Come tuo professore di latino e greco, potrei cominciare così il mio incipit. Nell’intervista-presentazione del tuo Ogni ricordo un fiore hai più volte insistito sulle risonanze e le citazioni dell’Iliade. In effetti come poi confermerai più volte noi siamo una serie di addizioni e di sottrazioni, che ci fanno essere quel che siamo in un attimo fugace della nostra vita. L’hic et nunc in cui oggi mettiamo sullo schermo bianco del computer i segni fuggenti del nostro pensare e sentire. Io devo aggiungere che le parole che risuonano e si coagulano in immagini sono il nostro “essere” interiore in quell’attimo: certamente questo stesso colloquio ha sedimentato ed estratto le tue esperienze riferite al testo in esame, ma lo ha arricchito di altre scoperte, sfaccettature e allusioni che non avevi prima percepito. Voi alunni mi siete mancati, non solo per i sentimenti e l’empatia che si creava, ma anche per quella introspezione emotiva e creativa che mi facevano scoprire con stupore le magie degli antichi, li creavo insieme a voi, destrutturazione che non sarebbe stata possibile con la semplice lettura.
E ancora nella mia funzione tecnica potrei dirti che più che i ritorni degli eroi iliaci, il vero paradigma del viaggio è nel primo capolavoro narrativo del mondo occidentale, il nostos, quello a noi pervenuto, quella fantasia di navigatore fanfarone (cito Il milione di Marco Polo) che fu l’anonimo compilatore dell’Odissea. Dico arché e fonte di ogni romanzo perché in essa sono creati tutti gli espedienti narrativi, per citarne qualcuno moderno e diffuso, quello del flash-back o quello delle interruzioni dei canti per creare suspense ed attesa, maestro moderno Ariosto e cosa strabiliante i nostri cantori pupari. Tralasciando altre intrusioni dotte, intendo chiarire a te stesso che il tuo viaggio, attraverso l’espediente del funerale, che tale si rivela legato al padre di un amico, è in effetti un tuo nostos accorato e nostalgico, tormentato e angosciante come tutti i ritorni. Perché, non prendiamoci in giro, il viaggio all’inverso si estrinseca in un ritorno alle proprie radici, rivissute in quelle faville di memoria. E non bastano per storicizzare il percorso quelle tappe che sono l’elenco dell’indice. Non stai parlando delle tue esperienze future e delle glorie recenti da quel fatidico e sconvolgente I cento passi, ad apertura al XXI secolo. Né delle tue prove di riletture di colossi come quella rivisitazione con cori da carosello del tuo Edipo, La caccia. Nella tana, È un vero ritorno, la vita riletta in metaletteratura, somma di esperienze di vite e di perenne formazione letteraria colta.
Potrei avviare il mio incipit ricordando un altro celebre nostos, elegiaco e nostalgico, quello di Elio Vittorini di Conversazione in Sicilia (cum-vertor): «Io ero, in quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica che erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino».
Potrei ancora cominciare con altri celebri viaggi come La storia vera dell’epigono Luciano di Samosata, il greco sofista che chiude un’epoca, o uno moderno, ma strumento di introspezioni ancestrali, Travels into Several Remote Nations of the World, in Four Parts.By Lemuel Gulliver di Jonathan Swift, che parodia il Robinson Crusoe di Daniel Defoe.
Così potrei continuare per altri incipit. E mi fermo.
L’elemento che connota il libro, non si dice in nessun passo “romanzo”, sono semplici ricordi, tanto per rendere chiaro che sono fulminazioni della mente. Anche in questo versante la letteratura è immensa e mi fermo alle citazioni più celebri da I miei ricordi del nostro Massimo d’Azeglio (1867) allo Zibaldone di Leopardi e perché no Le ultime lettere di Foscolo per fermarci agli Italiani. Tuttavia questi ricordi sono specificati come fiori e in tale categoria rientrano nel genere della poesia, il celebre Fior da fiore di Pascoli, antologia poetica che mi ha ispirato quella raccolta di poesie, recitata da Laura Ephrikian.
Tuttavia il ricordo non semplice e puro. E qui possiamo tornare alla formula del romanzo: c’è un protagonista che va a Roma e si accompagna con una coppia sui generis, quei compagni di viaggio che tutti abbiamo sperimentato, anche oggi nelle eterne soste negli aeroporti. Qui la convivenza è più lunga, come erano interminabili le remote (e peggiori oggi) trasferte in treno. Ecco su questo esile contatto con le idiosincrasie di due coniugi che segnano con la loro invenzione il viaggio, c’è l’autore. Negli miei ultimi scritti e nell’altro in fieri io ho detto chiaramente Carmelo senza infingimenti.
