Il maggior numero di italo-americani non si trova a New York ma a New Haven, nel Connecticut, dove da un secolo si cuoce nei forni a carbone uno speciale tipo di pizza conosciuto in tutto il Paese. Le aragoste sono sempre state così abbondanti nelle acque del New England che fino a metà Ottocento erano considerate cibo spazzatura, adatte solo a schiavi e detenuti. Il barbecue è arrivato in America grazie agli schiavi provenienti dall’Africa, dove ancora oggi il termine babbake indica la pratica di cucinare qualsiasi cibo sul fuoco.
Questi sono solo alcuni dei racconti contenuti nel libro di Francesco Panella, Forse non tutti sanno che in America (Newton Compton, 288 pagine, 10 euro), dove il cibo diventa un’occasione per viaggiare negli Stati Uniti da est a ovest, da nord a sud, smontando i luoghi comuni e incontrando persone e storie curiose e suggestive. Il lettore segue Panella nel Queens alla ricerca dei migliori dumpling di New York, fa sosta in mezzo al deserto californiano in un diner dove si è fermi agli anni Cinquanta, riscopre le antiche ricette dei navajo e può riposare a Washington nella taverna dove Kennedy leggeva il giornale e Nixon mangiava il polpettone
Ma durante il viaggio ci si confronta anche con le contraddizioni degli Stati Uniti, dove l’obesità affligge il 42% degli adulti e quasi 14 milioni tra bambini e adolescenti e la pandemia esacerba le disuguaglianze sociali, mettendo a dura prova l’industria alimentare. Panella racconta l’America senza fare sconti ma al tempo stesso, con piglio motivazionale, mette insieme storie di tenacia famigliare, passione e riscatto, ricorrendo anche ad aneddoti personali. Lo abbiamo contattato per parlare di Forse non tutti sanno che in America e del particolare rapporto tra gli Stati Uniti e il cibo, tra storia e scenari post-pandemia.

A partire dal titolo, il tuo libro è un invito ad andare oltre i luoghi comuni attraverso i quali i non americani osservano di solito gli Stati Uniti. Per quanto riguarda il cibo, l’America è spesso associata ai fast food e al cibo spazzatura, ma tu racconti un Paese diverso.
“Voglio accentuare la differenza tra il percepito e la realtà. È vero che esistono delle realtà assurde dove il junk food l’ha sempre fatta da padrone, però è altrettanto vero che ci sono delle eccellenze e delle realtà diverse che mi faceva piacere raccontare, perché per qualche motivo – compresa anche una mancanza di comunicazione da parte degli americani stessi – certe storie di cui parlo non sono mai venute allo scoperto”.
Parlando di alimentazione negli Stati Uniti non si può non considerare il problema dell’obesità, che tu stesso nel libro definisci «sconvolgente». L’obesità, tuttavia, è la spia di un problema più ampio della società americana, dato che si ammalano soprattutto le minoranze etniche, i ceti meno istruiti e quelli con gli stipendi più bassi.
“Adesso c’è un cambio di rotta pazzesco, si sta cercando di far capire alla popolazione l’importanza di mangiare sano e avere un comportamento intelligente a tavola. Sai, in America non c’è mai tempo di sedersi a tavola, non hanno quel benchmark di riferimento che abbiamo noi, dove la tavola vuol dire riunirsi in famiglia, scambiarsi le idee, fermarsi un attimo e prendersi del tempo per sé stessi. Si ha sempre poco tempo, si va ognuno per conto proprio. I ragazzi americani già a diciassette, diciotto anni escono da scuola, vanno al college o in altre città a lavorare, il che è un bene ma anche un male perché trasmettere il valore della tavola come bene assoluto per te stesso, quindi per essere anche più performante, secondo me dovrebbe essere accentuato. Ora in America lo stanno facendo. Slow Food sta facendo un grandissimo lavoro, ma anche i ristoranti, sull’onda del movimento farm to the table che ormai sta dilagando”.
Non a caso tu racconti di realtà particolarmente attente da questo punto di vista, nel Maine o nel Maryland, dove però il farm to the table è più fattibile rispetto, per esempio, a New York.
“Sì, ho cercato di raccontare tutta l’America, infatti il libro è diviso in quattro regioni (Northest, West, Midwest e South, ndr). Per una questione di percezione, se tu pensi all’America pensi solo a New York, Los Angeles, Miami, ma non è così. L’America è tutta un’altra cosa, la sua pancia è un’altra roba”.

Nel libro ti soffermi spesso sugli aspetti sociali legati al cibo. Ci sono in particolare alcuni racconti molto efficaci, come quello del fry bread dei nativi americani, del barbecue, che è tradizionalmente associato allo stereotipo dell’americano bianco che cuoce la carne nel proprio backyard e che invece è stato importato dall’Africa dagli schiavi, oppure del ristoratore messicano a El Paso che dice: «È difficile per me pensare che la gente accetterà le mie tortillas prima di accettare i miei cugini». Per te, oltre a testimoniare e rivendicare le tradizioni, il cibo in America svolge anche un ruolo politico a favore delle minoranze etniche?
“Secondo me il cibo, più che avere un valore politico, deve rimanere un’importante testimonianza sociale, perché la storia va avanti, gli anni e i secoli passano e ci si può dimenticare dei valori con cui noi siamo stati formati. E quando dico noi mi riferisco a tutti, americani e non. Per questo motivo, lasciare delle testimonianze di chi siamo stati attraverso il cibo e la nostra cultura è socialmente molto utile”.
Tra i luoghi comuni che hai smentito con il tuo libro c’è quello dell’America dove tutto è freddo business. Tu invece racconti soprattutto di aziende familiari, posti gestiti dalla stessa famiglia per tre, quattro o addirittura cinque generazioni. Si tratta di storie che sei andato a cercare appositamente perché più vicine alla tua (il ristorante romano l’Antica Pesa è gestito dalla famiglia Panella da quattro generazioni, ndr) o quello della famiglia è un valore insito nell’industria alimentare americana?

