Mhairi McPhail lascia New York assieme alla figlia Agnes, di 9 anni, per una remota isola scozzese, Fascaray, avendo accettato l’incarico di una fondazione intenzionata ad allestire un nuovo museo dedicato alla maggiore celebrità del luogo, il poeta Grigor McWatt, da poco scomparso.
È da queste premesse che muove il romanzo di Annalena McAfee Hame, uscito due anni fa nei paesi anglofoni e ora tradotto in Italia per Einaudi.
Il titolo, Ritorno a Fascaray, già allude ad una delle motivazioni della protagonista, tornare là dove affondano le sue radici: il nonno di McPhail, infatti, è un personaggio di rilievo nella storia dell’isola, avendo fatto parte della “banda dei 5” che, nel Secondo dopoguerra, ha provato a ribellarsi alle angherie del Lord inglese che ancora esercitava i suoi diritti di proprietà su Fascaray. Le altre ragioni sono: aggiornare la biografia del poeta defunto, che presenta delle zone d’ombra, specie sulla sua infanzia, e soprattutto prendere le distanze da una relazione finita male, che ha lasciato uno strascico di “corna” incrociate.
Il vero tema del romanzo di McAfee, che è anche una apprezzata autrice di letteratura per l’infanzia e una firma del Guardian (oltre che la consorte di Ian McEwan), è l’identità, sia collettiva, quella scozzese, sia individuale, quella dell’artista. E, senza anticipare troppo quello che il lettore si ritroverà in mano se avrà il coraggio di arrivare in fondo a queste quasi 600 pagine, basti dire che una regola ben nota a chi si occupa di queste cose (gli antropologi, per esempio? Ma anche i biografi?) risulterà confermata: l’identità è sempre, almeno in parte, un’invenzione. O, se preferiamo (perché la parola invenzione suona un po’ come un sinonimo di “falsità”), un’elaborata costruzione.
Ma andiamo con ordine. Vista la location, un’isola delle Ebridi spazzata dai venti e flagellata dalle tempeste, potreste aspettarvi una storia di delitti, fantasmi, segreti inconfessabili e così via. Siete fuori strada. Ed è proprio per questo che il romanzone di McAfee è tutto fuorché scontato. Qualcuno lo ha definito un po’ noioso. Per chi scrive, Ritorno a Fascaray è invece al momento una delle letture più interessanti del 2019. Ma, certo si tratta di un libro che esce dai binari classici dello storytelling.
Ci sono almeno 4 vicende che si incrociano, qui, passandosi il testimone da un capitolo all’altro. La prima è quella umana di Grigor McWatt, sorta di poeta-vate che coltiva gelosamente le prerogative del suo esilio volontario, dal quale lascia però uscire con generosità le sue composizioni poetiche – in sostanza riscritture in lingua (o dialetto?) scozzese dei classici della letteratura britannica – e i suoi articoli di fondo, pubblicati sulla gazzetta locale ma capaci a volte di parlare al resto del Paese e persino al resto del mondo.

La seconda è quella della Scozia stessa. In queste pagine il lettore ripercorre, anche se da un’angolazione tutta particolare, secoli di rapporti difficili con l’Inghilterra, rapporti fatti di sudditanza, di prepotenze, di sopraffazioni, come nella migliore tradizione coloniale.
La terza è quella dell’isola, Fascaray, una finzione letteraria che però assomma molti dei caratteri tipici delle “Terre alte” scozzesi, microcosmo descritto con grande realismo anche se senza inutili pedanterie, dove i cattolici convivono con gli anglicani, i pescatori e i pastori autoctoni con una bizzarra comunità esoterica “importata” dall’esterno, e così via. Un microcosmo, anche questo è bene sottolinearlo, non immobile nel tempo, anzi, al contrario, sottoposto anch’esso alle ferree leggi del cambiamento.
La quarta è di nuovo una vicenda umana, quella della protagonista, la curatrice del previsto nuovo museo, e anche ricercatrice universitaria, quindi un po’ detective. Con lei, la sua deliziosa bambina, che assorbe senza colpo ferire il trasferimento da New York a quel lembo di Highlands circondato dalle acque dell’oceano Atlantico, e per estensione i legami che entrambe hanno lasciato in America, al momento del loro trasferimento.
Questi quattro filoni narrativi, incrociandosi, tessono una trama ricca, stratificata sul piano temporale, fatta perlopiù di toni agrodolci, ma che di quando in quando suscita nel lettore un sussulto di indignazione. Possibile che i paesaggi selvaggi della Scozia siano il frutto di una sorta di “pulizia etnica” (che potremmo definire più esattamente “pulizia sociale”, o “di classe”) condotta dai Landlords, i proprietari terrieri assenteisti, tutti appartenenti alla nobiltà britannica, ai danni dei loro affittuari scozzesi, per far posto agli allevamenti di pecore, durante la stagione delle Clearances? Non è solo possibile. E’ storia documentata. E chi ha visto L’albero degli zoccoli, il film di Ermanno Olmi, saprà anche che i rapporti di forza fra signori e contadini nell’Italia rurale di fine 800 non erano molto diversi.
