New York primavera 2001. Jesmyn Ward è seduta per terra nel bagno in un appartamento nel West Village. Ha il cellulare in mano, ma non riesce a compilare il numero della sorella. Alza gli occhi e nota solo ora che le coinquiline hanno appeso delle polaroid dei loro amici su tutte le pareti, lei si è chiusa lì per star da sola e ora si ritrova un mare di pallidi hipster che le posano davanti con sguardi annoiati e quell’espressione belloccia tipica dei ricchi.
Quelli non sono come lei e non solo per il nero della sua pelle. Quei volti appartengono a un ambiente protetto e confortevole, dove si parla a bassa voce e le camicie vengono ordinate negli armadi per gradazione di colore. Lei è un’intrusa, si trova in quella casa soltanto perché – quando era piccola – uno dei datori di lavoro della madre (che faceva la donna di servizio) le ha pagato una scuola privata. Grazie a quell’aiuto e ad altre borse di studio ha conseguito un BA presso la Stanford University in California nel 1999 e un master nel 2000.
Anche se ha fatto le stesse scuole delle sue coinquiline, non ha mai sentito di appartenere a quel mondo, la sua vera casa è il Mississippi con la sua famiglia e i suoi quattro fratelli. Ma, nonostante la laurea in inglese a Stanford e un master in comunicazione, in sei mesi non era riuscita a trovare lavoro e aveva iniziato ad accumulare debiti. Era venuta a New York per fare dei colloqui, ma dopo i primi due giorni è dovuta tornare subito a DeLisle a causa di una telefonata in lacrime della madre che gli aveva comunicato che suo fratello minore Joshua, 19 anni, era morto in un incidente stradale. Il ragazzo era stato tamponato a forte velocità da un guidatore ubriaco, un uomo bianco sulla quarantina, che aveva accelerato da dietro spingendo l’auto contro un idrante che era salito dal pavimento, aveva staccato il metallo come il coperchio di una scatola di sardine e gli si era schiantato sul petto.

Dopo il funerale era stata contattata dalla Little Random, una divisione della casa editrice Random House, che gli aveva proposto un lavoro a New York. Così si era ri-trasferita e aveva trovato alloggio insieme ad alcune ex compagne di scuola.
Jesmyn Ward sospira. Si alza dal pavimento del bagno e chiama la sorella che le racconta che l’autista ubriaco che ha investito il fratello è stato condannato solo a cinque anni. Cinque fottuti anni, ha pensato la Ward. Questo è quanto vale la vita di mio fratello in Mississippi. Cinque anni.
Questo episodio viene raccontato dalla stessa autrice nell’articolo sul quotidiano Guernica dove sottolinea che la polizia aveva scoperto che l’autista era stato in diversi bar e aveva anche bevuto nei casinò, ma l’uomo era sulla quarantina ed era bianco. Suo fratello aveva diciannove anni ed era nero. L’uomo fu condannato, inoltre, a restituire a sua madre $ 14.252,27, ma ha scontato tre anni e due mesi di pena prima di essere rilasciato e non ha mai pagato nulla.
Soltanto pochi mesi dopo la sentenza sul fratello, l’autrice è uscita dalla metropolitana a Midtown Manhattan e ha visto il fumo inondare New York e le torri gemelle crollare al suolo. Era l’11 settembre 2001. È stato un anno terribile, ma che è diventato fondamentale per il suo processo di scrittrice. “Ero così infelice, il dolore per la perdita di mio fratello erano così freschi e dopo l’11 Settembre la situazione peggiorò”, dice la Ward al Los Angeles Times, “Per fortuna New York mi ha chiarito le idee. Ho pensato, cosa potrei fare della mia vita per darle un significato? E scrivere è stato questo per me”.
“Non avevo più scelta”, ricorda sul NPR. “Non potevo scappare da quella voglia di raccontare storie su di noi e sulle persone che amavo. Non potevo più scappare. Non ero così sicura di poterlo fare, ma ho pensato che dovevo provarci. E se ci fossi riuscita, allora avrei fatto qualcosa di utile con il tempo che mi è stato concesso”.
Nel 2003 si inscrive in un programma di scrittura creativa presso l’Università del Michigan, dove ha conseguito un MFA. Due anni dopo, nel 2005, mentre stava scrivendo il suo primo romanzo, lei e la sua famiglia sono state vittime dell’uragano Katrina. La loro casa a DeLisle si è allagata rapidamente e sono stati costretti a nuotare verso un camion per cercare di trovare un posto più sicuro. Cercarono di raggiungere una chiesa locale, ma finirono bloccati in un campo pieno di trattori. Si salvarono per miracolo.
