Ecco: questa merita di essere segnata, è una “chicca”, e al tempo stesso una piccola rivelazione. Cosa combina, da ragazzo, Leonardo Sciascia, in quel paese isolato e come cristallizzato nel tempo che doveva essere Racalmuto, una novantina d’anni fa? Lo racconta il nipote Fabrizio Catalano: “Da ragazzo mio nonno scrisse a diverse attrici americane, chiedendo loro una foto con dedica: molte, in un mondo ancora più ‘normale’, o comunque meno schermato dagli uffici stampa e dalle major, gli risposero. Nella libreria dello studio di mio nonno, alla Noce, ci sono ancora i ritratti di Mirna Loy e Rosalind Russell. E altre stanno in un album che, qualche anno dopo la morte di mio nonno, mia nonna mi ha regalato: ricordo uno scatto sublimemente sensuale di Dolores del Rio…”.
Ancora: “…Aveva un penchant per l’erotismo ancora poco indagato, e anche per me vagamente alonato di mistero. Questo concerneva il cinema – e infatti aveva a casa il brillantissimo saggio di Ado Kyrou, ‘Amour, érotisme et cinéma’, e ben nascoste dentro un armadietto chiuso a chiave, gli scabrosi saggi di Joseph-Marie Lo Duca sui rapporti fra sensualità, sessualità e immaginario collettivo…”.
Di Lo Duca, origine italiana come tradisce il cognome, s’avrà modo di parlare in altra occasione: merita, una vita da romanzo, la sua; e insieme il romanzo di una vita. Qui ci si limita ad annotare che ebbe rapporti di amicizia con personaggi come André Breton, Jean Cocteau, Georges Bataille, Paul Valéry, lo stesso Sciascia; studioso di cinema e arte erotica, una sua storia del cinema è tradotta in una dozzina di lingue, e con André Bazin fonda i “Cahiers du Cinéma”.
Dunque, Sciascia e il cinema. Sono in quattro, a Enna, l’unica provincia siciliana che non si affaccia sul mare, tutti appassionati di cinema: Guido Aristarco, Antonio Maddeo, Leonardo Sciascia, Liborio Termine; è il 1969, fondano il “Centro Studi Cinematografici”; l’attività principale del Centro è il cosiddetto “Cinema di piazza”. Si rifanno all’antica tradizione dei cantastorie. Ne scrive il professor Giuseppe Traina nel suo pregevole Leonardo Sciascia (Bruno Mondadori): proiezioni di cortometraggi senza dialoghi e solo con commento sonoro, nelle piazze dei piccoli centri della provincia, “al fine di suscitare dibattiti tra il popolo”.
Un rapporto di amore, ma anche diffidenza, coinvolgimento e distacco insieme. Lui stesso racconta che da giovane frequenta moltissimo le sale cinematografiche: cinema come “il luogo dell’emozione: come tale, confinato nell’infanzia e nell’adolescenza, territori delle emozioni per eccellenza”.
Indelebili impressioni, volti che s’imprimono nella memoria: Jack Holt appare nello schermo del teatro comunale di Racalmuto adibito a sala cinematografica, in un lontano 1929; o la “maschera” di Ivan Mosjouskine, interprete del “Il fu Mattia Pascal” di Marcel L’Herbier.
A dodici anni “scopre” il sonoro: in occasione del suo primo viaggio a Palermo nel 1933: “Entrando nella sala ne ebbi un senso di frastornazione, di stordimento, addirittura non capivo. A capirlo, restai a vedere il film per la seconda volta. Era “Il segno della croce”, mi piacque moltissimo: ma più mi piaceva tornare a vedere, al mio paese, i vecchi film muti”.
“Il segno della croce” di Cecil B. De Mille è un drammone storico tratto da un romanzo di Wilson Barrett, ambientato nella Roma del 64 d. C.: Fredric March è il prefetto di Roma Marco Superbo, Elissa Landi Marzia, giovane martire cristiana, Claudette Colbert Poppea, Charles Laughton Nerone. Forse è la versione originale, non censurata, con la “scandalosa” Claudette che s’immerge nuda in una vasca colma di vero latte d’asina.