Ma è possibile che costumi che non esiteremmo a definire feudali siano sopravvissuti fin sulla soglia degli anni 2000? Di nuovo, è possibile. In molte di queste isole lontane le cose, però, negli ultimi tempi, sono cambiate. I residenti hanno avuto la possibilità di riscattarle, e oggi esse sono teatro di esperimenti nuovi e interessanti, ad esempio sul fronte della convivenza fra uomo e natura, della cosiddetta sostenibilità, richiamati nelle ultime pagine del romanzo.
Il libro di McAfee è anche un giallo. La protagonista deve far luce su un mistero, le origini del poeta-patriota che nei suoi 90 anni di vita ha difeso a spada tratta l’indipendenza della sua isola, dai Lords approfittatori così come dalle multinazionali e persino dai dissennati programmi di sviluppo avallati dallo stesso parlamento scozzese. Non solo: che posto ha avuto, l’amore, nella biografia dello scorbutico, pugnace, forse geniale Grigor McWatt? E cosa ha tormentato per tutta la sua alcolica esistenza, Lilias Hogg, il “fiore di Rose Street”, la musa dei tanti poeti scozzesi che si ritrovavano nei pub di Edimburgo negli anni 50, a parlare di politica e letteratura?
C’è, infine, un colpo di scena. Ma ovviamente non si legge un romanzo così per sapere come va a finire. La storia del poeta, il cui maggiore successo è stato in realtà una canzonetta dedicata alla sua isola, ripresa nel corso dei decenni dalle grandi star della musica (compreso Bob Dylan), e diventata un manifesto delle piccole comunità che si oppongono alle Grandi Prepotenze, da sola non reggerebbe.
Così, il secondo romanzo Annalena McAfee rimane probabilmente, per molti lettori, un oggetto curioso e di difficile definizione, un po’ romanzo storico, un po’ commedia del filone “novi arrivi in folkloristiche small town”, un po’ ancora falsa-autofiction (la narratrice racconta le parti che la riguardano in prima persona). Dolce, toccante, ed al tempo stesso utile, istruttivo, persino rivelatore, perché mette a fuoco che cosa il regionalismo/localismo può essere quando non diventa una replica del nazionalismo sciovinista di Trump, di Orban, o della Lega: un moto autenticamente popolare, che si rivolge a cause giuste, legittime al di là del dettato delle leggi stesse.
Certo, il racconto delle vicende recenti di Fascaray (si arriva fino all’anno 2014 o giù di lì) non nasconde le contraddizioni presenti all’interno delle “piccole patrie”, al pari di quelle più grandi. La tensione fra tradizione e innovazione, fra progresso tecnologico e delicati equilibri ambientali, fra comunitarismo e individualismo, fra i locali, gli autoctoni, i “nostri”, e i forestieri, gli “stranieri” (in questo caso soprattutto gli odiati inglesi). Lo fa però senza sprofondare nel melodramma, con un mix ben riuscito di affetto e ironia. E anche questo rimane un pregio ineliminabile dell’opera.
Immergetevi in questo fiume, quindi. Fatelo se amate la Scozia, ma fatelo anche se non la conoscete affatto. Fatelo infine con la consapevolezza che questi meccanismi finzionali potrebbero essere utilmente applicati anche ad altre realtà. E che forse rappresentano un’alternativa praticabile al modello del cosiddetto Grande Romanzo Americano, che alcuni autori italiani oggi tentano di imitare.
Un’ultima osservazione. I diversi capitoli del libro sono intervallati dalle poesie di McWatt, oltre che dalle sue liste di nomi (piante, insetti, eventi meteorologici e così via). La traduzione di Daniele Petruccioli, che firma molto opportunamente una breve nota in fondo al volume, ha dovuto confrontarsi con il difficile problema di rendere in italiano la sofisticata operazione linguistica del poeta, che riscrive gli originali inglesi (di Eliot, Yeats e così via) in vernacolo scozzese (una lingua parlata ormai dal 2% circa della popolazione della Scozia). La soluzione è stata in pratica inventarsi una “neolingua”, che si adattasse allo scopo. Una finezza che il lettore italiano forse non riuscirà ad apprezzare in pieno, ma tanto di cappello allo sforzo.
Annalena McAfee, Ritorno a Fascaray, Einaudi, 2019 (trad. Daniele Petruccioli).