La Cina non è una sola (Mondadori 2021) è il titolo e la tesi portante del libro di Filippo Santelli, che nell’Impero Celeste è stato corrispondente per la Repubblica dal 2018 al 2021. Di Cina non si è parlato così tanto come negli ultimi anni. Dalle sfide con gli Stati Uniti, allo strapotere di Xi Jinping. Dalla Via della Seta alle proteste di Hong Kong. La Cina è sempre più presente nelle nostre vite, nel bene e nel male; Thomas Orlik ha parlato di “sinofrenia”. Le tesi attorno alla sua crescita economica ricalcano fantasie distopiche, secondo cui Pechino vorrebbe sottrarre a Washington il ruolo di superpotenza egemone. Altre invece sottolineano come il Dragone sia un gigante dai piedi d’argilla. Ad ogni modo, oggi come non mai, è valida la massima di Napoleone Bonaparte, che nel 1816 aveva detto: «Lasciate dormire la Cina perché al suo risveglio il mondo tremerà».
Washington riceve costantemente report allarmanti sul sorpasso della Cina. Mentre il PCC cementa la propria legittimità tramite un nazionalismo spinto. Xi ha spiegato che «l’Oriente si sta sollevando, mentre l’Occidente declina». Entro il 2049, anno del centenario della Repubblica Popolare, la Cina sarà la prima potenza mondiale. Nel volume Santelli offre al lettore diversi strumenti di comprensione per interpretare le tante “Cine” che ha visto. La Cina non è una sola: ha forze centrifughe e centripete. «Un paese che promuove l’innovazione tecnologica, ma restringe gli spazi di espressione della società civile […]. Che vuole cambiare il suo paradigma di sviluppo […] ma resta […] legato al modello pesante e inquinante». La Cina è fatta di tensioni, paradossi, contraddizioni; «in bilico tra sicurezza e insicurezze, tra evoluzione e involuzione». L’ascesa del Dragone fa paura alle liberaldemocrazie, ritenute incapaci da Pechino di dare risposte su molte urgenze globali.
Per contestarne il desiderio di supremazia globale, le liberaldemocrazie devono capire la Cina. Santelli spiega che «la Grande Muraglia Digitale che isola l’Internet in mandarino dal resto della Rete è una protezione […] per evitare che idee pericolose si intrufolino dall’estero». Il partito-Stato è ossessionato dalle compromissioni della stabilità e dell’armonia sociale. Il leviatano comunista è fatto di «stringenti e ottuse gerarchie, l’organizzazione a compartimenti stagni, il formalismo fine a se stesso, la difficoltà di comunicazione tra centro e periferia». Il fenomeno della censura è legato alle fake news che il regime propugna ai cittadini e al mondo. Il Covid-19 è l’esempio più recente: le conseguenze dei silenzi sul nuovo coronavirus sono state drammatiche. Il 10 febbraio 2020 Xi si è presentato in pubblico con la mascherina: il salvatore chiedeva ai cittadini di fare la propria parte. «La guerra del popolo era iniziata, il comandante era al suo posto».
Ogni sforzo doveva essere diretto al contenimento del virus per preservare l’agognata stabilità. Per mantenere il controllo sul territorio la manipolazione dell’informazione da parte del PCC è vitale. Il Covid-19 ha rafforzato il potere dello Stato sulla società civile. Xi e il PCC «controllano le leve del potere in un modo che non può essere replicato nei sistemi democratici», scrive Richard McGregor. Il contenimento del virus ha funzionato grazie a sorveglianza, mobilitazione delle infrastrutture sanitarie e moltiplicazione dei controlli. Questo ha consentito alla Cina nel 2020 di vantare cinquemila decessi in un paese con 1.4 miliardi di persone. Se il padre del riformismo cinese Deng Xiaoping spiegava che il Dragone doveva nascondere le proprie forze, con Xi il nazionalismo è diventato il cardine dell’identità cinese. Xi parla spesso delle minacce esterne nei confronti della Cina. Tesse le lodi del capitalismo con caratteristiche cinesi che ha ammansito il Covid-19.

Ma gli errori di Wuhan non sono stati dimenticati dell’opinione pubblica e la Cina ha recepito con fastidio le critiche dall’estero. Molti paesi non sono convinti dalle rassicurazioni che Xi vuol dare proponendo Pechino come una potenza responsabile e pacifica. Il presidente si fa paladino della globalizzazione, ma mostra la sua vera natura di tiranno quando rivendica territori nel Mar Cinese Meridionale, normalizza Hong Kong, provoca Taiwan. Sul fronte interno, una delle battaglie chiave di Xi è il contrasto alla povertà. Questa è riassunta al concetto di “uno-due-tre”, scrive Santelli. Xi vuole garantire a tutti un reddito oltre la soglia di povertà, togliere alle famiglie le preoccupazioni di cibo e vestiti ed offrire loro tre garanzie: casa, educazione e cure mediche. È già tanto per milioni di cinesi, molti dei quali fino a pochi anni fa vivevano in una povertà impressionante.
