Conosci l’avvocato Vincenzo Malinconico? No!? Beato te… Perché, come ogni lettore di libri che sanno farsi amare, so che stai per scoprire un fantastico protagonista icona, insieme a tutti i suoi tic mentali ed emotivi; i suoi giri di parole e di idee, i suoi discorsi esilaranti per quanto sorprendenti, come corti circuiti mentali, davvero buffi; a volte in codice, spesso toccanti; umanissimi. E ci sono altri quattro libri nell’evoluzione del personaggio da assaporare. Beato te davvero.
Come lo scatto di una macchina fotografica; automatico, veloce, tipo, o ci stai on non ci stai. Quando una persona si trova davanti, mettiamo, una ragazza in mutande, con il seno pronunciato, sul proprio pianerottolo di casa, pregando quella persona di poter entrare per nascondersi da una retata, se quella persona è Vincenzo Malinconico, lui ci sta. E beati noi. Perché così inizia l’ennesima lezione di vita che l’avvocato (il Non-Principe-del-Foro; il giullare di corte, meglio) ci dona. E dietro di lui, l’autore De Silva tiene banco. Non scriverei di più della trama del libro perché chissene… già avere finalmente tra le mani una fresca storia di Malinconico, qualunque sia, è come all’improvviso… la mattina di Natale. Basta accennare al fatto che Malinconico si troverà costretta a decidere se lui (Fruttero dixit) possa ancora permettersi di non prendere la propria vita come un fatto personale. Basta aggiungere che Malinconico-De Silva sarebbe figlio di Woody Allen, se Woody Allen fosse figlio di Eduardo.
Diego De Silva ha creato un particolare idioma speciale con il suo alter-ego Malinconico. Un idioma allo stesso tempo esatto e suggestivo, elegante e impacciato, buffo al limite della follia ma allo stesso tempo, ammettiamolo, familiare. Malinconico dice cose logiche, a volte addirittura saggie, in modo tutto suo, che riconosciamo anche un po’ nostro. O meglio: le dice per noi. Siamo d’accordo con lui. Come se i nostri stessi pensieri insondabili potessero essere così degni di tanto rispetto e noi di noi stessi, lasciati a noi. Malinconico ci fa capire finalmente – come in quella battuta di Groucho Marx, qua all’inverso però – che Sì, invece, vorremo far parte di quel club che ci avrebbe come membri, magari se riuscissimo a farci capire quanto riesce Malinconico. E, ovvio, fosse lui il capo del club. La verità.
Buoni scrittori interpretano la società in cui si trovano; i migliori tra loro provocano una reazione; riescono a fornire orientamento e a volte una sfida. Leggere il Malinconico di De Silva è l’equivalente di portare le cuffie VR. Nei suoi dialoghi interiori (o meglio, indirizzati a noi – a là Fleabag della Phoebe Waller-Bridge e la sua tecnica di ‘rompere la quarta parete’ – che, puntualizziamocelo: venne dopo l’uso maestrale da Diego De Silva, eh, ‘a voglia) Malinconico è così odierna, così evocativo di noi e del nostro tempo; cosi tutt’uno con l’attuale tendenza, di noi tutti che viviamo così tanto nelle nostre stesse teste, abbindolati e legati, bloccati e ricattati dai nostri stessi pensieri, in quello spazio davvero virtuale, tra le orecchie. Sì, quasi spiace dirlo per quanto lui è senza pretese ma, ormai, Malinconico appartiene allo Zeitgeist.
Tanti critici equiparano il successo di un artista a un’infanzia particolare. Puoi dirci qualcosa della sua infanzia e giovinezza?
“Tutto quello che posso dire è che scrivere mi è sempre venuto facile. È stato alle elementari che ho avuto il sospetto che la scrittura avrebbe avuto una parte importante nel corso del tempo. Avevo assistito all’agonia del pappagallino dei miei nonni, e venne istintivo raccontare quel povero infarto sul quaderno di scuola. Qualche giorno dopo quelle due paginette vennero lette per caso dal mio insegnante, che – ricordo perfettamente – mi guardò come non aveva mai fatto prima. Mi piace pensare che tutto sia partito da lì”.
Qual è uno di quei primi libri la cui impressione su di lei è durata dall’infanzia a tutt’oggi?
“Direi “Tarzan delle scimmie” di Edgar Rice Burroughs. Avrò avuto sette anni, e ricordo molto bene la sensazione di tridimensionalità che mi diede la descrizione della giungla. Rimasi folgorato dalla capacità della scrittura di creare ambienti e paesaggi”.
Ha trovato vero, in generale, quello che dicono – che c’è poca comunità tra gli scrittori – al di là dei convenevoli?
“Al contrario: la mia generazione di autori non è affatto schizzinosa. Alcuni fra i miei migliori amici sono miei colleghi”.
Ha un libro preferito tra i suoi, o perché particolarmente riuscito nel suo piano oppure per altre ragioni importanti?
“Due: “Certi bambini” e “Non avevo capito niente”. Scritti entrambi – me ne rendo conto col passare degli anni – in uno stato di grazia”.
Quando legge ha un genere che preferisce un po’ di più degli altri?
“No. Mi limito solo a evitare gli scrittori che mi piacciono particolarmente, altrimenti inizio a scrivere come loro”.
Trova affinità tra l’humor nella sua scrittura e l’umorismo trovato nelle opere di Eduardo.
“Quello è un po’ giocoforza che capiti perché, essendo campano, ho quel tipo di umorismo nella tradizione di famiglia”.
Dalla pubblicazione del suo primo libro ad oggi, è cambiata il suo processo di scrittura in qualche modo importante?
