La strage e il miracolo è un libro sulla fine della stagione stragista mafiosa del 1992/94. Grazie alle dichiarazioni di un pentito di prim’ordine, Gaspare Spatuzza, le intenzioni diaboliche di Cosa nostra – definitivamente fallite – sono qui rievocate da un astante pour l’excellence: un giornalista di vecchio stampo. Una domenica di calcio in famiglia. La ripresa del campionato di Serie A dopo la pausa natalizia. Un giovanissimo Francesco Totti appena arrivato in quell’anno. Presente quel giorno con la sua famiglia, insieme a altri quarantamila tifosi beatamente ignari della minaccia mafiosa, lui compreso, il giornalista Antonio Padellaro assisteva a una partita Roma-Udinese 0:2; “E te pareva…”. Padellaro in questo resoconto ricopre il quando e come la mafia fallì all’insaputa di tutti nel suo piano di strage più sanguinoso di tutti i tempi.

Opera unica sul discorso, questo snello volume mescola dichiarazioni, rapporti DIA, documenti della Corte d’Assise di Firenze, memoir, interviste e carte giudiziarie e li sintetizza per creare un contesto completo per uno degli eventi della stagione stragista a tutt’oggi poco conosciuto dai più. Da giornalista, Padellaro fa delle domande e del caos creato dalle risposte, cerca di mettere ordine. Cosi, partendo dal punto di vista di un “semplice” tifoso (der. di tifo; febbre alta a tipo tifoso) quale è lui, e attraverso le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e le carte processuali passate ingiudicate, Padellaro arriva a fare un’osservazione quasi istintiva nella specie di crisi personale che accomuna Gaspare Spatuzza a pochissimi altri pentiti veri del termine, (tra cui Leonardo Vitale e Francesco Marino Mannoia). Che lega l’Italia degli italiani-brava-gente a uno degli aspetti più inquietante del loro star insieme: la contiguità. Perché c’è anche questo aspetto della contiguità: la vicinanza del bene al male; la mafia alla gente comune; la perspicacia conoscenza e la beata ignoranza.
Questa semplice reportage, in poco più di cento pagine, merita un’attenzione particolare perché ispira un approfondimento di alcune idee come la causalità, la serendipità, e la redenzione. Qui raccontato così, quel giorno ordinario acquista dello straordinario nelle sue retro-scene apparentemente contradittorie. Se, come scrive Balzac, dietro ogni grande fortuna c’è un crimine qui si vede che dietro questo quasi-grande crimine, c’era stata la fortuna. Divina o umana che sia, per Padellaro, tifoso di razza, fa lo stesso.
Lei proviene da una nota famiglia di origine di Caltanissetta nella Sicilia centrale. Non è conosciuto come mafiologo anche se, da giornalista occupato da decenni alla scena nazionale, avrà avuto modo di osservare il fenomeno. Ci sono state delle sorprese riservate nelle sue ricerche di questa storia?

“Io mi sono occupato di delitti eccellenti di mafia quando ero al Corriera della Sera, negli anni ’80 ed ero mandato a Palermo. Il delitto più efferato fu l’uccisione di Pier Santi Mattarella, fra gli altri. E allora io presi contatto con quella realtà, che era una realtà violenta, che era una realtà dove la mafia cercava di imporre il suo dominio allo stato. Quella fase però ha poco a che fare con la fase ‘stragista’ vera e propria, quella che fu inaugurata da Totò Riina, che ebbe il suo culmine negli assassini dei giudici Falcone e Borsellino, negli attentati del ’92-’93 e che doveva avere il momento finale nella strage dello Stadio Olimpico che – nelle intenzioni dei capi di Cosa nostra – doveva provocare almeno 200 morti tra carabinieri e tifosi che uscivano dallo stadio.
Alla tua domanda, il personaggio centrale di questo stragismo mafioso, Gaspare Spatuzza è un personaggio che io non mi aspettavo d’incontrare. Perché nella storia di Spatuzza c’è un po’ tutto: c’è l’infanzia nei quartieri più degradati di Palermo; c’è l’arruolamento come soldato nella mafia dei fratelli Graviano; c’è il suo obbedire senza avere mai dubbi sugli ordini più spaventosi. Ma c’è anche poi, a un certo punto, una specie di illuminazione. Quando a lui viene chiesto di assassinare Padre Puglisi, che era un parroco di una delle zone più mafiosa, di Brancaccio. E Spatuzza, nel momento in cui lo assassina, gli spara, vede che Padre Puglisi gli sorride. E quel sorriso resterà impresso nella sua mente e poi lo porterà, quando è il momento di far saltare in aria la folla dello stadio Olimpico, lo porterà, io credo, a un momento di ripensamento”.