Il cinema ha una grande importanza nella sua formazione intellettuale; studente a Caltanissetta, vede un film uno al giorno, a volte anche due. Ogni anno riempe un libretto di annotazioni su quelli visti: “Avevo, prima che lo facessero i giornali, inventato una specie di votazione con asterischi: cinque il massimo voto. La cosa curiosa, scoperta anni dopo, è che Gesualdo Bufalino, che non conoscevo, faceva allora la stessa cosa”.
Ama i “noir” francesi degli anni ‘30, il “realismo poetico” di Jean Rénoir e Marcel Carné; film come “La grande illusione” (è tra il suoi preferiti), “L’angelo del male”, “Alba tragica”, “Il porto delle nebbie”: storie dove emerge la fatalità del destino umano in un contesto di ingiustizie e di emarginazione rappresentato spesso da eroi solitari e maledetti, come quelli interpretati da Jean Gabin.
L’amico di sempre, il poeta Stefano Vilardo, ricorda che da ragazzi, Sciascia e lui maturano l’idea di fare cinema, e non solo come spettatori. Aspirazione, che tale resta. Pochissime le esperienze dirette di Sciascia con il cinema: Florestano Vancini e Fabio Carpi gli chiedono di collaborare alla sceneggiatura di una ricostruzione cinematografica della rivolta popolare di Bronte nel 1860, repressa spietatamente da Nino Bixio, e raccontata da Giovanni Verga nella novella “Libertà”. Un film tormentato, che vede la luce solo nel 1972: “Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato” . Scrive il commento per due documentari: nel 1963 “Gela antica e nuova”, commissionato dall’ENI al regista Giuseppe Ferrara; e due anni dopo “Con il cuore fermo – Sicilia”, del regista Gianfranco Mingozzi. Per il resto, rifiuta di intervenire nella sceneggiatura dei tanti film ricavati dalle sue opere: teorizza l’indipendenza delle sue opere dai film ricavati: anche se il cinema ha sempre grande attenzione per la sua opera, lui teorizza che film e letteratura sono mondi separati, di difficile comunicazione.
I primi registi a cimentarsi con il “mondo” sciasciano sono Elio Petri (“A ciascuno il suo”, 1967), e Damiano Damiani (“Il giorno della civetta”, 1968): entrambi con sfondo la mafia siciliana. Nel 1976 è la volta di Francesco Rosi, con “Cadaveri eccellenti”, ispirato da “Il contesto”; il filone mafioso “scivola” sul giallo fantapolitico. E’ lo stesso anno di “Todo modo”, ancora di Petri. Una filmografia che va da “Grand Hotel des Palmes” di Memè Perlini (liberamente tratto da “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel”), a “Candido” di Roberto Guicciardini; da “Porte aperte” di Gianni Amelio, a “Il consiglio d’Egitto” e “Una storia semplice”, di Emidio Greco.
Il cinema non si interessa a Sciascia solo per i temi trattati. E’ anche questione di “forma”: per Rosi raccontando “fatti” Sciascia si preoccupa di analizzarli: “Cerca di mettere in relazione cause ed effetti: questo appartiene molto al linguaggio cinematografico”. Lo stesso Sciascia dichiara: “I miei libri sono già sceneggiature. Nei miei anni giovanili sono stato uno spettatore appassionato: la tecnica del cinema ha influito molto su quella del racconto scritto”. Italo Calvino, editor per Einaudi, dopo aver letto il manoscritto del Giorno della civetta, gli scrive: “Sai fare qualcosa che nessuno sa fare in Italia: il racconto documentario su di un problema, con vivezza visiva, finezza letteraria, abilità, scrittura sorvegliatissima, gusto saggistico quel tanto che ci vuole e non più”.
