14 marzo 2007. 228 East 48th Street, Manhattan. Primo pomeriggio. Kurt Vonnegut esce di casa con il suo cane per la loro solita passeggiata quotidiana. Scende i gradini di pietra verso la strada quando il guinzaglio gli si impiglia tra le gambe e lo fa cadere in avanti sul marciapiede. L’uomo entra in un profondo coma e muore tre settimane dopo, l’11 aprile, a 84 anni. “Così va la vita” è così che risponde Billy Pilgrim, il protagonista di Slaughterhouse-Five (Mattatoio n. 5), appena riceve la notizia di un qualsiasi lutto e lo dice serenamente perché secondo i tralfamadoriani (popolo di un pianeta immaginario che viene citato in numerosi romanzi di Vonnegut) “tutti i momenti – passato, presente e futuro – sono sempre esistiti ed esisteranno sempre”. Da questo punto di vista, un cadavere è solo una persona che sembra essere in cattive condizioni in un particolare momento, ma sta bene in altri momenti coesistenti.
Nella biografia And So It Goes: Kurt Vonnegut, A Life, Charles J., Shields ricorda che Vonnegut era convinto che un giorno sarebbe stato ucciso proprio da un cane (un’esperienza di premorte spaventosamente canina è raffigurata in Breakfast of Champions, Colazioni dei Campioni). Tuttavia, Jerome Klinkowitz ha affermato che, secondo gli amici, la vera causa della morte di Vonnegut è stata sua moglie, Jill Krementz, che non permetteva all’84enne di fumare in casa. Secondo questa teoria l’autore americano avrebbe perso il suo equilibrio sui gradini d’ingresso dopo essersi alzato troppo rapidamente dall’aspirazione di una Pall Mall. Vonnegut amava scherzare sul citare in giudizio le compagnie del tabacco per pubblicità ingannevole perché, anche se sui pacchetti c’erano chiare indicazioni che provocavano la morte, lui fumava da quando aveva quattordici anni e non gli era successo nulla. Ironia della sorte, forse, il rapporto di Vonnegut con le sigarette potrebbe essere stato più sano del suo matrimonio. Lui e Krementz (la sua seconda moglie) hanno chiesto il divorzio tre volte, ogni volta riconciliandosi per un motivo o per l’altro.
Indipendentemente dal fatto che i responsabili siano stati il cane, la moglie o le sigarette, il modo in cui è morto Vonnegut ha qualcosa sia di assurdo che ironico: l’autore americano era sopravvissuto al tremendo bombardamento di Dresda durante la Seconda Guerra Mondiale, al suicidio della madre, alla tragica morte di sua sorella, alla schizofrenia di suo figlio, alla depressione e a un tentativo di suicidio nel 1984 eppure il suo ultimo atto sulla terra è stato quello di inciampare sui gradini di casa. Assurdo e ironico, proprio come le sue storie. Perché sottolineare l’assurdità e l’ironia della vita è stato forse il più grande contributo di Vonnegut alla letteratura americana. I suoi romanzi usavano il grottesco e l’humor per prendere in giro scienza e tecnologia, guerra e progresso, senza dimenticare mai gli oppressi e le disuguaglianze della società (ad esempio, nel romanzo The Sirens of Titan, Le sirene di Titano il protagonista viene esiliato a causa della sua vasta ricchezza, che lo ha reso arrogante e ribelle).
Le opere di Vonnegut sono state, in vari momenti, etichettate come fantascienza e satira sociale. In molti dei suoi libri, infatti, ha costruito società e civiltà aliene per enfatizzare o esagerare le assurdità e le idiosincrasie nel nostro mondo sottolineando spesso gli effetti dell’automatizzazione delle macchine: nel suo primo romanzo, Player Piano (Piano Meccanico) racconta un mondo dispotico gestito da sole macchine, in Galápagos (Galapagos) un fioraio si infuria contro il coniuge per aver creato un robot in grado di svolgere il suo lavoro, e in Timequake (Cronosisma) un architetto si uccide quando viene sostituito da un software per computer.
La maggior parte dei personaggi di Vonnegut sono estraniati dalle loro famiglie reali e cercano di costruirne nuove sostitutive: gli ingegneri di Player Piano chiamano la moglie del loro manager “Mamma”, in Slapstick (Comica Finale) il governo degli Stati Uniti accetta che tutti gli americani fanno parte di grandi famiglie allargate.
Vonnegut è considerato tra i più influenti pacifisti degli anni Settanta. Dopo la pubblicazione di Slaughterhouse-Five (Mattatoio n5) del 1969, oltre alla fama l’autore fu salutato come un eroe del fiorente movimento contro la guerra negli Stati Uniti. Il romanzo racconta la vita di Billy Pilgrim, che come Vonnegut è nato nel 1922 e sopravvive ai bombardamenti di Dresda nascondendosi in un mattatoio (qui la foto del vero mattatoio.) La storia è raccontata in modo non lineare, gli eventi si susseguono tra passato e futuro e coinvolgono la morte di Billy nel 1976, il suo rapimento da parte di alieni dal pianeta Tralfamadore e l’esecuzione di un amico. L’opera è stata definita dal New York Time un esempio di “chiarezza morale senza pari” e “uno dei romanzi contro la guerra più duraturi di tutti i tempi”. Di questa storia venne anche realizzata una trasposizione cinematografica nel 1972.
Michael Crichton sul The New Republic ha dichiarato che ” Vonnegut scrive delle cose più atroci e dolorose. I suoi romanzi hanno attaccato le nostre paure della scienza e della bomba, le nostre colpe politiche più profonde, i nostri odi e amori più feroci. Nessun altro scrive libri su questi argomenti; sono inaccessibili ai romanzieri normali”.
Dopo la morte di Vonnegut sono stati pubblicati saggi, racconti inediti e molti discorsi che sono stati utilizzati come slogan motivazionali ne è un esempio l’aforisma: Dobbiamo costantemente buttarci giù dagli strapiombi e farci crescere le ali mentre precipitiamo” presente in If This Isn’t Nice, What Is?: Advice to the Young (Quando siete felici fateci caso). Anche utilizzare frasi come inno alla vita dopo che l’autore è morto è assurdo e ironico anche se il tema del senso della vita compare molte volte anche nei suoi romanzi. In The Sirens of Titan (le Sirene di Titano) , Kurt Vonnegut scrive che “uno scopo della vita umana, indipendentemente da chi la controlla, è amare chiunque sia intorno per essere amato”. In Jailbird (Un pezzo da galera) scrisse “Siamo qui senza scopo, a meno che non possiamo inventarne uno”. Ma probabilmente il migliore non è suo, ma è stato scritto nell’epigrafe a Bluebeard, the Autobiography of Rabo Karabekian (Barbablù) dove Vonnegut cita suo figlio Marco, e dà una risposta a quello che crede sia il vero senso della vita: «Siamo qui per aiutarci a vicenda a superare questa cosa, qualunque essa sia».