Nel 2020 il premier Li Keqiang ha ricordato che nel paese ci sono sei milioni di milionari, mentre seicento milioni di persone vivono sotto i mille renmimbi, 125 Euro. Riassume Thomas Piketty (Capitale e ideologia), che la Cina ha un tasso di disuguaglianza poco inferiore a quello della Russia. Per ovviare, Xi ha condotto una crociata contro i funzionari corrotti. Ma il vero obiettivo era un altro: quello di liminare i concorrenti politici. «Ora i cittadini chiedono qualità, mentre il governo vuole guidare una transizione controllata verso un nuovo modello di crescita basato sull’innovazione, i consumi interni», scrive Santelli. I cittadini risparmiano per garantirsi una pensione e pagare le scuole a figli e nipoti – al netto dei problemi ereditati dalla politica del figlio unico. Il tasso di fecondità è stagnante; quello d’invecchiamento è in ascesa. Il “wei fu xian lao” è il «diventare vecchi prima di diventare ricchi».
«L’Europa o il Giappone avevano già raggiunto livelli di reddito elevati prima di cominciare a invecchiare in modo incontrollato. La Cina invece […] è ancora a metà strada dell’ascesa verso il computo benessere». I correttivi per stimolare la natalità sono stati inefficaci. Nel 2016 alle coppie è stato consentito di avere un secondo figlio, ma per i genitori pagare l’asilo è un cruccio. Talvolta le scuole dell’infanzia costano più delle superiori. I corsi pomeridiani frustrano i giovani. I compiti a casa si stimano tre ore al giorno. Molti bambini soffrono dello “yanxue”, l’ansia da studio. È famoso il “996”, il ritmo di lavoro dalle 9 del mattino alle 9 di sera, 6 giorni alla settimana. Un orario illegale, scrive Santelli, comune nelle aziende hi-tech che impongono ritmi forsennati senza. La diffusione di questo paradigma ha scatenato rivolte sociali, ma è stato appoggiato anche dal fondatore di Alibaba Jack Ma.

Molti programmatori abbandonano l’idea del tempo libero e fanno del lavoro la loro vita. Saltano da un’azienda all’altra, negoziando stipendi sempre più alti. Tra gli elementi sociali che definiscono alla Cina di oggi, Santelli mette anche la rapidità delle comunicazioni. La bicicletta è un mezzo che il PCC ha messo nell’elenco delle quattro invenzioni del secolo con e-commerce, pagamenti digitali via smartphone e treno ad alta velocità. Huawei (letteralmente “il successo della Cina”) è il modello dell’hi-tech cinese e del modello cinese da esportare in tutto il mondo. L’attenzione del PCC per confronti la tecnologia si è intensificato negli ultimi anni fino allo sviluppo del 5G. Le grosse innovazioni in Cina sono gestite dallo Stato. Nonostante i 635 miliardi di dollari di debito, China Railway ha cambiato la configurazione geografica del paese, in ossequio al vecchio detto «se vuoi diventare ricco, prima costruisci una strada».
La Cina è ancora indietro su due risorse, ricorda Santelli: ricerca e capitale umano. Il Dragone è il paese che produce più paper accademici al mondo e ha raggiunto il 2019 il primato dei brevetti. D’altra parte, le università moltiplicano le pubblicazioni per rispondere ad imperativi politici, non alla scienza. La Cina sforna ogni anno seicentomila laureati in ingegneria. Gli spazi per il pensiero critico negli atenei sono ristretti. L’artista Ai Weiwei ha detto: «Se sei contrario a qualunque valore essenziale dell’individualismo e del pensiero indipendente, alla volontà di correre rischi […] che […] creatività ti puoi aspettare?». La centralità del PCC nei processi di innovazione continuerà ad aumentare. Gli Stati Uniti cercano di far leva sulla superiorità tecnologica per fermare l’ascesa della Cina. La quale ha sofferto economicamente a causa dei boicottaggi americani nell’ambito della guerra commerciale. La Cina dipende dai microprocessori importati dagli States.