Il nipote Fabrizio Catalano, autore e regista teatrale, racconta che il nonno è tentato dalla proposta di Sergio Leone: scrivere insieme il copione di “C’era una volta in America”. Qualcosa però non ingrana. Sciascia e Leone si incontrano a Palermo. Leone ha modi bruschi che non garbano a Sciascia; lo scrittore Vincenzo Consolo, presente all’incontro, racconta che Sciascia si fa scuro in volto, praticamente non apre bocca, appena può si congeda. Chissà cosa ne sarebbe potuto venir fuori se i due si fossero intesi. E chissà a che risultati si sarebbe approdati, se Sciascia avesse sceneggiato, come gli propone il regista Enzo Muzii, “I sotterranei del Vaticano”, di André Gide.
Ci sono una quantità di aneddoti gustosi, storie, informazioni in Sciascia e il cinema, la bella conversazione tra il nipote Fabrizio Catalano e Vincenzo Aronica (coedizione di “Bianco e Nero” e Rubbettino). Fabrizio è regista, drammaturgo, scrittore. Aronica, “complice” e amico da dieci e più anni organizza eventi culturali sempre nell’ambito della cinematografia. Non mancano gli episodi surreali. Per esempio quello che racconta il regista Roberto Andò. A Cinecittà, un giorno, Sciascia va a trovare Federico Fellini. Sciascia deve andare in bagno. In quel locale c’è anche il regista Ingmar Bergman. Racconta Andò: “Bergman parla in inglese, lingua che Sciascia non conosce, per cui si limita a sorridere. Mi sono sempre immaginato questa scena: Bergman e Sciascia che non possono comunicare, ma che si ritrovano a contatto d’occhi mentre stanno facendo pipì! Una scena sublime, inimmaginabile…”.
Tra i tanti pregi del libro, un piacere della “vista” che s’accompagna a quello della lettura. Sciascia e il cinema è doviziosamente e sapientemente illustrato con immagini provenienti dall’Archivio fotografico del Centro Sperimentale di Cinematografia: fotogrammi riprodotti da pellicole conservate presso la Cineteca Nazionale e foto di scena di Angelo Frontoni e Firmino Palmieri; altre sono di Enrico Appetito, Nino Catalano, Romano Gentile, Giuseppe Leone, Ferdinando Scianna.
Il volume è un prezioso peregrinare tra ricordi e riflessioni, analisi critica e ritratti dal “vivo”. Un assaggio di quello che aspetta il lettore di questa lunga e bella conversazione, è in due frasi. La prima di Antoine de Saint-Exupéry, Sciascia la sceglie per “presentare” per una mostra di scrittori: “Non bisogna imparare a scrivere ma a vedere. Scrivere è una conseguenza”. La seconda citazione è di Sciascia: “Le immagini bisogna saperle leggere, uno dei guai del nostro tempo, e forse il più grande, è di essersi votato alle immagini, dimenticando la lettura”.
Questo è il centenario della nascita di Sciascia. Spontaneo domandarsi come mai nessun canale televisivo, pubblico o privato che sia, dedichi una rassegna completa e “ragionata” dei tanti film ricavati dai libri e dai racconti di Sciascia. Questione di diritti di autore? Forse. Può essere. Però…
A un certo punto Fabrizio racconta: “Nei sei anni in cui sono stato in tournée con uno spettacolo tratto da ‘Il giorno della civetta’, è capitato che mi telefonassero delle produzioni, in un paio di casi anche piuttosto rinomate, annunciando l’intenzione di realizzare una fiction in più puntate da questo più famoso romanzo di mio nonno. Tutte queste iniziative, però, si sono sempre arenate rapidamente, e senza che peraltro venisse mai fornita una spiegazione. Qualche tempo fa, mi ritrovai a conversare amabilmente con un membro di un vecchio CdA della RAI: stavo – e sto – lavorando a un film da girare in Bolivia, ma finimmo per parlare anche dei romanzi di mio nonno. Il mio interlocutore mi disse che in quel momento, in RAI, sarebbe stato molto più semplice far passare un film boliviano che uno tratto da Sciascia. Superfluo precisare che non è passato neanche quello boliviano”.
Ecco.