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October 5, 2022
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“Il Premio Tenco? Pensavo fosse uno scherzo!”: parola a Michael McDermott

Intervista al cantautore americano, che ha appena pubblicato l'album "St.Paul’s Boulevard" e un libro di memorie ("Scars from Another Life”)

Irene SparacellobyIrene Sparacello
“Il Premio Tenco? Pensavo fosse uno scherzo!”: parola a Michael McDermott

Michael McDermott

Time: 3 mins read

Ciao Michael, prima di tutto congratulazioni per il Premio Tenco!

Grazie! Ero davvero incredulo quando l’ho saputo! È un premio che naturalmente conoscevo da tempo, ma averlo vinto… all’inizio pensavo fosse un errore! Ne sono naturalmente felicissimo.  E voglio approfondire senz’altro la mia conoscenza su Luigi Tenco stesso. So poco di lui.

Nel tuo libro dedichi un capitolo intero all’Italia. Sappiamo del tuo forte legame con la nostra terra, ma ti sei domandato come mai tu sia così amato proprio in Italia di tutti i Paesi esteri? 

Non lo so se c’è un elemento romantico che in voi è innato, ma credo che la filosofia sia la vostra cifra. Io cerco di rivelare la fragilità dell’essere umano attraverso le canzoni, che è una fragilità che attraversa tutte le culture, vite e etnie, e gli italiani, da migliaia di anni meditano su questi pensieri filosofici e romantici. Come spiego nel libro, venire in Italia mi ha salvato davvero la vita. C’è una connessione dell’anima che me la fa sentire come casa e mi preoccupo quando sento a volte che le cose lì non vanno bene.

Michael McDermott

C’è forse anche l’aspetto del tuo essere così aperto, come dimostri con il tuo libro? 

In realtà ero un tipo riservato, ma l’accesso alle droghe ti rende predisposto a parlare di qualunque cosa. Il valore positivo di questo è capire che siamo tutti insieme a condividere questa esperienza di vita e perché dovremmo raccontare di più. Agli A.A. (Alcolisti Anonimi) si fa quella che viene chiamata “la condivisione”: “Lascia che vi dica quante volte ho mandato tutto in rovina, in quante maniere ho cercato di uccidermi, quanta vergogna mi porto addosso!” Quando entri in una stanza con tutti degli estranei e parli di una malattia e perché sei lì e perché hai mandato in merda la tua vita, è una cosa intensa.  Posso scrivere una canzone su una ragazza drogata e in questo modo parlare di tutti.

Vedo un parallelo tra l’album e il libro in questo senso, e mi piace constatare che non rinneghi nulla, ad esempio, come quando parli di in un tavolo dove ci si fa della cocaina e vengono fuori discorsi interessanti e incontri dei personaggi che se non fossi stato un drogato non avresti incontrato.

Sì, era la porta per la quale dovevo passare. L’unico modo per uscire fuori è attraversare. Se riusciamo a mettere in un contesto diverso le cose terribili della nostra vita, cambiare loro la cornice, accettare che c’è del dolore da attraversare, allora questo rende tutto più gestibile. Non c’è modo di aggirare il dolore, nonostante tutti i nostri continui tentativi, con la droga, il sesso, il bere, il gioco. Io non rinnego nulla di ciò che ho fatto. In quelle stanze, la gente è alla continua ricerca di connessione. Se vai in chiesa alla domenica, sai che alla metà delle persone che è lì dentro non importa niente. Sono lì perché sperano di avere un premio alla fine. Non sono alla ricerca. Facciamo tutto per renderci insensibili, ma il vero significato è nella sofferenza.

Sei ancora in contatto con Stephen King, che ricordiamo essere un tuo grande ammiratore?

Sì, è un paio d’anni che non lo sento, ora sono in contatto soprattutto con il figlio Owen che è stato il primo a darmi una mano con il libro, aiutandomi a fare una selezione. Sapevo di poter scrivere delle canzoni, ma quando è stata l’ora di scrivere un libro mi sono reso conto che era molto differente ed è stato molto difficile scrivere di me stesso per tutto il giorno, troppo “Michael McDermott” a un certo punto! Avevo bisogno di un break da me stesso.

Nel tuo libro definisci a un certo punto New York come la Mecca. Qual è la tua relazione con la città ora?

Ah, ho appena scritto una poesia su New York! Abbiamo avuto una reazione complicata. La prima volta che sono andato, mi ha come cacciato via. La mia teoria su New York è che se tu stai bene, se hai un po’ di soldi e buon umore è il posto più bello del mondo, ma se sei in un momento difficile, può essere il posto più complicato del mondo, ti può letteralmente schiacciare. Ne ho visto i due lati. Quando torno ci sono molti fantasmi e molti rimpianti, ma sostanzialmente è come rincontrare una vecchia fiamma con cui hai condiviso una lunga e intensa relazione, ma con la quale ti sei lasciato male. E la rivedi dopo anni ed è bello rivederla, è ancora bella e ci vai a prendere il caffè, è tutto stupendo, ma ti senti sempre un po’ strano. Alla fine del caffè dici ci dobbiamo rivedere, e magari lo fate davvero, ma passa un anno. Penso che New York sia stata costruita lì dai nativi non solo per il fiume, ma per un campo energetico che c’è lì che fa succedere le cose più strane.

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Irene Sparacello

Irene Sparacello

Irene Sparacello, palermitana, vive tra gli Stati Uniti, Madrid e l'Italia. Traduttrice e giornalista free lance, collabora con Il Giorno e lo storico mensile rock italiano Buscadero.

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