«Le aziende hanno contribuito la modernizzazione del paese e aiutato la censura a controllare e orientare l’opinione pubblica su Internet. In cambio, la Grande Muraglia Digitale […] attorno al web in mandarino le ha liberate dalla concorrenza straniera». Secondo Santelli, la leadership cinese «vuole controllare lo sviluppo tecnologico del paese. Eliminare la povertà attraverso lo sviluppo tecnologico ed evitare l’instabilità sono tra le due grandi priorità del governo. Inoltre, si è registrata […] insofferenza da parte dei cittadini nei confronti dei giganti del web a fronte di una grande povertà […] ancora presente». Tuttavia «prima dell’innovazione, in Cina viene la stabilità prima del mercato, viene il partito». Un altro campo in cui Pechino gioca le sue carte è quello del clima. Nel 2030 raggiungerà il picco delle emissioni di CO2, di cui oggi è la prima responsabile in termini di emissioni. Nel 2060 arriverà alla neutralità carbonica.

Nella guerra all’inquinamento Xi vuole creare una nuova civiltà ecologica, ma la transizione green è costosa per un’economia dipendente dal carbone. Nel 2015 il governo varò una legge per la protezione dell’ambiente. Xi sintetizza la battaglia per «cieli azzurri, montagne verdi e fiumi trasparenti»; tre importanti elementi per la lotta contro povertà, diseguaglianza ed invecchiamento. Nel Nord della Cina la desertificazione è un’emergenza. Ma dal 2000 al 2017 la Cina è stata responsabile di un quarto dell’incremento mondiale delle aree verdi sulla Terra. Questo è un buon segno e il rimboschimento ha visto la crescita di settanta milioni di alberi. La raccolta differenziata obbligatoria e le dighe per sfruttare l’idroelettrico che hanno un impatto devastante sulla natura sono segnali dell’ambientalismo autoritario cinese, nonché green policy condotte tramite metodi coercitivi. La modernizzazione del paese passa anche per il turismo globale.
Nel 2012 è diventata la prima forza del turismo mondiale, sebbene la maggior parte dei cinesi viaggi solo nel paese. Nel 2018 l’ufficio nazionale di statistica ha contato 5,5 miliardi viaggi, quattro per abitante. Quarant’anni dopo le riforme di Deng, «i gusti e le scelte di consumo dei cinesi decidono le sorti di alcune delle principali industrie globali». Pechino «acquista un terzo delle automobili vendute nel mondo, la metà sono modelli stranieri […]. Gli incassi del botteghino cinematografico hanno […] superato quelli degli Stati Uniti […]. Vista dalla Cina, l’America è stata a lungo il più grande nemico imperialista, l’oppressore […], ma nell’era delle riforme […] è diventato un modello di potere e benessere». Tuttavia, il reddito pro-capite cinese è di quello americano. Semplifica Santelli: «Per l’americano consumare è un’espressione della propria libertà individuale; per il cinese, […] ogni acquisto ha una fortissima dimensione sociale».
Le ossessioni delle nuove generazioni sono il viaggiar da soli, lo stile di vita sano, l’alimentazione corretta. Anche in Cina gli influencer impongono modelli di successo. «L’importanza dell’immagine sociale è alla base di una delle più pazze industrie cinesi, quella delle fotografie di matrimonio». Inoltre, la combinazione tra pressione sociale verso la conformità e la competizione per emergere, secondo Xiang Biao, comporta un’impossibilità di uscire dai modelli sociali imposti. I cinesi continuano a comprare i marchi più importanti del mondo perché ne percepiscono il prestigio. Si compra Vuitton, ma si apprezza anche la cucina locale. Si usa la medicina tradizionale, ma si brama la Mercedes. Questo consumismo capitalista e nazionalista promosso da Xi lo ha esposto a critiche dell’estrema sinistra che denuncia il divario tra ricchi e poveri. Jude Blanchette (China’s New Red Guards) ha raccontato a proposito di un movimento conservatore maoista ostile alle riforme di Deng.

Xi oggi è accusato di aver tradito gli ideali originari di uguaglianza. Tale critica trova luogo nei campus universitari dove d’altra parte vige un’ortodossia ideologica. La chiusura degli spazi di espressione in accademia e altrove sta impoverendo il dibattito culturale attorno alle questioni politico-culturali. Ricorda Santelli: «le ong in Cina esistono ancora, ma si muovono su un filo sottilissimo, attente a non esporsi all’accusa di attività sovversive, sempre in difficoltà nel raccogliere i fondi». Il web doveva essere una forza liberatrice, ma è diventato uno strumento che il PCC usa per controllare la popolazione. «Una delle strategie del partito è tenere vaghi i limiti e le regole, in modo che possano essere usati in maniera discrezionale». Inoltre, «il regime chiede ai cittadini cinque identificazioni: con la patria, con la nazione cinese, con la sua cultura, con il modello socialista e con il partito».
