Dal 2015 al 2019 direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a New York, Giorgio Van Straten è ritornato nella sua Firenze dove ha appena scritto il suo ultimo romanzo, Una disperata vitalità (HarperCollins 2022, pp. 272, euro 18). Un titolo indovinato e che incuriosisce, preso in prestito da una raccolta di poesie di Pier Paolo Pasolini. Un espediente narrativo in cui il protagonista è l’alter ego dello scrittore, come Philip Roth fece con il suo Nathan Zuckerman, Giorgio, uno scrittore che vive tra Firenze e New York, che cuce, ricuce e rammenda rapporti sentimentali e di amicizia, ma che è soprattutto alle prese con la “scoperta” di avere sessant’anni, solo che se ne sente quaranta, ma il suo corpo non gli risponde più a tono. Sarebbe tutto tragico se non fosse affrontato con sopraffina ironia e vivide descrizioni di personaggi e ambienti newyorchesi confrontati con quelli fiorentini degli amici di sempre, i loro giochi e le loro battaglie.

“Il Giorgio del romanzo è diverso dal Giorgio che scrive, soprattutto nei fatti concreti, ma mi assomiglia molto nei sentimenti», racconta con voce divertita l’autore. «Mi premeva sottolineare come la reazione negativa a un risultato elettorale fosse emotivamente molto meno forte di una partita di calcio tra amici, l’assurdità che questo contiene e anche la responsabilità della politica dell’essere diventata questo, soprattutto per chi come me e altri della mia generazione l’ha molto praticata decenni fa”.
Secondo lei, perché arriviamo così impreparati all’invecchiare?
“Per la mia generazione e forse anche per quelle successive alla mia c’è una differenza rispetto al passato: noi siamo stati considerati giovani troppo a lungo. La mia era una generazione della cui dimensione – appunto – generazionale aveva fatto una bandiera politica. Poi siamo rimasti legati in larga misura a quella definizione per cui giovani nella percezione degli altri e soprattutto di noi stessi per lo meno fino ai 50. A 60 succede che diventi anziano, ti fanno lo sconto sui treni, eccetera… La fase dell’età adulta è stata molto, per così dire, schiacciata e io mi sono ritrovato impreparato a questo fatto dell’invecchiare”.

Il titolo è perfetto: ‘Una disperata vitalità’ opposta, per dire, all’infelicità senza desideri di Peter Handke, perché i desideri ci sono e come!
“Certo, i desideri manteniamoli. Vorrei che il mio libro portasse anche a pensare che c’è sempre tempo per nuove avventure. La mia esperienza, e quindi in parte anche l’esperienza del mio protagonista, è in questa direzione. Io a 60 anni mi sono ritrovato a fare un lavoro per la prima volta nella mia vita fuori d’Italia con l’occasione anche di stabilire una relazione con gli altri che non fosse fatta di passato. Ciascuno di noi si adatta non solo a quello che è, ma a quello che gli altri considerano che tu sia, se vai in una città dove non sei mai stato e non conosci nessuno, ti puoi permettere di esplorare diverse parti della tua identità, di costruirne anche nuove. È la dimostrazione che continuare ad avere dei desideri è possibile. Questi desideri ovviamente e questa vitalità si scontrano inevitabilmente con l’accorciarsi del tempo, perché il tempo che hai davanti si va via via riducendo, ma non azzerando, dunque questa sfida è possibile. Vivere il presente anche se il presente non è ultimamente entusiasmante”.

A proposito di questo, la pandemia è arrivata mentre lei stava scrivendo il libro…
“Ho cominciato a scriverlo mentre ero ancora a New York, perché dopo l’esperienza all’Istituto Italiano di Cultura sono ritornato a insegnare e quindi lo scrivevo in presa diretta, raccontando degli ambienti e di un mondo che esisteva, lo prendevo anche in giro, era lì. Poi quando sono arrivato alla fine del libro, quel modo di incontrarsi e di fare cultura con l’arrivo del COVID non c’era più e non penso che sia ripreso completamente. È diventato qualcosa da guardare con una certa nostalgia».
Cito: “ma la cultura a New York diventava quasi sempre una questione di edilizia”.
“Avendo necessità di trovare sempre risorse private per fare attività culturali ed essendo difficile trovare risorse per le spese ordinarie di un’istituzione, come ad esempio un museo, si pensa che le risorse aggiuntive le si possa ottenere facendo dei progetti aggiuntivi, tipo costruendo nuove aree del museo. Questo è un processo che si avvita su se stesso, perché c’è sempre necessità di rilanciare, e per quanto New York sia una città incredibilmente ricca, a volte il banco salta”.

