Era estremamente improbabile ed imprevedibile che l’uomo del Ventunesimo secolo, votato alla certezza fideistica della scienza, delle sue panacee di lunga vita e di salutistiche speranze precipitasse nel vortice degli ancestrali terrori e fosse travolto dalla psicosi globale. Travolto, come dalla notte dei secoli, dai suoi fantasmi psichici e dalle sue interiori fobie. E l’esplosione contagiosa del panico, irrefrenabile ed incontrollabile isteria collettiva. E la comparsa degli untori ideologici socio- politici con metodi più insidiosi e sofisticati di quelli manzoniani (Storia della colonna infame). Il disastro odierno e ormai incontenibile delle Borse mondiali e gli scaffali vuoti. L’uomo nudo, con gli occhi inorriditi dal Male secolare, come dalla sua comparsa debole e fragile.
Il primordiale flagello della peste fu identificato come bacillo Yersinia pestis, una zoonosi, cioè trasmesso da un animale, nel caso roditori, vettore la pulce dei ratti, e soggetta a quarantena. Non ci crederete, ma, secondo dati OMS, è ancora diffusa in tutto il mondo, con 3.248 casi dal 2010 al 2015 e 584 morti. Ed è stato dai tempi biblici il Morbo assoluto, tanto da divenire un topos letterario.
Perciò Jahvè e i suoi profeti la minacciavano come punizione e castigo, testimoni il primo esodo ebraico in assoluto, la quinta piaga contro gli animali e la settima piaga minacciata agli uomini del Faraone (Esodo, 9, 3 e 15, «e il tuo popolo con la peste, tu saresti ormai cancellato dalla terra»), il Deuteronomio come maledizione (28, 21, «Il Signore ti farà attaccare la peste, finché essa non ti abbia eliminato dal paese, di cui stai per entrare a prender possesso») e nel Cantico di Mosè (32, 24, «Saranno estenuati dalla fame, divorati dalla febbre e da peste dolorosa»). Erano le minacce del Dio del terrore, che covavano nell’animo umano.
Così come punizione di Apollo la peste è descritta da Sofocle, nel prologo di Edipo re (tra il 430-420 a.C.), ove nella città di Tebe, «distrutti i bovi delle mandrie, e i parti / delle donne, che a luce più non giungono: / e il dio che fuoco vibra, l’infestissima / peste, su Tebe incombe, e la tormenta,/ e dei Cadmèi vuote le case rende: / sí ch’Ade negro, d’ululi e di pianti / opulento diviene». (traduzione Ettore Romagnoli).

Dai tempi biblici è nato quel topos letterario che sarebbe comparso in tutte le culture e avrebbe ritmato i profondi abissi delle paure subconscie del mistero e dell’ignoto. Sofocle aveva espresso in enigma il dramma dell’arcano della vita. Aveva perciò rivissuto in mito quella tragica realtà della peste, scoppiata ad Atene nel 430-429, l’anno successivo all’inizio della guerra del Peloponneso. Questa fu descritta in assoluto la priva volta secondi i canoni della scienza moderna dallo storico Tucidide che ne analizzò origine, inizio e sintomi, sviluppo e conseguenze psicologiche (Guerra del Peloponneso, II, 47-53):
«48. Si dica su questo argomento quello che ciascuno pensa, sia medico sia profano, sia sulla probabile origine della pestilenza, sia sulle cause che si potrebbero ritenere adatte a procurare tanto sommovimento. Io dirò di che genere essa sia stata, e mostrerò quei sintomi che uno potrà considerare e tener presenti per riconoscere la malattia stessa, caso mai scoppiasse una seconda volta. Giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati».
Se Virgilio descrisse così la pestilenza delle api (le anime?) nel Norico, conclusa con il mito di Orfeo ed Euridice (Georgiche III, 478-481, trad. in prosa M. Sartori, «Qui un tempo comparve una temperie maligna per l’aria cattiva, e il cielo divenne infuocato di tutto il calore di agosto, e diede alla morte ogni stirpe di animali, domestici e selvaggi, e inquinò le acque, e impestò i pascoli»), Ovidio cantò la terribile pestilenza che si abbatté sulla popolazione:
«Finché parve un male naturale, finché era oscuro cosa nuocesse, quale fosse la causa dell’immane sciagura, si combatté con le armi della medicina. Ma il flagello era tale che ogni soccorso era vano, e arrendersi bisognava. Da principio calò sulla terra una caligine spessa, opprimente; una cappa di nubi formò una morsa d’afa spossante, e per tutto il tempo che la luna impiegò a colmare quattro volte il disco pieno, soffiò un caldo Austro dalle folate mortali. Risulta che l’infezione si propagò anche alle fonti e ai laghi e che molte migliaia di serpenti, errando per campi desolati, contaminarono i fiumi con i loro veleni (Metamorfosi VII, 523-535).

