Il 5 ottobre del 2015 è stato un giorno molto triste per me, perché è stato quello della scomparsa del mio scrittore preferito o almeno, di quello che più mi ha appassionato negli ultimi venticinque anni della mia vita: Henning Mankell.
Ho letto e riletto tutti i suoi libri, sia quelli della serie noir con protagonista il celebre commissario Wallander, sia gli altri romanzi, compresi quelli scritti per i ragazzi. Alternava la sua vita tra la Svezia e l’Africa, due luoghi diversissimi, che lo completavano. In Svezia scriveva di climi gelidi, di persone tristi e di un commissario metodico e geniale di cui amavamo la vita privata, le problematiche e le difficoltà personali quotidiane più che le storie gialle vere e proprie. E poi amavamo le riflessioni dell’uomo più che le azioni del poliziotto. I suoi pensieri sulla vita, sui rapporti con il prossimo, sul senso dell’amicizia, dell’amore e anche del dolore.
“Wallander sapeva di comportarsi male con i colleghi. Non aveva alcun diritto di rendere il loro lavoro più difficile con la sua malinconia e insoddisfazione. Ma allo stesso tempo non sapeva cosa fare per tornare ad essere il vecchio Wallander, il commissario testardo e bonario del distretto di polizia. Era come se quella persona non esistesse più e non sapeva se quella persona gli mancasse. In generale sapeva molto poco su quello che voleva fare con la sua vita.”
In Africa, invece, Mankell aveva fondato il Teatro Avenida di Maputo, in Mozambico, dove metteva in scena ogni anno dei meravigliosi lavori. La sua conoscenza del mondo africano e, soprattutto, delle persone, gli aveva poi fatto scrivere nel 2001, lo splendido “Le ragazze invisibili”, con protagoniste alcune ragazze africane rifugiate in Svezia.
Lottava contro il razzismo, da sempre, la considerava una delle piaghe più importanti del mondo. Amava ripetere una frase celebre del suo collega scrittore mozambicano Mia Couto “Ogni uomo è una razza.” E ancora aggiungeva Mankell: “Non si può essere razzisti, perché non si può essere razzisti contro sei miliardi di razze diverse”.
Nella sua carriera ha scritto una trentina di romanzi. Tutti ugualmente bellissimi. Tutti ugualmente profondi. Ognuno di loro avrebbe potuto essere quello scelto per questo articolo. Io ho voluto celebrarne uno solo, l’ultimo, Sabbie mobili. In realtà non è un vero e proprio romanzo, è qualcosa di più. È una lunga e meravigliosa riflessione sulla sua vita, annunciata anche dal brillante sottotitolo in copertina “L’arte di sopravvivere”. I capitoli del libro scandiscono lentamente le fasi degli ultimi due anni della vita di Mankell, cominciando da quando, il 16 dicembre del 2013, mentre sta guidando su una strada svedese, perde il controllo dell’auto e si schianta contro il guardrail. Lì per lì non ci fa molto caso e delega la colpa dell’incidente ad una probabile chiazza d’olio sparsa sulla carreggiata. Ma qualche giorno dopo, la mattina della vigilia di Natale, si sveglia con il collo completamente rigido e dolorante, seguito, da lì a poco, da dolori al braccio destro e perdita della sensibilità del dito pollice. L’otto gennaio, in seguito ad accertamenti radiologici, gli viene diagnosticato un cancro a livello avanzato sia nel polmone sinistro che nel collo. Da quel momento decide di affrontare la malattia, sottoponendosi alle cure prescritte, ma anche, e soprattutto, di iniziare a scrivere della sua condizione in una serie di articoli, tutti pubblicati individualmente sul quotidiano svedese Goteborg Post e, in seguito, riuniti nel libro finale.
Le sabbie mobili del titolo sono quelle di cui aveva letto da ragazzino su una rivista. L’articolo parlava di un soldato che, in Africa, era sprofondato e risucchiato giù nella sabbia, senza riuscire a salvarsi.
“Quando venni a sapere di avere il cancro, quella vecchia paura delle sabbie mobili mi si affacciò prepotentemente e mi travolse. Avevo paura di essere risucchiato dalla malattia.”
E invece no. Lui riesce a reagire. Dopo una decina di giorni di terrore assoluto, ritorna in sé. Affronta le cure e si rimette a scrivere. Ogni giorno.
“Quando, alla fine, ebbi sconfitto la voglia di arrendermi e di lasciarmi fagocitare nell’abisso, cercai nei libri cosa fossero in realtà le sabbie mobili e scoprii che il racconto dei granelli che possono inghiottire e uccidere un essere umano è solo un mito. Tutte le storie narrate e descritte sono inventate. Le sabbie mobili sono inventate e io da loro sono riuscito a fuggire”.
Nel libro Mankell racconta le tappe importanti della sua vita ma anche i piccoli dettagli, le riflessioni, le cose apparentemente inutili e invece importantissime. Parla della gioia e del dolore, alternandoli, così come sempre si alternano nella vita di ciascuno di noi.
Parla di quando si era perso e poi ritrovato, degli amici, della donna amata che sempre le è stata vicina e delle migliaia di persone da lui incontrate nei viaggi intorno al mondo. Ognuna di loro ha reso la sua vita più ricca. L’ultimo capitolo, forse il più bello, ha un titolo importante, “Mai lasciarsi privare della gioia” frase che, in fondo è stata anche il leitmotiv di tutta la sua esistenza.
“La vita è una faccenda seria, non ne va sprecato neppure un attimo, ne vanno colte tutte le sfumature. Dobbiamo vivere sempre e comunque, nei giorni di sole e in quelli di pioggia. Con tutte le persone che ho conosciuto e incontrato divido quella che è stata la mia esistenza. La nostra vera famiglia è infinita. Anche se neppure sappiamo chi abbiamo incontrato per un attimo di una brevità vertiginosa.”