“Quest’anno con l’Antica Pesa compiamo cento anni di attività. Per me fare la ristorazione non è un modo per fare denaro ma un modo per raccontare i nostri prodotti e i nostri ingredienti. Poi ovviamente si tratta di aziende che devono camminare, perché i ristoranti che non vanno in profitto non sono ristoranti, però io parto sempre dalla mia esperienza e quindi mi divertiva e interessava raccontare storie simili alla mia perché so cosa vuol dire la fatica che va attraversata per sopravvivere alle guerre, alle epidemie come quella che stiamo vivendo ora, cosa devi mettere in più. Per sopravvivere cento anni devi prendere il cuore e gettarlo oltre l’ostacolo e io volevo dare voce a tutta quella gente che ha gettato il cuore oltre l’ostacolo per far sì che il proprio brand e il proprio nome rimanesse attivo a livello commerciale ma anche come racconto sociale”.
Questo è un aspetto molto presente anche nelle stagioni di Little Big Italy, dove nei ristoranti italiani in America è spesso proprio la tradizione famigliare a fare la differenza. Parlando di cucina italiana all’estero, anche alla luce della pandemia, la vera sfida è dunque rimanere autentici?
“La sfida nella ristorazione post-pandemia secondo me individua tre temi che erano già presenti a livello mondiale anche prima, perché c’è tanto da fare e servirebbe una grandissima riforma sulla ristorazione, ma questo è un discorso a parte. Il primo tema riguarda il rapporto tra la proprietà e le risorse umane, perché è importante che tutti noi prendiamo visione delle persone che lavorano nelle nostre aziende dando loro una parte più centrale, anche a livello di conoscenza personale. In poche parole, conoscere meglio con chi vivi, stargli vicino e dargli una mano, perché un leader deve fare questo. Il secondo tema è quello della sostenibilità, perché fare oggi ristorazione senza pensare alla sostenibilità è una cosa che non va bene. Dobbiamo pensare a tutto quello che abbiamo visto in questi mesi, compreso il cambiamento climatico a cui abbiamo assistito durante la chiusura. Non possiamo dimenticarcelo, deve essere un valore che dobbiamo riportare ogni giorno davanti ai nostri occhi. Siccome chi fa ristorazione può avere un potere impattante, perché compra cibo da mangiare per cento, duecento persone, ma anche cinque o dieci, bisogna pensare che la sostenibilità debba far parte di una visione di vita diversa. Dobbiamo ritornare a quelle acque limpide che abbiamo visto a Venezia, dobbiamo rivedere i delfini nuotare nei porti. È qualcosa che dobbiamo per forza ricordarci, perché deve essere impossibile vivere una vita che non sia così. Il terzo tema di questa sfida è infine la digitalizzazione della ristorazione, perché questo aspetto aiuta il sistema anche dal punto di vista della sostenibilità”.
Da qualche settimana va in onda il tuo nuovo programma Riaccendiamo i fuochi, dove racconti le difficoltà dei ristoratori italiani in questa situazione di emergenza. Anche a New York la ristorazione si è confrontata e si sta di nuovo confrontando con le conseguenze della pandemia e delle chiusure. Quali sono le differenze tra gli USA e l’Italia da questo punto di vista?
“La differenza è che negli Stati Uniti c’è stato un grandissimo aiuto da parte delle istituzioni e del Congresso, che hanno elargito aiuti economici veramente sostanziosi a tutti, in modo piuttosto semplice. Da questo punto di vista perciò i ristoratori sono stati molto aiutati. Non so cosa accadrà con questa nuova ondata, staremo a vedere, ma se dovessero confermare quello che hanno fatto nella prima ondata allora chapeau alle istituzioni americane”.

Nel libro tu racconti di luoghi e persone sparsi su tutto il territorio degli Stati Uniti. Ci sono però alcune storie di New York molto affascinanti, come quella del mercato ittico di Fulton nel Bronx, che tu definisci «La Wall Street del pesce», o della Chinatown del Queens, a Flushing. Per concludere con un po’ di speranza, nell’augurio che si possa tornare presto a visitare New York, hai un posto del cuore nella città, magari che associ a un cibo in particolare?
“Ti dico la verità, la vita del ristoratore a New York non ti concede tanto spazio. Ti svegli la mattina molto presto e si finisce sempre molto tardi, forse troppo. Questa pandemia ha messo in evidenza che il tempo è un valore assoluto nella vita dell’uomo e specialmente degli imprenditori che lavorano tantissimo. Questo tempo deve essere messo a disposizione proprio per dedicarsi ai posti del cuore. Spero che nel prossimo futuro tutto questo sia di insegnamento anche a me e che tutti noi potremo riuscire a prenderci tutti i giorni queste piccole soddisfazioni, che per me purtroppo al momento sono sconosciute. Quando mi sposto per la città è sempre per lavoro o perché voglio capire delle cose, dato che sono una persona molto curiosa, ma non ho mai il tempo di andarmene in giro liberamente e trovare un mio posto del cuore”.