Mentre si avvicina la giornata mondiale della donna, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, Ocse, ha tenuto, nella sua sede parigina, una “High-Level Conference” sulla violenza di genere, suggerendo misure atte a porre fine a un fenomeno che, secondo la struttura intergovernativa, “remains a global pandemic”. Risulta che nel mondo più di una donna su tre ha denunciato violenza fisica e/o sessuale (ora catalogata, dalle agenzie internazionali di rilevamento, come “Intimate partner violence”, Ipv) da familiari o persone con le quali aveva stabilito una relazione di fiduciosa intimità: un dato peraltro probabilmente inferiore alla realtà, per le ragioni che saranno illustrate più avanti.
I ministri presenti all’incontro hanno riconosciuto il fenomeno come fattore critico per l’economia e il corretto sviluppo delle società, stabilendo di coordinare gli sforzi per l’offensiva contro una forma di violenza ritenuta inaccettabile violazione dei diritti umani.
L’Ocse afferma che l’Ipv è “widespread, persistent and devastating”, e che rappresenta la minaccia prioritaria ad ogni politica mirata all’eguaglianza di genere. Lo confermano i dati portati alla conferenza e che riguardano l’andamento di Ipv in paesi significativi.
Dichiara di aver patito violenza fisica e/o sessuale in famiglia o nella relazione con il proprio partner il 42 percento delle donne argentine, il 38 percento di quelle turche, il 36 percento di quelle statunitensi. Non troppo distanti, fra 32 e 30 percento, delle intervistate, le donne dei tre baltici Lituania Danimarca e Finlandia. In fondo alla classifica dell’orrore, con violenza subita “soltanto” dal 13 percento, stanno le donne di Spagna, Slovenia, Polonia e Austria. L’Italia si colloca al 19 percento, con Portogallo e Grecia. La media della violenza fisica di genere, nei 28 paesi selezionati, escluso il picco argentino, è 23 percento, il che rileva come, nel gruppo di paesi tra i più sviluppati al mondo, quasi una donna su quattro sia vittima di violenza nell’intimità.
I dati raccontano come la vergognosa realtà che sta sotto i numeri, si formi nella quotidianità, a prescindere da frontiere e distinzioni di qualsiasi tipo. Non conta l’appartenenza religiosa (l’islamica Turchia si colloca nei primi tre posti accanto alla cattolica Argentina e alla multireligiosa federazione statunitense), né quella geografica (nord e sud, occidente e oriente si ripartiscono i primi sei posti, dal 42 percento argentino al 30 percento finlandese), né il livello di istruzione (l’eccellenza dei sistemi scolastici nel nord europeo e americano non impedisce a Stati Uniti, Lituania Danimarca e Finlandia di stare tra i primi in classifica, né ai regni di Gran Bretagna e Svezia di collocarsi a ridosso, rispettivamente con 29 e 28 percento). Non risultano pesare più di tanto neppure le caratterizzazioni antropologiche, da sempre evocate quando si ragiona di condizione femminile, con l’implicita convinzione che le società primitive e tradizionali si fondino sulla condizione subalterna delle donne, costrette alla nascosta schiavitù domestica dall’inevitabile condizione di spose e mamme. La società turca, senza meno la più tradizionale e arcaica tra quelle in elenco, non appare molto più violenta delle scandinave presenti in elenco, ed è comunque a quattro lunghezze dal triste primato argentino superando di solo due lunghezze la collocazione degli Stati Uniti. Neppure l’abuso di alcol nelle diverse società sembra influenzare più di tanto il risultato: benché i maschi di troppe comunità europee scandinave e centro orientali abbiano appreso da padri e nonni che la fine di settimana vada occupata a sbronzarsi e, al rientro in casa, a battere le proprie donne, in Polonia l’alcol è sì un flagello sociale, ma la violenza e l’abuso maschili toccano “solo” il 13 percento delle donne, mentre nella Turchia islamica diffusamente analcolica la violenza è una volta e mezza superiore. Altrettanto dicasi dello status economico, essendo diversissima la ricchezza pro-capite dei primi cinque classificati.
Si può a ragione concludere che l’epidemia di violenza intima antifemminile, sia generata anche da fattori in provenienza dalla sfera biologica, più complessi di quelli rilevati dall’indagine sociologica. Sembrerebbe di poter affermare che il maschio umano, per conformazione fisica e psichica, e per le modificazioni subite nel corso dell’evoluzione, abbia maggiore propensione all’uso della violenza fisica rispetto alla femmina. Taluni istinti si arricchiscono di un’elevata componente di mimetismo (il camuffamento nel gruppo famigliare e sociale) e vigliaccheria (la forza fisica e il ricatto economico), consentendo che l’aggressività si tramuti in violenza da scaricarsi con relativa facilità nell’occultamento garantito dall’intimità.
Mentre la vigliaccheria è di tale evidenza che non merita illustrazione, qualche parola va spesa sul mimetismo, basandosi su dati che l’Ocse ha elaborato da serie statistiche di lungo periodo costruite da Unicef e World Value Survey; potranno sorprendere solo chi non ha riflettuto su quanto il fenomeno Ipv contamini il modo d’essere delle nostre società. Si vedrà dai numeri esposti, che opera contro le donne un vero e proprio patto socio-culturale globale che, nell’interpretazione benevola esprime il bisogno di garantire la perpetuazione della specie attraverso il mantenimento dei processi famigliari e sociali tradizionalmente affidati alla donna riproduttrice, ma che è in realtà espressione del potere dominante e negazione delle libertà femminili di auto-collocazione.