Per quanto riguarda il senso dell’umorismo, il suo protagonista commenta quanto sia “raro per un americano”.
“L’ironia è una cosa italiana e sicuramente della mia città, un modo positivo di affrontare le cose, quando non diventa cinismo. Un modo per non prendersi sul serio, per non piangersi addosso. Se avessi affrontato con lo stesso approccio dei miei libri precedenti anche la storia che racconto in questo libro probabilmente non avrebbe funzionato. Ma quella era una battuta, perché ci sono pezzi di cultura americana pieni di ironia. Per esempio, tutta la cultura ebraica newyorchese è una cultura piena di ironia e di auto ironia, da cominciare da Woody Allen per finire con Philip Roth e poi tanti altri… dipende anche dalle persone”.
Come lo vede lei l’italiano a New York?
“Ne conosco di due tipi prevalentemente: quelli che continuano a considerarsi italiani e in qualche modo anche orgogliosi di esserlo, alcuni arrivando persino a calcare sul loro accento per farsi riconoscere perché pensano che la loro forza sia quella di portare una forma di sensibilità, soprattutto in ambito culturale, e poi ci sono quelli che un minuto dopo essere arrivati sono più americani degli americani, fanno tutte le cose che farebbe un americano medio, pensando che questa possa essere la via dell’integrazione. È quello che hanno fatto in qualche misura in altri tempi gli italoamericani, ma allora aveva senso perché farsi accettare all’inizio non era facile. Oggi invece gli italiani sono mediamente molto graditi per cui trovo che certe forme di immediata americanizzazione siano effettivamente un po’ ridicole”.

Il sogno americano non è finito dunque.
“Negli anni in cui mi sono occupato dell’Istituto Italiano di Cultura ho lavorato un po’ su questo. Gli americani adorano la cultura italiana, ma sostanzialmente la cultura di persone morte, da Dante a Fellini, per usare un arco temporale ampio. Io ho cercato di dimostrare che esiste una cultura italiana fatta fa persone vive e che molte di queste persone stanno appunto a New York. C’è il fatto che quando arrivi a New York diventi un newyorchese, non importa da dove arrivi. Ma se ci sono tanti italiani lì che fanno certe cose bene, è anche perché sono italiani. Io dal mio ruolo ho cercato di lavorare su questo aspetto, di sottolinearlo”.
Perché a New York ti chiedono immediatamente di cosa ti occupi?
“Quella è una cosa che può dare noia, è il corollario di quanto guadagni, ma dall’altro punto di vista è un modo di rendersi tutti un po’ più concreti. L’idea di progettarsi, di darsi uno scopo è un insegnamento che New York dà, come pure quello di ricominciare, cimentarti in qualcosa di diverso, di scoprire un’altra parte di te. Nei paesi anglosassoni non c’è questa separazione, come da noi, prima studi, poi lavori. Qui uno lavora, poi magari torna a studiare, cambia lavoro e l’età non è una variabile poi così rilevante dal punto di vista professionale. Questo rende la società spesso più vivace della nostra”.

La differenza tra i salotti italiani e quello americani?
“Diciamo che la differenza tra certi ambienti di New York e certi ambienti in Italia è che a New York sono tutti mediamente molto più ricchi. Un altro aspetto è che, almeno all’inizio, sono anche più curiosi su chi arriva, c’è più coinvolgimento”.
Sul romanzo ci sono brevi accenni alla Cancel Culture e al movimento Me too che sembrano avere un peso a New York. Pensa stia avvenendo la stessa cosa in Italia?
“In parte avviene, ma non nello stesso modo, anche perché nel frattempo anche nei paesi anglosassoni è partita una forma di reazione. Penso che il Me Too e la riscoperta di culture altre siano fenomeni ovviamente positivi. Quando però certe forme di reazione all’intolleranza diventano anch’esse intolleranti secondo me è pericoloso, in particolare quando si applicano all’arte, perché l’arte deve essere totalmente libera”.

Qual è il suo ricordo più bello come direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a New York?
“La cosa che ricordo con più orgoglio è quando abbiamo fatto la lettura integrale di ‘Se questo è un uomo’ di Primo Levi nella New York Public Library uno dei templi della cultura newyorchese e non solo. È stata una lettura multilingue, anche perché Levi è stato tradotto in oltre quaranta paesi. Lì ho sentito la forza di un’esperienza culturale italiana, in questo caso anche non così distante, che affrontava dei temi che soprattutto in questi giorni sono ancora tragicamente attuali”.
E l’incontro che più l’ha colpita?
“Una persona che mi ha dato dimostrazione di una passione e di una voglia di affermare la cultura italiana a New York è Giorgio Spanu che assieme alla moglie americana ha creato Magazzino Italian Art che è un bellissimo museo dedicato in particolare all’arte povera italiana. È un’esperienza straordinaria, un investimento economico che rappresenta una scommessa culturale fantastica”.