E da allora fino ad oggi il morbo divenne un topos virale. Tralascio perciò Lucano (Pharsalia VI, 80-105), Silio Italico (Punica XIV, 580-640), il longobardo Paolo Diacono (Storia dei longobardi , 744), come le pestilenze a Roma del 166, 180, del 260 e 280, per giungere a Giovanni Boccaccio e alla celebre cornice del Decameron ove narra la micidiale pestilenza del 1348-1351 a Firenze, la peggiore di tutti i tempi, la Morte nera, per la manifestazione dei bubboni neri. Per lui che ne descrive sintoni e processi naturali e psicologici, la soluzione è la fuga dalla città, l’immersione nell’Eden della campagna. Da diretto testimonio ne riprende da altro protagonista Tucidide l’antitesi paradigmatica tra analisi e verifica delle conoscenze scientifiche e valori etici, direi antropologici. Nel terrore generale, tra pellegrinaggi a Roma, seguiranno altre pesti nel 1360 (la peste dei bambini), nel 1575-1577 (di San Carlo Borromeo).
Così intende il flagello ancora Daniel Defoe (1660-1731) nella cronaca della Peste di Londra del 1665: nella fantasia di dar la colpa al passaggio di una cometa o nella visione di un angelo che impugna una spada di fuoco, il protagonista sellaio fra scene di monatti e sepolture, fra un pifferaio scambiato per morto, nella dissoluzione morale e nella diffidenza: l’opinione comune ritiene che le persone infette, spinte dall’odio, desiderano contagiare gli altri per farli soffrire come loro.
Insieme a lui è poco ricordato l’americano Edgar Allan Poe (1809-1849) con l’inquietante La maschera della morte rossa sulla tragicità del destino e l’orrore della morte e il comico grottesco Re peste nella realtà deformata della sbornia dei due protagonisti. A parte la dimensione surreale la morte assurge a simbolo dell’assurdità della vita e del nichilismo di Poe.
Nella nostra esperienza scolastica si erge imponente il romanzo I promessi sposi del beato Manzoni imposto dall’ininterrotto clericalismo statale. In esso la peste milanese del 1630-31, portata dai Lanzichenecchi di Wallenstein e da lui nota letterariamente, ma non direttamente, come Tucidide e Boccaccio, diventa paradigma del perché esistenziale dell’intervento divino sulla vita umana (capp. XXXI-XXXII). Per un cattolico rinvigorito nella fede dal giansenismo la questione riguardava il bene e il male, tra il cattivo pentito e il bravo punito e pertanto l’assurdo di un castigo divino che non risparmiava neppure gli innocenti. Dall’utilitarismo del do ut des alla prova della fede. Nel suo intricato percorso di formazione Renzo-Manzoni nell’epilogo spiega come in una favola la morale:
«Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.».
E giungiamo ai nostri tempi e all’angelo che con la sua spada sguainata imperversa sul cielo di una immaginaria Orano traumatizzata. Albert Camus (1913-60), di contro a Sartre esistenzialista ateo con La peste (1947), riprende la metafora del dolore e della prospettiva dell’assurdità e gratuità della morte. L’antitesi tra la scienza del dottore Rieux, che ne rende al centro la cronaca dal punto di vista sanitario, di contro al sacerdote Paneloux che brandisce la spada dell’angelo vendicatore, in una impietosa analisi tra fede e scienza, istituzioni e drammi soggettivi. La salvezza dalla disperazione diventa la solidarietà fra gli uomini, davanti ad una agonia senza una giustificazione accettabile alla ragione umana. L’unico sollievo all’angoscia è l’azione. L’epidemia assurge con la solennità dei toni narrativi a primo epos dell’uomo moderno, fin dal suo comparire, con un’inspiegabile moria di topi, al suo risolversi e alla riapertura del cordone sanitario intorno alla città in quarantena. In un procedimento narrativo unitario e coerente la peste viene mantenuta costantemente al centro del racconto, ne è la protagonista, e il dibattersi degli uomini (la fede, la scienza, il rapporto della peste con le loro istituzioni, i drammi personali) è in ultima analisi secondario rispetto al vero e proprio trionfo della morte rappresentato dal morbo.
Così Tarrou: «Per questo, inoltre, l’epidemia non mi insegna nulla, se non che bisogna combatterla al suo fianco, Rieux. Io so di scienza certa (tutto so della vita, lei lo vede bene) che ciascuno la porta in sé, la peste, e che nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune.». E più strabiliante: «Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce, e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice» (trad. A. Zevi).