C’erano aspetti delle sue ricerche che avrebbe voluto approfondire di più di quanto permesso dell’opera in corso o per i quali non è riuscito ad avere il modo di svilupparli come avrebbe voluto?
“C’è un fatto centrale. Perché nelle stesse ore nelle quali Spatuzza e il suo braccio destro Benigno stanno per azionare il contatto per far esplodere la Lancia Thema imbottita di tritolo e di tondini di ferro, nello stesso momento, in un altro stadio che è lo stadio di Meazza di Milano, al termine della partita Milan-Piacenza, Silvio Berlusconi, che era il presidente del Milan, annuncia praticamente la sua discesa in campo. Quello che io avrei voluto capire meglio e approfondire è il legame tra questi due eventi. Perché noi, dovendo basarci sui dati di fatto e non sulle supposizioni, noi sappiamo che Marcello Dell’Utri, che era degli uomini più vicino a Silvio Berlusconi in quegli anni, è stato condannato per appoggio esterno alla mafia. E quindi è possibile pensare – dalle testimonianze – che in quei giorni, Dell’Utri e i fratelli Graviano, che erano i reggenti di Cosa nostra dopo l’arresto di Riina, ecco, è possibile che ci fossero stati dei contatti? Anche perché i fratelli Graviano erano felici della discesa in campo di Berlusconi perché erano sicuri che la politica italiano sarebbe cambiata a loro favore. Ecco, quello che non si riesce a comprendere e capire è quale fosse il reale rapporto tra Berlusconi e questi personaggi di spicco di Cosa nostra. Perché i processi hanno sempre delineato un quadro ma non hanno mai approfondito le circostanze. Quindi ecco, mi sarebbe piaciuto sapere di più sul rapporto mafia e politica”.

Quando ripercorreva nella memoria la sua parte di questo – come lo chiama nel libro – triangolo delle Bermuda (di Mafia-Stato-Società civile) le sono venute in mente delle idee a lei nuove sulla contiguità e sulle intersezioni tra le istituzioni e la cittadinanza?
“Ma questo è l’aspetto più delicato di tutta le vicende mafiose, non soltanto quella di Cosa nostra; anche quella che riguarda l’Ndrangheta Calabrese oppure la Camorra Napoletana. Fino a che punto queste organizzazioni criminali si sono potute giovare dell’appoggio della politica? Io mi sono fatto quest’idea, che quando si parlava del terzo livello, no, dei burattinai che guidavano le azioni criminali delle mafie, che c’è stato un momento in cui la mafia non aveva più bisogno della politica perché decideva la mafia che doveva candidarsi e chi no. E questo è un dato di fatto. Perché in molte zone della Sicilia, ma anche della Calabria, spesso il voto mafioso è determinante per le elezioni al parlamento ma anche nei consigli regionali. Quindi io non ho mai creduto al burattinaio, al politico, all’eminenza grigia. Credo invece che ormai la mafia sia così potente che può decidere la carriera non solo della politica ma anche dell’alta finanza. Le mafie, ovviamente, non sono più quelle con la coppola ma è da tempo dei colletti bianchi. Noi sappiamo per esempio che a Roma, dove si parla di Camorra e dell’Ndrangheta, le mafie hanno avuto una grande quantità di ristoranti e di bar. Sono nelle mani di questi personaggi attraverso dei prestanome. Perché le mafie hanno una grande liquidità e questa liquidità cercano di riciclarla in attività lecite, inquinando però queste stesse attività. Perché quando un boss entra nel settore è evidente che il resto del settore viene messo in una situazione difficile, quasi di sudditanza. Questo penso. Che non ci sia il terzo livello ma ci sia però un inquinamento generale del tessuto sociale-politico del paese”.