Quel patto implicito, porta donne e uomini a condividere, in modo sostanzialmente equivalente, se non l’approvazione, l’accettazione e la tolleranza della violenza contro le donne. Nei casi che troppo spesso appaiono in cronaca nera, si tratta di vera e propria omertà, che impedisce l’interruzione della violenza di genere e tutela il violento perché, nella distorta interpretazione “popolare”, egli agisce nel segno della norma non scritta della tradizione.
Nell’inchiesta in quattro continenti, Unicef e World Value chiedono se possa essere “giustificato il marito che batta la moglie in certe circostanze”.
Rispondono in Africa le donne di 50 paesi e gli uomini di 36, nelle Americhe le donne di 27 paesi e gli uomini di 6, in Asia lo stesso per rispettivamente 49 e 22 paesi, in Europa lo stesso rispettivamente per 39 e 7 paesi. La rielaborazione Ocse giunge alle seguenti conclusioni: in Africa risponde affermativamente il 45,5 percento delle donne e il 31 percento dei maschi; nelle Americhe il 12,5 percento delle donne e il 12 percento dei maschi, in Asia il 33,5 percento delle donne e il 34 percento dei maschi, in Europa l’8 percento delle donne e l’8,2 percento dei maschi. La media mondiale dice che il 27 percento delle donne e il 28 percento circa dei maschi risponde affermativamente, informandoci che molto più di un essere umano su quattro, in coincidenza di giudizio maschile e femminile, approva il principio della punizione corporale della moglie da parte del marito (di questo si tratta, in tale contesto). Nell’unico caso di discrepanza sostanziale nelle posizioni espresse rispettivamente dai due generi -nel continente africano – le donne, con quasi la metà delle intervistate, si schierano a favore della punizione corporale maschile molto più di quanto facciano gli uomini che rimangono surclassati e basiti dalla posizione delle partner.
Il silenzio delle donne di fronte alla violenza di genere, persino nei casi di stupro, anche con polizia e giudici, ha molto a che vedere con queste ultime cifre. Nessuna azione governativa potrà fermare i maschi violenti e animaleschi se non vi sarà la riconsiderazione e la rivalutazione dell’identità femminile da parte delle società. Tanto più che in taluni paesi si assiste a una recrudescenza dell’odio e della violenza di genere, dovuta probabilmente alle pressioni che, nella presente fase storica, vengono dalla generalizzata richiesta femminile di eguaglianza di genere, nel lavoro e nella società, ma anche nei ménage domestici, con la difficoltà maschile ad adeguarsi.
Ventuno dei trentasette governi dei paesi Ocse, hanno valutato Ipv uno dei tre maggiori ostacoli all’eguaglianza di genere nel proprio paese, confermando quanto sia vasta e radicata quella violenza. Occorre che i governi aderiscano fattivamente alla chiamata Ocse contro Ipv in quanto fattore che limita la promozione dell’eguaglianza di genere, eliminando ciò che rende possibile la correità di molti sistemi giudiziari, ma anche dei sistemi di comunicazione quali quello pubblicitario e televisivo (per non dire dei videogiochi e dell’internet), dove gli stereotipi di genere, per lo più totalmente idioti, si mischiano alla profusione di ammiccamenti e titillamenti obiettivamente eccitanti dei presupposti psichici della violenza. A questo proposito, si richiama come recentemente Giorgio Armani abbia pronunciato un mea culpa verso le donne a nome del sistema moda, che andrebbe raccolto e meditato. Occorre anche che il deficit di personale e strutture chiamate ad assistere le vittime delle molestie sia colmato.
Considerazioni morali ed educative a parte, impressionano i costi che la discriminazione di genere fa pagare all’intera società e alle sue capacità di crescita, anche economica. Nel 1980 il Fondo Monetario Arabo, il Fondo Arabo per lo sviluppo Sociale ed Economico, la Lega degli Stati Arabi e Oapec (Organization of Arab Petroleum Exporting Countries), decisero di finanziare il primo Joint Arab Economic Report. Da allora puntualmente, il rapporto informa sull’andamento economico e sociale del mondo arabo: sin dagli inizi, gli economisti che ne sono autori rilevarono con apprezzabile onestà intellettuale che il ritardo nell’eguaglianza di genere costituiva una minorazione sostanziale della capacità competitiva e di crescita del mondo arabo, non foss’altro perché si faceva mancare il contributo potenziale della metà della popolazione. Grazie anche agli obiettivi fissati dalle Nazioni Unite per questo 2020, i rapporti annuali hanno in genere documentato interessanti progressi nel mondo arabo per le questioni di genere, specie sui fronti del lavoro e dell’istruzione.
Detto questo, solo 133 dei 180 paesi monitorati dall’indice Sigi (Social Institutions and Gender Index) dell’Ocse considerano sottoponibile a indagine penale la violenza domestica, e solo 110 trattano le molestie sessuali come reato perseguibile penalmente. Non sono molti i paesi arabi a figurare nell’elenco.