L’autore narratore è coinvolto, vittima involontaria dei loro scontri familiari, talvolta infastidito dalle loro misere beghe. Questa la semplice linea narrativa, lo scheletro sul quale si tenta di tenere i piedi per terra, di fingere un vero itinerario di ritorno e fuga.
Ciò mi conduce a scoprire le carte sulla esperienza meta-letteraria di Gigi, così lo chiamavamo. Nelle provocazioni dell’intervistatore ha voluto chiarire l’iter di questa estrinsecazione interiore dopo le anteriori confessioni con la voce di altri, fosse Euripide, Kafka o Shakespeare, sempre sue anime.
Ma qui di altro si tratta. L’espediente di incipit mancati, di coiti interrotti, mirava a lasciare libero sfogo alla memoria senza dovere collegare allucinazioni, scintille di memoria, correzioni e ripensamenti. Al di là del frammento memorialistico che tutto può dire all’infinito è il processo iniziale della nostra narrativa come “romanzo aperto”, storia antichissima che risale in Italia a Boccaccio e in Inghilterra a Geoffrey Chaucer e ai suoi I racconti di Canterbury. È il caso tipico, perché questi incipit potevano continuare all’infinito. L’autore ha voluto chiuderli in una tappa finale, la casa romana, ma dentro quelle tappe, frequenti in Sicilia, più sporadiche dopo il passaggio dello stretto a trovare in un interludio comico l’aria del continente, i tentativi di cominciare potevano essere inseriti all’infinito.
E torniamo ai fiori del ricordo. Mi dà l’immagine del lettino della terapia psicoanalista, il transfert di numerosi anni praticato dagli americani fino a qualche anno fa e ideologizzato da Woody Allen.
C’è stato un periodo della nostra storia letteraria, a cominciare dall’Ulysses di James Joyce, in cui si impose anche da noi la religione di Freud. Mi ricordo il grande stupore di Il male oscuro di Giuseppe Berto del 1964. Era un’analisi letteraria non camuffata, ma in effetti in ogni opera l’autore scarica le sue tensioni, opera un transfert, almeno in questo caso senza vittime, si libera da tutte le sue deviazioni e pazzie, dalle contratture e dalle tensioni, recupera la sua identità.
E infine per non tediare troppo ed allontanare dal libro gli entusiasti lettori, l’altro grandioso scoperta della narrativa moderna, il flusso di memoria, quell’ininterrotto fluire di pensieri che nella realtà della nostra esistenza si accavallano, si intrecciano, perdono il filo per ingrossarsi come una piena che ci sconvolge, le scintille che senza interruzione per decine e decine di anni esplodono nel nostro cervello e attivano le sinapsi, per tutti gli anni, nella veglia diurna e nei sogni notturni.
Solo per dare un’idea del libro, fedele ai limiti odierni della cosiddetta “attenzione”, ignota ai tempi nostalgici di Gigi, quando si occupavano su un tema le due ore consecutive.
Un’ultimissima mia riflessione sulla scrittura. In genere gli pseudo-letterati riciclati si sfiniscono nelle lodi della scrittura, nella morfologia e sintassi, nella bellezza della parola, forma ed ortografia. Ma la parola è parola e phoné, suono significante, idea espressa in fonema convenzionale. Ma anche armonia e ritmo, senza giungere alla prosa ritmata del Decameron. Piuttosto vorrei sottolineare quella magia della pagina bianca e quel periodo scolpito con lo scalpello al centro. Mi ricordano nella loro lapidarietà, incisa su marmo, il distico dell’epigramma greco che diceva tutto in un esametro e un pentametro, anche se talvolta non bastava, come nel sonetto caudato e nell’ottava di Ariosto. Riflessioni fulminanti, mai strabilianti aforismi alla Flaiano. L’attore ha una profonda intima frequentazione della lingua, del fonema, come ha dimostrato Gigi nelle sue letture intense, piene di pathos, suggerite, ma anche necessarie per dare altra testimonianza della verve e della grandezza dell’autore.
Per un saggio completo ad un ipotetico futuro.