Salvo Palazzolo, figlio di Palermo – dove vive e lavora come inviato speciale per il quotidiano la Repubblica – crede che il mestiere di cronista si faccia raccontando le storie là dove avvengono.
Per questo motivo ha analizzato i pizzini di Provenzano con il magistrato Michele Prestipino nel libro Il codice Provenzano (Laterza, pp. 322, € 7,99) ha collaborato con la moglie di Paolo Borsellino, Agnese Piraino Leto, nella sua ultima opera Ti racconterò tutte le storie che potrò (Feltrinelli, pp. 224, € 10) ha scritto sui complici occulti della mafia nel libro Collusi (BUR, pp. 196, € 16,50) assieme al magistrato del processo sulla trattativa Stato-Mafia, Nino Di Matteo; ha persino contribuito a realizzare tre docufiction tra le più importanti mai prodotte sul fenomeno mafioso: Scacco al re – la cattura di Provenzano; Doppio gioco – le talpe dell’antimafia, e Le mani su Palermo – la cattura dei Lo Piccolo.
Sulla scia delle recenti esternazioni di Giuseppe Graviano nel 2020-2021 (in carcere dal 1994 al regime 41bis), abbiamo sentito l’autore in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro, I Fratelli Graviano (Laterza, pp. 272, € 18), che dispiega l’aggrovigliata biografia dei fratelli mafiosi, custodi di tanti segreti ancora.
Conoscendo poco della sua storia individuale, possiamo solo immaginare come abbia vissuto intensamente i contesti permeati da una densa cultura mafiosa. Anche da giovane, deve aver conosciuto quel fenomeno criminale da vicino. Pare che Gabriel García Márquez abbia scritto che “Ciò che conta nella vita non è ciò che ti accade, ma ciò che ricordi e come te lo racconti“. Cosa racconta ancora di quelle esperienze ravvicinate che lei ha vissuto da giovane, quali impressioni-flash o esperienze-totem la accompagnano ancora?
Nel mio ultimo libro racconto come finii a Brancaccio, periferia orientale di Palermo, regno della mafia corleonese che preparava le stragi contro Falcone e Borsellino. Fu don Pino Puglisi, l’assistente spirituale del mio gruppo FUCI, la federazione degli studenti cattolici, a invitare me e i miei compagni nella parrocchia in cui si era appena insediato. Era il 1991. Alle riunioni, don Pino parlava chiaramente dei fratelli Graviano e Filippo, i boss che poi avrebbero decretato la sua morte: diceva che erano come una cappa su un quartiere che non aveva neanche la scuola media. Il parroco aveva già compreso che Brancaccio era al centro di importanti dinamiche di mafia, quelle che portarono alle stragi del ’92-’93. Io e i miei compagni, invece, non ci rendemmo conto di dove ci trovavamo. Ho cominciato il mestiere di cronista nel peggiore dei modi, non capendo cosa accadeva attorno a me.
Sotto la tutela di chi si è formato, professionalmente? Ha avuto chi considera un editore o direttore eccezionali? Ci sono stati degli scrittori che l’hanno influenzata particolarmente e da chi trae ancora oggi ispirazione?
All’inizio del 1992 avevo iniziato a collaborare con il giornale L’Ora, storico quotidiano da sempre impegnato sui temi della lotta alla mafia. Dopo la chiusura del giornale, continuai a imparare il mestiere in un’altra redazione di cronisti che ogni giorno raccontavano le strade martoriate di Palermo, quella di Telescirocco. C’erano Angelo Mangano, oggi inviato di Mediaset, e Rino Cascio, diventato il capo della redazione siciliana della RAI. Intanto, leggevo e rileggevo Leonardo Sciascia per provare a cogliere strumenti di lettura della complessità che mi circondava.
C’è comunità tra voi cronisti? Vi conoscete e/o frequentate? C’è uno scambio d’idee su questa materia così difficile?
I cronisti di Palermo sono tanti e curiosi, cercano di portare avanti la gloriosa tradizione del giornalismo siciliano, che ha pagato un prezzo altissimo nella lotta alla mafia: sono 8 le vittime, tutte erano impegnate in inchieste scomode. Oggi, attraverso le iniziative organizzate dall’Ordine e dal Sindacato, i cronisti di Palermo si ritrovano a discutere del proprio percorso e della realtà circostante.
Il suo lavoro, come documentarista, scrittore e cronista, trasmette un impegno molto personale all’attento osservatore. È così per lei, più che un’occupazione, sarebbe meglio parlare di vocazione? Oppure quell’impressione fa parte delle cose che colorano chi si occupa, in buona fede, del fenomeno?
La mia generazione si è ritrovata a fare le proprie scelte di vita mentre le strade della città erano sventrate dalle bombe della mafia. Ognuno ha cercato di portare il proprio contributo alla ricostruzione della comunità.
Ormai la sua scrittura e le sue immagini sono riconosciute come buon esempio di studio del fenomeno mafioso, e anche lei, come giornalista d’inchiesta che concentra il suo guardo sulla criminalità organizzata. Quindi avrà avuto modo di osservare da vicino anche la reazione del pubblico al suo operato. Ci sono state delle sorprese per lei nelle sue presentazioni recenti al pubblico di questo libro?
Continuano a sorprendermi le domande precise e puntuali dei giovani, che vogliono conoscere la vera storia dei Graviano, i mafiosi delle stragi e delle complicità. Non si rassegnano alle domande senza risposta.