Questo episodio l’ha convinta ancora di più a scrivere del Mississippi e delle sue terre, ma continuava a ricevere solo lettere di rifiuto. Al Los Angeles Times ha raccontato che il suo primo romanzo non interessava a nessuno. “Ho pensato che forse avrei dovuto semplicemente lasciare tutto e fare qualcosa che mi potesse dare uno stipendio fisso e più remunerativo come l’infermiera. Mi sono detta di fare ancora un altro tentativo così ho fatto domanda per alcune borse di studio. Per fortuna solo pochi mesi dopo ho saputo che il mio romanzo era stato accettato da una piccolissima casa editrice di Chicago chiamata Agate e anche che avevo vinto la borsa di studio Stegner. È stato fantastico, come vincere alla lotteria”.
Il primo libro di Jesmyn Ward si intitola Where the Line Bleeds (La linea del sangue trad. di Monica Pareschi, NN Editore) ed è ambientato nella cittadina fittizia di Bois Sauvage, la città in cui ambienterà tutti i suoi futuri romanzi. Il romanzo racconta la storia dei gemelli Joshua (il nome in omaggio al fratello scomparso) e Christophe. Joshua trova lavoro nel Golfo del Messico, ma Christophe ha meno fortuna: incapace di trovare un impiego e nel disperato tentativo di alleviare la povertà della sua famiglia, inizia a vendere droga. Quando il loro padre tossicodipendente (scomparso da tempo) riappare, provoca uno confronto aspro tra lui e i fratelli. Jesmyn Ward racconta il mondo che conosce e ama, quello nero, povero, disperato, ma contrassegnato anche da intensi legami familiari e da un senso di comunità che bilancia speranza, dolore e trionfo.
Già in questo primo romanzo appare evidente lo stile letterario di Jesmyn Ward, molto vicino alla poesia e alla metafora. Una somiglianza stilistica che la avvicina a William Faulkner, Ernest J. Gaines e Toni Morrison.
Dall’autunno 2008 alla primavera 2010 Jesmyn Ward ha vissuto a San Francisco grazie alla borsa di studio Stegner, dopodiché ha ottenuto la cattedra alla Grisham Writing Residency all’università di Ole Miss in Mississippi dove ha vissuto accanto alla casa di Faulkner. Nel 2011 ha pubblicato Salvage the Bones (Salvare le ossa, NN Editore, traduzione di Monica Pareschi) che vince il National Book Award per la Fiction. Il romanzo ha ricevuto un’accoglienza ampiamente positiva. Il New York Times l’ha descritto come una rappresentazione riuscita della vita e della cultura del sud attraverso una prosa potente e diretta che si immerge nella metafora poetica. Il Washington Post ha commentato che ci vorrà molto tempo prima che la sua magia svanisca e che il romanzo ha già l’aria di un classico.
Salvage the Bones è la storia delle precarie condizioni di una famiglia afroamericana della classe operaia nel Mississippi prima e dopo l’uragano Katrina attraverso lo sguardo di Esch Batiste, una ragazza di quindici anni incinta di un amico dei fratelli. La Ward ha raccontato al The Paris Review che ha scritto il romanzo, dopo essere stata “infastidita del modo in cui Katrina si era allontanata dalla coscienza pubblica”.
“Vincere il National Book Award for Fiction è stata una benedizione, ma anche una maledizione perché dopo ho avuto problemi a scrivere”, ammette la Ward al Los Angeles Times. “Sentivo il peso di essere accanto a nomi come William Faulkner e Alice Walker, che sono tra le mie influenze. Con Faulkner ho affinato il mio stile e – come lui – uso un’unica città del sud come centro del mondo letterario. Con Walker, c’era invece un libro specifico che ci univa, “Il colore viola”, che ho letto alle medie. Era la prima volta che leggevo qualcosa di una donna nera del sud che mi ha fatto sentire come se fosse possibile essere una donna nera del sud che scrive sui neri del sud”.
La notte dei National Book Awards, Nikky Finney, che aveva appena vinto il premio per la poesia, la prese da parte e le diede un consiglio. “Quando ti siedi a scrivere, dimentica tutto questo. Ritorna alla scrivania, a quando hai scritto il romanzo. Ecco perché sei qui, perché sei stata in grado di stare su quella scrivania”. Con il consiglio di Finney in mente, Jesmyn Ward mette da parte le ansie, attiva il programma di blocco di Internet e si concede almeno due ore al giorno per scrivere.
