Il mio primo contatto con Anthony Tamburri e il suo prestigioso John D. Calandra Italian American Institute (Queens College, CUNY), del quale è meritatamente preside, avvenne nel lontano giugno 2012 in occasione della presentazione del mio terzo volume della Stratigrafia del comune di Prizzi come metafora della storia dell’Isola. Una mattina fra alunni dell’Istituto con i muri adorni di una interessante mostra su ex-voto e la sensazione di sentirmi a casa. Anthony mi mostra la ricca collezione di pubblicazioni e i progetti per il futuro. Fu per me la scoperta di un altro punto fermo di riferimento della cultura italiana oltre alla St. Johns’ University e alla The Italian Academy for Advanced Studies in America, Columbia University.
Mi riporta ora con nostalgia a quegli anni l’attuale impresa del prof. Tamburri su un tema a lui caro, ma con una particolare angolazione e prospettiva di lettura, il Convegno online tra luglio ed agosto su Diversity in Italian Studies. Segue il precedente convegno Diversity in Italian Studies —Race/Ethnicity, Gender, Sexuality, Diversity Studies, Class— 17-18 January 2019 (programm final and Annual Report 2018-2019, online), “un tema discusso sotto numerose lenti sociali e politiche”. Da queste due sintesi dei lavori si può chiaramente accertare e documentare l’ampiezza dell’approccio su un tema che è caro all’Istituto e al prof. Anthony Julian Tamburi.
L’analisi intende enucleare attraverso un ventaglio di studi e di personali convinzioni di studiosi il rapporto, condivisioni ed idiosincrasie tra le molteplici e diversissime culture degli States. È evidente che non esiste una cultura americana unitaria, tanto più una letteratura, ma che esse sono sintesi, spesso scontro e antitesi, tra culture eterogenee in cui l’elemento di dissidio e di scontro, di esclusione o di puro scarto brutale probabilmente è più diffuso, in una società in cui la “diversity” viene spesso assunta come discriminante razziale dalla classe dominante.
Senza tema di smentite e me ne scuso con i cosiddetti wasp, per i quali la letteratura americana si è identificata con quella inglese, senza remore e soluzioni di continuità. Nulla toglie che in questa ottica potremmo parlare a ragione di cultura anglo-americana, se la base comune fu la condizione traumatica di stranieri, migranti e ospiti degli Indigenous, metafora e simbolo insigne i Pilgrim Father e i tanti mormoni. Chi non fu in questa terra ospite migrante?
Ha scritto Antony Tamburri in un prezioso saggio, Una semiotica dell’etnicità, Nuove segnalature per la scrittura italiano/americana (Franco Cesati editore, 2010, Firenze, evento fortuito essere anche mio editore del saggio Se nulla cambiò, 2015), a proposito della sua perenne chiave di lettura della nostra diversità, il segno diacritico, “il vecchio binomio storpiato”, «italo-americano e uno più rappresentativo di ambedue i termini, ‘italiano/americano»: «l’accorciatura, se non storpiatura del primo termine rifletta una specie di sottovalutazione, volente o nolente, da parte della cultura ospitante (si legga pure “dominante”) di questo stesso primo termine, il quale segnala il retaggio socio-culturale dell’individuo» (pp. 18-19, pure Scrittori Italiano(-)mericani. Trattino sì trattino no, MnM Print, 2018, Un biculturalismo negato. La letteratura italiana negli Stati Uniti, Cesati Firenze, 2018).
La corretta semantica, al di là di ogni elitismo socio-cultursale, segno di incultura, e la reale lettura della italianità è stata ed è tuttora per Tamburri la battaglia della sua indagine esistenziale, la volontà di far luce su questi “scorretti” «Hyphenate Writers» (cf. Scrittori italiano/americani: Atti di semiosi e strategie narrative: due esempi, Anthony Julian Tamburri, La diacriticità e lo scrittore italiano/americano: Il trattino come confine linguistico e l’«intelligibilità reciproca»).
La questione, apparentemente oggetto di studio di specialisti, linguisti o glottologi o semiotici, investe la giusta collocazione degli scrittori italiani/americani in un contesto che purtroppo discende da forti esclusioni razziali, non solo fisiche ed economiche, etnologiche, ma anche di cultura. Questa dovrebbe essere sicuramente una piattaforma da escludere, l’uomo è tale in quanto risultato di primitive sedimentazioni. Eppure in questa società un gruppo di discriminati ed esclusi, da se stessi ghettizzati della Harvard, ha discriminato e cancellato Omero e la letteratura classica dei bianchi. Ormai nella cosiddetta società globale (forse della sola economia e finanza?) si procede per esclusioni e cancellature.
La discriminante della diversità negli USA è pertanto fondamentale, se si vuol cercare un termine di “inclusione” e di “parità”, di “condivisione”, direi di uguaglianza, in una parola di “Umanesimo globale” che escluda ogni forma di “diversity”, handicap ancor più grave se mette al bando o irride la cultura. Ha ammonito Papa Francesco a Bologna “la dotta”, nel 2017, «Contro una pseudocultura che riduce l’uomo a scarto, la ricerca a interesse e la scienza a tecnica, affermiamo insieme una cultura a misura d’uomo».
Può Don DeLillo, di discendenza molisana, premiato con il Faulkner e il National Book Award, essere semplicemente scrittore senza nazionalità razziali, o se volete proprio ascrivergli una nazionalità, dirlo “americano”?. Il primo dei suoi diciannove romanzi nel 1971 fu Americana, ma è anche autore di racconti, saggi, drammi e sceneggiature. Può esserlo, per fare un altro esempio, il “grottesco” e “misterioso”, il cult Thomas Ligotti, a cominciare dal celebre Songs of a Dead Dreamer del 1989, considerato l’unico grande successore di Edgar Allan Poe e H.P. Lovercraft? Può esistere in una New York del melting uno “scrittore”, semplicemente interprete di quella società, anche se da un punto di vista soggettivo, come fra tutti i popoli della terra? E quale funzione può avere la traduzione di altre letterature, se già in casa non si vuol intendere le diverse visioni della realtà?
L’insistenza sul tema da parte di Anthony Julian Tamburri può produrre i suoi frutti, se alla fine gli Americani degli States comprendano che sono un mix di culture, di idiomi e di arti, assumano come solida convinzione che esiste l’americano e non un popolo di ospiti, non si sa di chi, avendo spodestata l’ospitante.