Molti giovani brillanti vogliono essere giornalisti, documentaristi con una certa responsabilità civile, ma il numero di posti inequivocabilmente autorevoli in cui si fanno ancora reportage seri è diminuito nel corso della loro vita. Cosa direbbe a quelli di loro che insistono comunque nel perseguire la professione – in termini di una sua osservazione sulle possibili vie di sbocco odierne?
Ai giovani dico di continuare a coltivare i propri sogni. Dico soprattutto che questo mestiere si impara raccontando le storie dove avvengono, non si può fare alla scrivania.
Lei da molto risalto alle due provette in vitro che molto probabilmente uscirono dal carcere con la complicità di qualche autorità. Altre autorità hanno chiuso un occhio – come lei ben sa – non alle provette ma alle tranquille passeggiate di Provenzano tra Palermo, Rome e la Francia. Secondo lei, qual è il significato di questo contrabbando peculiare?
Le complicità eccellenti restano la chiave per comprendere il ruolo dei mafiosi delle stragi. Qualcuno potrebbe aver consentito il passaggio delle provette e dunque la nascita dei figli dei fratelli Graviano per assicurarsi il silenzio dei boss di Brancaccio.
Lei scrive: “…Toto Riina, il capo della mafia, ha offerta la migliore definizione di antimafia: a dare fastidio ai padrini non sono i proclami, ma il lavoro sul territorio.” Questa mi sembra la frase per cui, si potrebbe dire, è stato scritto l’intero libro. Potrebbe approfondire questa osservazione?
La mafia è infastidita da chi opera concretamente, non da chi spara proclami nei convegni. Tema di grande attualità. Purtroppo, l’antimafia di maniera è diventata una moda parecchio diffusa.
Lei osserva: “…Il tempo dei Graviano sembra essere finalmente lontano. Chissà, invece, dov’è arrivato il tempo dei loro complici misteriosi…”. Sembra lo spunto di un prossimo libro. Ci può condividere quali sono per lei i progetti del prossimo futuro, che cosa la incuriosisce in questo periodo?
In questi ultimi tempi sto raccontando sulle pagine del mio giornale, la Repubblica, la riorganizzazione di Cosa nostra. Dopo la morte di Riina, è caduta la fatwa sulle vecchie famiglie: a Palermo sono anche tornati gli esponenti del clan Inzerillo dagli Stati Uniti dopo un lungo esilio. Le mie inchieste sui boss italo-americani hanno dato parecchio fastidio: nel dicembre 2018, alcuni mafiosi del clan Inzerillo sono stati intercettati dalla squadra mobile mentre discutevano di darmi “due colpi di mazzuolo”. Qualche mese dopo, per fortuna, sono stati arrestati.

Anche se l’uccisione a New York del boss dei Gambino, Frank Calì, non è stato un crimine di mafia (ucciso, invece, per una banale lite con uno squilibrato), ha comunque creato un vuotoimportante nelle organizzazioni in questo periodo delicato. “Gli scappati” dello sterminio corleonese, con i sopracitati Inzerillo in testa, stanno tornando in Sicilia a riprendere anche loro una posizione sicula, dopo la anomala parentesi sanguinosissima del regno di Totò Riina. Lei avrà avuto modo di constatare che effetto questo decesso, a Staten Island, ha prodotto a Palermo per le due sponde delle organizzazioni. Cosa è riuscito capire delle sue indagini giornalistiche?
Nelle settimane precedenti il suo omicidio, Frank Calì era in stretto contatto con i mafiosi palermitani. Si discuteva di soldi da fare arrivare in Sicilia e di investimenti a Palermo. Gli “scappati” di un tempo vogliono riprendersi il regno che gli era stato tolto da Salvatore Riina. Le intercettazioni della squadra mobile raccontano lo sconforto dei boss siciliani per la morte di Frank Calì, anche loro si erano preoccupati, temendo un drammatico e improvviso cambio di equilibri. Poi, hanno capito cosa era accaduto per davvero. E le intercettazioni di Palermo hanno offerto spunti interessanti anche all’FBI. Ora, bisogna capire chi sta gestendo l’impero di Frank Calì, chi sta curando quel tesoro degli Inzerillo su cui aveva indagato il giudice Falcone nel 1980, un tesoro mai sequestrato.
La tempistica della stesura del libro è collegata a qualcosa di particolare? Perché l’ha scritto ora?
Trent’anni dopo le stragi Falcone e Borsellino ho voluto tracciare il bilancio di un lungo percorso di racconti e inchieste a Palermo. Ma non per guardare al passato, piuttosto per continuare a cercare quei pezzi di verità che ancora mancano.
L’immagine del pentito Stefano Calzetta, trasformatosi in solitario senzatetto sotto la finestra dell’ex-ufficio del Commissario Cassarà, piomba nella mente come metafora di una parte consistente della dinamica di quell’epoca; incapsula un’intera mentalità di quella stagione – il tentativo, l’evoluzione, un fallimento e un lascito. Tra tanti. Ha un’osservazione in merito?
Tanti uomini coraggiosi a Palermo sono stati lasciati soli. I nostri martiri sono rimasti soli, perché il resto della città non ha compreso. Mi chiedo se sta accadendo ancora.
Aggiornamento 16 gennaio 2023: cattura di Matteo Messina Denaro