Nel 2017 pubblica Sing, Unburied, Sing (Canta, spirito, canta. NN Editore, traduzione di Monica Pareschi) il suo terzo romanzo che vince il National Book Award 2017 per la narrativa facendo diventare Jesmyn Ward la prima donna e la prima afroamericana a ricevere questo premio per due volte. Il romanzo ha ricevuto recensioni estremamente positive ed è stato acclamato come uno dei migliori romanzi dell’anno dal New York Times, dal New Statesman, Financial Times e BBC. Il romanzo ha vinto anche l’Ainsfield-Wolf Book Award for Fiction nel 2018 e il Mark Twain American Voice In Literature Award nel 2019. Il Washington Post lo ha paragonato a Lincoln in the Bardo di George Saunders e Beloved di Toni Morrison. L’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha incluso il romanzo nella lista dei migliori libri letti nel 2017.
Sing, Unburyed, Sing è la storia di Joseph, detto Jojo, e della sua famiglia. Il padre di Jojo, Michael, sta per essere scarcerato, così sua madre, Leonie, tossicodipendente, carica la famiglia in auto per dirigersi a nord verso il penitenziario di stato. La famiglia attraversa il paese rimanendo unita, accalcata e irritata. Non appena lasciano la relativa sicurezza della loro fattoria nel bosco, le insidie e le tentazioni del mondo esterno si affollano, minacciando di far deragliare il loro. Sing, Unburied, Sing diventa un road book, una storia di fantasmi e d’amore tra fratelli.
Nel 2018 Jesmyn Ward ha tenuto un discorso per l’inaugurazione dell’anno accademico alla Tulane University sul valore della tenacia e sull’importanza del rispetto per sé stessi e gli altri. Il discorso ripercorre le sfide affrontate dall’autrice e la casa editrice NN Editore ne ha fatto un libro intitolato Naviga le tue stelle con le illustrazioni di Gina Triplett e la traduzione di Alessio Forgione.
Ad inizio gennaio 2020, Jesmyn Ward, suo marito e i figli si sono ammalati di quella che pensavano fosse l’influenza. Lei e i figli sono stati subito meglio, ma il marito no. Bruciava di febbre. Non riusciva a respirare. Lei l’ha portato al pronto soccorso, dove dopo un’ora in sala d’attesa, è stato sedato e messo attaccato ad un ventilatore. I suoi organi hanno ceduto: prima i reni, poi il fegato. È morto entro quindici ore dal suo ingresso nel pronto soccorso. Aveva solo trentatré anni.
“Senza la sua presa a coprirmi le spalle, a sostenermi, sprofondai in un dolore caldo e muto”. Ricorda l’autrice in un articolo su Vanity Fair. “Il tempo sembrava essersi fermato in Mississippi tra il lockdown e i miei figli che seguivano le lezioni a distanza e ogni tanto strofinavano la faccia contro il mio stomaco e gridarono istericamente: mi manca papà”. Intanto in America scoppiava la contestazione dei Black Lives Matter e nello stesso articolo racconta “Mi sono svegliata con la gente per strada, con Minneapolis in fiamme. Mi sono svegliata con le proteste nel cuore dell’America, i neri che bloccavano le autostrade. Mi sono svegliata con adolescenti in felpa con cappuccio, con masse di persone a Parigi, a Londra, da marciapiede a marciapiede, che si muovevano come un fiume lungo i viali. La gente marciava, e non avevo mai saputo che potessero esistere fiumi come questi, e mentre i manifestanti cantavano e calpestavano, mentre facevano smorfie, gridavano e gemevano, le lacrime mi bruciavano gli occhi. I neri americani non erano soli in questa guerra. Sono tutti testimoni dell’ingiustizia. Sono testimoni di questa America che ci ha messo da parte per quattrocento fottuti anni. Singhiozzo, e nelle strade scorrono fiumi di gente”.

Quando la pandemia si è stabilizzata Jesmyn Ward ha impostato le sveglie prima di quella dei bambini e ha ripreso a scrivere il suo nuovo romanzo. “Il mio impegno mi ha sorpreso. Anche in una pandemia, anche nel dolore, ho dovuto scrivere, ho dovuto amplificare le voci dei morti che cantano per me, dalla loro barca alla mia barca, sul mare del tempo. Quasi tutti i giorni, ho scritto una frase. In alcuni giorni, ho scritto mille parole. Il mio dolore è sbocciato in depressione, proprio come dopo la morte di mio fratello a diciannove anni. Io, come allora, ho pensato a cosa potrei fare della mia vita per darle un significato e scrivere è diventato questo per me”.