“Ho più mestiere nel tenere in piedi l’impalcatura di un libro. L’approccio creativo, invece, non è cambiato per niente: cerco di stupirmi davanti alla pagina e la considero buona quando, rileggendola, non mi sembra scritta da me”.

Ha letto qualcosa o ha avuto momenti particolari nella sua vita che l’hanno fatta riflettere diversamente sulla narrativa?
“Sì. Quando mi sono imbattuto in “Domani nella battaglia pensa a me” di Javier Marìas. Un autore che ancora oggi considero fondamentale”.
Qual è la sua kryptonite nella scrittura?
“Non mi piace riconoscermi nella pagina, non voglio assomigliarmi. Per me la scrittura è invenzione, in senso etimologico: ritrovamento, scoperta”.
C’è stata una scena più difficile da scrivere in questa puntata dell’universo Malinconico?
“Sì, il capitolo in cui Malinconico esce dal laboratorio di analisi col pericolo di una diagnosi di tumore e sbatte contro la vita degli altri che va avanti come sempre. È stata una gran fatica”.
Qual è l’aspetto più controintuitivo che abbia mai scoperto sulla scrittura?
“Un dato reale che contraddiceva implacabilmente un’intuizione. Se il registro narrativo che stavo usando non permetteva la frequentazione dell’impossibile, ovviamente”.
Ci sono autori che all’inizio del suo leggerli non le sono piaciuti ma poi ha maturato un apprezzamento? Ha un romanzo o uno scrittore preferito che giudicherebbe sottovalutato dal pubblico?
“Uno scrittore che amo è [Alberto, ndr] Moravia. Certo, non è un sottovalutato, ma lo si legge e se ne parla di meno. A me sembra assurdo”.
Quando scrive per il cinema, ci sono parti della scrittura per cui il suo contributo è spesso richiesto: dialoghi, trama, struttura generale? Ha mai scritto elementi che sono più della dinamica visiva-cinematografica (a là Terrence Malick, come esempio estremo) rispetto alla narrazione situazionale? Qual è la sua opinione di questo elemento della sceneggiatura?
“Credo di essere un buon dialoghista: ho una dimestichezza naturale nel mettere le parole in bocca ai personaggi di una storia. Anche l’aspetto più propriamente visivo m’interessa, ma questo presuppone un lavoro gomito a gomito con il regista anche in fase di sceneggiatura”.
Come lavora maggiormente per il cinema: come co-sceneggiatore o lavora piuttosto dai suoi copioni originali? Ha avuto richieste di fare lo “script doctor” per la stesura di film d’altri?
“Entrambe le cose. Mi è capitato anche di fare lo script doctor, che pure è un lavoro bellissimo e molto distensivo, perché ti permette di stare nel cono d’ombra di un altro e potenziarne il lavoro”.
Pare che stia lavorando da tempo su Malinconico per una serie TV. Come sta andando?
“Direi bene. Mi sento ragionevolmente soddisfatto”.
Chi, lavorando come attore, oggi o ieri, vede idealmente come giusto per il personaggio Malinconico?
“Io sono disponibile a qualsiasi scelta, purché l’attore colga l’essenza del personaggio e la senta propria. Malinconico non è un personaggio interpretabile soltanto col mestiere”.
A proposito dell’uso delle analisi sulla musica nazional-pop come digressioni, è una semplice diversione oppure da autore le vede come utile orientamento del racconto?
“È una cosa nata per gioco, poi diventata una costante dei libri di Malinconico. Un po’ – credo – alleggerisce la lettura, un po’ tratta dei temi che attraversano la storia che in quel momento sto raccontando. In genere gioco con le canzonette italiane anni 70 perché mi pare raccontino bene il nostro costume”.
Pare che lei abbia detto: “… a mio parere la canzone nazional-popolare contiene la sinossi di un tempo tipicamente italiano molto meglio di quanto non riesca a fare la canzone d’autore.” Si potrebbe approfondire la sua opinione?
“Conosco bene la canzone d’autore, e so quanto ha significato. Ma quella è già letteraria di suo, non ha bisogno di essere analizzata ulteriormente. Ragionare sulle canzonette da festivalbar, invece, è molto più intrigante (oltre che più difficile). Per spiegarmi: qualunque cosa io scriva su una canzone di De Andrè, sarà sempre inferiore a quello che ha detto De Andrè. Se scrivo su una canzone dei Cugini di campagna, avrò molte più occasioni interpretative”.
Scriverebbe ancora altri generi, per bambini, o forse un saggio?
“Per bambini sì. Ho anche una storia in mente da diverso tempo, ma non mi sono ancora deciso a scriverla. Prima o poi lo farò”.
Un saggio recente descrive il lettore ormai condizionato così: “sempre più innamorata e dipendente dalla tecnologia – l’HuffPostificazione dei titoli al generale allarmismo del linguaggio progettato per spremere un’altra pagina-vista e a malapena monetizzata“? Ha mai avuto un’opinione sul Ruolo-dello-Scrittore nell’epoca attuale della tecnologia sfrenata? Le fa effetto come scrittore?
“Certo. Non si può ignorare il cambiamento in atto. La rete va conosciuta, frequentata come un posto in cui le cose accadono più velocemente e dove partono dei processi di modificazione della trasmissione del sapere che non possono essere liquidati barricandosi nell’appartenenza a un altro secolo. Altra cosa è asservirsi al web e accettarne ogni codice. Tanto per dire, non credo che uno scrittore debba necessariamente sovraesporsi ed essere onnipresente in rete: può tranquillamente scegliersi un posticino senza occupare il centro del palco e tuttavia partecipare allo spettacolo”.
I valori che contano (avrei preferito non scoprirli)
Autore: Diego De Silva
Editore: Einaudi 2020