Per la sua tesi originale mi piace ricordare il grande poeta e commediografo Antonin Artaud e il suo Il teatro e il suo doppio (Le Théâtre et son Double, 1938), un testo fondamentale di pratica scenica, che ha influenzato la ricerca teatrale degli ultimi decenni, dal Living Theatre a Tadeusz Cantor, Peter Brook, Jerzy Grotowski. Nel saggio ci dà un’interpretazione nuova e “positiva” della peste, perché «coglie immagini assopite, un disordine latente e spinge d’improvviso fino a gesti estremi». Per lui la peste non è una vera e propria malattia, ma un’entità psichica non provocata da un virus. Perciò rifiuta ogni spiegazione medica che tenda a definire scientificamente o a circoscrivere geograficamente questo fenomeno. Il discorso sottintendeva una sua finalità: «il teatro, come la peste, scioglie conflitti, sprigiona forze, libera possibilità, e se queste possibilità e queste forze sono nere, la colpa non è della peste o del teatro, ma della vita».
Il brasiliano Jorge Amado in Teresa Batista stanca di guerra (1972), la protagonista, mulatta, orfana, venduta, ballerina e prostituta, innamorata tradita, allo scoppio del vaiolo nero a Buquìm, non fugge e cura i poveri per vaccinarli, correndo il rischio di contagiarsi. Anche qui il monito:
«lo creda chi vuole: a por fine al vaiolo nero che imperversava nelle vie di Buquìm sono state le puttane di Muricapeba capeggiate da Teresa. Coi suoi denti limati e col suo dente d’oro Teresa Batista ha masticato il vaiolo e lo ha sputato fuori […]. Nascosto in una grotta il vaiolo aspetta una nuova occasione. Ah, se nessuno provvede, un giorno ritornerà per farla finita, e allora poveri noi! Dove trovare un’altra Teresa-del-vaiolo-nero per dirigere le operazioni?».
Credetemi. Finora abbiamo parlato di letteratura e lontani innocui fantasmi. A riportaci alla realtà odierna è lo sconvolgente romanzo apocalittico L’ombra dello scorpione (The Stand, 1978) di Stephen King, visto come sua summa narrativa e poetica. Si descrive la micidiale epidemia che in poco più di una settimana uccide la maggior parte degli abitanti degli Stati Uniti. I pochi sopravvissuti, riunitisi a Boulder, si scoprono due gruppi in lotta fra loro, quelli incantati dalla serenità assoluta di una vecchia contadina e i seguaci di Darkman, il male con il suo carico di colpa e l’ambiguo potere di seduzione. Il male è sconfitto, ma resta un alone di soprannaturale nella percezione collettiva, il male come contrappeso, una certa America al margine, il terrore infantile in una prospettiva di redenzione.
Ma quello che mi strabilia di più per le premonizioni è Il morbo bianco (The White Plague, 1982) di Frank Herbert, l’autore della Saga di Dune. Un biologo traumatizzato dall’attentato terroristico, in cui ha perso la moglie, prepara un’orrenda vendetta contro l’intera umanità, creare un nuovo virus, attivo soltanto sulle donne, in grado di alterare la struttura genetica cellulare del corpo umano e di portare alla morte. È il suo “morbo bianco” perché si manifesta con chiazze biancastre, veicolo semplicissimo la cartamoneta. Quando sono pochissime le donne rimaste in vita e il pianeta è stravolto, pentito, aiuterà gli scienziati a trovare l’antidoto. In questi due scrittori americani nei loro tipici romanzi di fantascienza si ipotizzava quarant’anni fa un’apocalisse prossima ventura. Dell’uso di armi batteriologiche fu accusato Saddam e perciò fu appeso ad una forca. Ma tante Nazioni possiedono incontrollati arsenali batteriologici. Si ricordi che i nostri antenati non ebbero scrupoli ad usare gas nervini nelle trincee. I Cinesi di oggi sono stati accusati di avere involontariamente lasciato sfuggire dei virus di loro fabbricazione.
Per concludere ed alleggerire il clima e lanciare altro pestifero allarme che ammorba l’aria. Italo Calvino nelle sue Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (1985), nella terza lezione, Esattezza, parla diffusamente di un anomalo morbo, la “peste della scrittura”, quel vizio, assai diffuso ormai a livello universale di non curare la “forma”, usando un termine per un altro senza logica e razionalità, con bestiale ignoranza del lessico e dei significati.
PS. Chiedo scusa per la superficialità dell’elenco che, spero, passa suscitare una curiosità sul nostro passato, del quale siamo parte, incubi e panico compresi, nostre congenite ed ataviche angosce.