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May 31, 2019
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Il calcio, metafora di un “mondo marcio”: intervista a Massimo Fini

"Storia reazionaria del calcio" è l'ultima fatica editoriale, realizzata con Giancarlo Padovan, del giornalista e scrittore, che si "dimette" dal ruolo di tifoso

Alessandra MorobyAlessandra Moro
Il calcio, metafora di un “mondo marcio”: intervista a Massimo Fini

Massimo Fini.

Time: 4 mins read

Giornalista e scrittore fuori dal coro, Massimo Fini firma, insieme a Giancarlo Padovan – ex-direttore del Corriere dello Sport – il volume di fresca pubblicazione ad opera di Marsilio “Storia reazionaria del calcio” e, fedele alla sua identità senza filtri, incornicia questa ultima fatica editoriale dimettendosi dal ruolo di tifoso. Per il Torino. «E visto che non potrò mai tenere per un’altra squadra, lascio anche un calcio che non mi piace più, lontanissimo per metodi, mentalità e anima rispetto a quello della giovinezza». E come dargli torto? Non occorre essere sportivi praticanti, o da stadio, o anche solo da divano: basta essere semplicemente franchi lettori o spettatori dei media per arrendersi alla triste realtà: money rules, comanda il denaro.

Reduce da un salone del libro di Torino piuttosto movimentato, per polemiche che liquida alla spiccia come «ridicole», Massimo, con Giancarlo, ha scritto un libro che fa dell’ambito calcistico lo specchio di un degrado moralmente ben più esteso. È la metafora di un mondo marcio?  «Sì, è proprio una metafora non marginale della nostra società, dominata da economia e tecnologia, entrate di conseguenza anche nel calcio, andandolo a snaturare, togliendoli i contenuti identitari e comunitari: era uno sport interclassista oggi è diviso per abbonamenti».

Una disamina che non lascia spazio ad obiezioni, anche perché Massimo parla da giornalista informato, da ex-calciatore, da (quasi) ex-tifoso: «Ora il calcio è uno sport che si guarda in tv: gli stadi hanno perso il 40% del pubblico. Eppure assistere da casa non è certo la stessa cosa, è solipsistico, isola come la dipendenza da smartphone. Lo stadio degli anni Cinquanta e Sessanta era anche comunicazione, talvolta lite…». E oggi si è ridotto, in troppi casi, in un catino di violenza senza misura. «Sì: si fanno le divisioni in settori, si schiaccia la suburra dietro le porte e nelle curve e si crea casino; una volta il pubblico si diluiva e non c’era il fenomeno delle tifoserie organizzate. Ricordo una partita a Genova dove due si presero a cazzotti: fu davvero un avvenimento!».

Il tuo punto di vista sulla donna calciatrice potrebbe essere tacciato di maschilismo: come lo spieghi? «Il calcio è una metafora anche della guerra, che è maschile; le donne, grazie a Dio hanno fatto altro. Adesso fanno anche il soldato e vedono ciò come una conquista, ma io non condivido. A ciascuno il suo. E lo dico senza alcun intento offensivo o polemico, anzi: ritengo la donna la vera protagonista della storia antropologica, come si legge nel mio “Di(zion)ario erotico. Manuale contro la donna a favore della femmina”. La mia non vuole essere un’affermazione riduttiva, ognuno fa ciò che vuole, ma, personalmente, avvicino la donna a sport con più grazia, come la pallavolo».

Di conseguenza allo stadio ci si va senza fidanzate o mogli? «Io non sono mai andato allo stadio con una ragazza, le due cose non stanno insieme: è come andare a messa, è un rito, ci vuole concentrazione, non ci si può andare a sbaciucchiare».

Fini sportivo? «Ovviamente ho giocato a calcio, ero un libero, ruolo che poi mi ha rispecchiato anche nella professione. Se uno mi veniva sotto, non ero capace di fare finte, di eludere… come nella vita. Allora passavo la palla al portiere o ad un compagno più bravo, o in tribuna!».

Calcio macchina da soldi, gran protagonista, al punto che ruba spesso e volentieri la scena ad altri sport, insopportabilmente definiti “minori”: perché? «E’ un atteggiamento che appartiene al nostro provincialismo, ma, con conforto, vedo che molti giovani si dirigono verso altre discipline più legate ai valori propri dello sport, come la lealtà agonistica: penso, ad esempio, al rugby, alla pallavolo».

Se dovessi citare una figura oggi esemplare, chi ti viene in mente? «Direi Totti, un grandissimo giocatore, poteva andare ovunque, ma è rimasto fedele, romano de Roma. Lo ritengo un esponente del “vecchio calcio”, come Bulgarelli, Riva, Antonioni, giocatori-simbolo. Chi viaggia da una squadra all’altra perde la possibilità di diventare tale, non si crea più identificazione». 

Addio al Toro e simbolicamente anche al calcio? «Addio ad un calcio che non mi corrisponde più; ci sono ancora partite bellissime, Barcellona che vince con Liverpool , ma lo vivo come un fatto tecnico, non più emotivo. Era un rito, ora è solo spettacolo».

Tempo fa avevi affermato che eri stanco di scrivere: hai cambiato idea? «Era un momento difficile, avevo avuto un collasso della vista. Sì, scriverò ancora: Marco Travaglio – direttore di “Il Fatto quotidiano” su cui Massimo firma imperdibili articoli, con massima libertà NdA – ha insistito con delicatezza, supportato da amici come Ermanno Olmi e Renzo Arbore, e ho ripreso». 

Una penna di cui c’è bisogno: alla fine, Massimo è molto meno provocatorio di quanto sembra, perché disserta con intelligenza e cultura e questo già toglie ogni appiglio per le beccate da pollaio che imperversano nel panorama talk show ed affini: il becero travestito da rivoluzionario, l’arrogante mascherato da trasgressivo. A guardar bene, è “solo” uno che ha il coraggio di dire che il re è nudo.

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Alessandra Moro

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