Da quello che lei ha potuto capire, crede che sia stata l’esperienza di Spatuzza nell’uccisione di Don Pino Puglisi (nel loro rione di Brancaccio a Palermo nel 1993) a contribuire alla sua mancata insistenza nel far detonare l’esplosivo che avrebbe portato alla morte di almeno un paio di centinaio di carabinieri se non altrettanti gravissimi feriti e morti tra i tifosi in uscita a fine partita quel giorno?
“Mah. Si possono fare una serie di ipotesi. I dati di fatto quali sono? Non credo che ci siano stati dei ripensamenti dei vertici di Cosa nostra perché altrimenti non avrebbero mandato Spatuzza e Benigno sulla collina di Monte Mario quella domenica per far esplodere la Lancia Thema. Gli avrebbero detto ‘lasciamo perdere’ e poi avrebbero provveduto a spostare la macchina. La seconda ipotesi è quella di un disturbo sulle frequenze. Cosa possibile, perché intorno alla collinetta di Monte Mario vi è una zona di forte densità di antenne e ripetitori e può darsi che le basse frequenze del telecomando sono state disturbate. La terza ipotesi, che a me sembra più credibile, è quella – tra l’altro convalidata dagli atti giudiziari – di un mancato funzionamento o accertamento del telecomando. Però in quel momento si apre un problema tra i due, tra Benigno e Spatuzza. Questa emerge dalle testimonianze, perché Benigno dice scendiamo giù, da Monte Mario, e avviciniamoci di più in modo che le eventuali interferenze cessino per la vicinanza con l’auto. E lì invece Spatuzza dice basta, basta. Basta, lasciamo stare, è finito. Ormai i carabinieri stanno andando via e rischiamo di ammazzare persone innocenti. E quindi credo che in quel momento lui abbia deciso che era finita. Spatuzza poi avrà altre vicissitudini. Verrà arrestato, e poi in carcere abbraccerà la fede, avrà una conversione importante che lo porterà addirittura allo studio dei libri sacri, ecc. Si ci può anche non credere a queste conversioni dei mafiosi. Ma nel suo caso non aveva nulla da guadagnare, visto che ormai era stato condannato e non aveva diritto a una legislazione meno severa. Quindi, io credo che sia stata una conversione sincera la sua”.

(Youtube)
Oltre a come giornalista e direttore di diverse storiche testate nazionali negli anni, abbiamo saputo che lei è da considerare un tifoso costante, per usare un eufemismo, dell’AS Roma. All’epoca abbiamo tradotto e fatto avere la sua Open-letter dalle prime pagine del Fatto Quotidiano all’ormai ex-Presidente della Roma, James Pallotta. Ha mai avuto modo di confrontarsi con lui in modo più diretto durante i sette lunghi anni della sua proprietà?
“No, assolutamente no. Anzi ho criticato spesso alcune decisioni di Pallotta che, bisogna dire la verità: ha cercato di portare la AS Roma su un livello più alto dal punto di vista dell’organizzazione societaria, degli sponsor e anche dell’attività social. Sarebbe ingiusto dire che Pallotta non ha fatto nulla. Ha fatto parecchio. Purtroppo non è riuscito a realizzare i risultati sportivi e poi purtroppo ha lasciato un forte debito che adesso i nuovi proprietari dovranno cercare di prosciugare. Anzi io ho un orgoglio, l’orgoglio ora, per carità, cioè un fatto naturalissimo: io ovviamente mi sono sempre pagato l’abbonamento e i biglietti dello stadio per me e la mia famiglia. Mi sembra un comportamento del tutto naturale. Come giornalista potevo usufruire dei biglietti omaggio. Ma non c’ho mai pensato perché volevo conservare anche la mia autonomia di poter criticare la società o la squadra senza che qualcuno dicesse chissà che cosa”.

Le ispirano le potenzialità che l’AS Roma della nuova proprietà dell’americano di Texas, Dan Friedkin, sembra di promettere?
“Molto, molto, molto. Mi piacciono molto perché intanto sono degli industriali, cioè gente che rischia il proprio denaro, non quello degli altri. Non sono dei finanzieri. Secondo perché, intanto hanno fatto un atto di fede perché comprare una società in queste condizioni è un rischio. Terzo, da quando sono arrivati a Roma si stanno comportando molto bene, con grande serietà, in maniera molto sobria. Stanno cercando di fare il possibile in questa fase di passaggio che non è facile. Quindi a me sembrano veramente i migliori proprietari che ci potevano capitare in questa fase”.
Come se la passa questo periodo cosi storico per la nostra esistenza collettiva? Riesce a lavorare e scrivere attualmente come vorrebbe al tempo della pandemia da Covid-19?
“Io ho sempre continuato a lavorare anche durante il lockdown. Il giornalismo è un mestiere che tra l’altro consente lo smartworking, anzi soprattutto si fa attraverso gli strumenti digitali. Ho continuato a scrivere, ho continuato ad andare al giornale perché potevo farlo. Credo che bisogna entrare in questa dimensione diversa, appunto della convivenza. Dobbiamo fare dei sacrifici e delle rinunce. Però il fatto di poter – in questa fase, in questi giorni di fronte a numeri molto brutti – poter circolare, fare il nostro lavoro con l’unico sacrificio della mascherina, del distanziamento e anche dei tamponi, mi sembra un grande risultato”.
Autore: Antonio Padellaro
Editore: PaperFirst 2020