembra emergere dalle pagine di Bassini. Non a caso è Giannini, cronista ‘all’antica’, il personaggio che spicca su tutti, attirando la simpatia del lettore, così come ha attirato quella di criminali del calibro di Vallanzasca, Lutring, Pacciani, Mesina, che con lui intrattengono un dialogo epistolare dalle rispettive celle. E’ Leo infatti, domanda dopo intuizione, e non senza qualche scorrettezza deontologica, a imboccare la pista giusta per individuare gli assassini, più vicini a Mazzoni di quanto si potesse immaginare. Ma prima ancora che dalla soluzione del caso, i lettori saranno presi dall’atmosfera, noir e allegra allo stesso tempo, di una città del secolo scorso, con luci e ombre che Mazzoni ha cercato di raccontare sul suo giornale. Rimettendoci la vita.
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