Dopo aver negato l’esistenza dei lager antimusulmani nello Xinjiang, nel 2018 la Cina ha ammesso l’esistenza di “centri di rieducazione” per gli uiguri, privati della libertà, costretti ad oltraggiare la propria religione, fra torture, abusi e sterilizzazione. Lo Xinjiang (letteralmente “nuova frontiera”) è scarsamente popolato, ma ha importanti giacimenti minerari. Si tratta del confine con l’ex URSS: uno snodo fondamentale per la Via della Seta. Il PCC ha cercato di disincentivare la riproduzione degli undici milioni di turcofoni, incentivando gli Han a trasferirsi nell’area. Il progetto di sinizzazione era giustificato dalla necessità di portare con sé uno sviluppo economico delle aree povere, ma gli uiguri hanno opposto resistenza. L’uccisione nel 2009 di due lavoratori uiguri ha scatenato diverse proteste nella regione, poi represse dal governo. Che ha approvato misure radicali per bloccare l’accesso a Internet dell’intera provincia e reprimere le minoranze etniche.
Nel 2015 una nuova legge nazionale su controterrorismo ha fornito alle autorità locali gli strumenti per reagire con durezza di fronte al “problema uiguro”. Così dal 2017 migliaia di uiguri hanno iniziato a sparire. I villaggi si sono svuotati e sono fiorite le strutture detentive-concentrazionarie. Il dieci per cento della popolazione figura, quindi un milione di persone, è stato mandato in questi centri. Il coronavirus ha reso ancora più difficile ottenere informazioni sullo Xinjiang. L’espansione cinese tocca anche Hong Kong. Il regime di “un paese due sistemi” prevedeva che i cittadini potessero scegliere i loro amministratori, ma dopo la rivoluzione degli ombrelli del 2019 Pechino ha eliminato gli spazi di libertà. La legge sull’estradizione è stata la miccia di nuove proteste, ma il primo giugno 2020, anniversario del ritorno dell’ex colonia alla Cina, il governo centrale ha imposto una nuova legge sulla sicurezza nazionale.

Carrie Lam, zelante funzionaria scelta da Pechino per governare Hong Kong, ha represso la guerriglia nei campus universitari. I giovani sapevano che il PCC non avrebbe mai concesso nulla, ma non volevano darsi per vinti. Con la legge sulla sicurezza nazionale la città-Stato è oramai “un’altra città cinese”. Sovversione, successione, terrorismo e collusione con le forze straniere, identificate in maniera vaga per ampliare la discrezionalità coercitiva del PCC, prevede pene fino all’ergastolo, nonché un processo in Cina continentale. Tra i fustigati eccellenti della legge ci sono Joshua Wong condannato per assemblea illegale; nonché il tycoon editore di Apple Daily Jimmy Lai. Un altro obiettivo della Cina sarebbe far ritornare Taiwan sotto il suo controllo. «Non potendo più conquistare il cuore dei taiwanesi, Pechino li deve costringere. Il Dragone sta provando a sfruttare la propria potenza economica per rendere l’isola dipendente […], isolarla diplomaticamente, strappandole […] gli ultimi alleati».
Pechino mostra i muscoli e fa intendere che prima o poi riconquisterà Taiwan. Sebbene sia lontana da poter rivaleggiare contro la potenza americana, la Cina sta facendo di tutto per colmare il divario in campo militare. Compie esercitazioni di terrore e di militarismo vicino all’ex Formosa. Sta a testa alta nella regione del Mar Cinese Orientale dove rivendica delle isole. Occupa gli atolli nel Mar Cinese Meridionale creando di proposito incidenti con Giappone e Vietnam. Lungo la frontiera dell’Himalaya le truppe ingaggiano battaglie con gli indiani. Tuttavia, «la Cina si presenta ancora al mondo con una potenza pacifica, contraria a ogni forma di interferenza negli affari interni degli altri paesi, un difensore del multilateralismo». La campagna di inglobamento sia in Cina, che a Macao prima e Hong Kong dopo, il desiderio di inglobare Taiwan, sono la prova della postura assertiva della Cina.
«Nella società della Repubblica popolare la fiducia e le risorse scarsissime: sì che la fiducia reciproca tra le autorità e i cittadini, sia la fiducia delle persone nei confronti dei vicini». Xi non è come Mao Zedong e non vuole creare di proposito disordine. Chiosa Santelli: «La legittimità del partito comunista è sempre stata legata alla sua capacità di governare in maniera efficiente, ma […] nell’era delle riforme di Deng Xiaoping l’idea era che non potesse esserci stabilità senza crescita, dunque quest’ultima era la variabile indipendente da cercare a tutti i costi. Ora […] il principio si sta invertendo: non può esserci crescita senza stabilità […]. Il regime sta riscrivendo il patto sociale con i suoi cittadini con un accordo […] di sicurezza nazionale. Un patto a cui un popolo pieno di ansia è disposto a aderire».