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October 16, 2018
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Quei figli di immigrati italiani costretti a vivere “sottovoce”

"Chiamami sottovoce" è un romanzo di Nicoletta Bortolotti, che parla di storie, difficili, di italiani all'estero

Claudio MoschinbyClaudio Moschin
Quei figli di immigrati italiani costretti a vivere “sottovoce”

L'autrice, Nicoletta Bortolotti, legge il suo libro "Chiamami sottovoce".

Time: 4 mins read

Negli anni Sessanta e Settanta i lavoratori italiani costituivano di gran lunga la maggiore comunità di immigrati, regolari o irregolari, in Svizzera. Succedeva spesso che questi lavoratori stagionali, operai soprattutto, non fossero disposti a separarsi dalla famiglia anche se la legge svizzera vietava tutti i ricongiungimenti. Allora gli uomini aggiravano le regole assumendo le mogli come domestiche e portavano poi illegalmente nel Paese elvetico i figli, magari nascosti nel bagagliaio dell’auto. Le cifre raccontano di almeno 20 mila bambini italiani che vissero, per anni, nascosti in cantine e soffitte, nelle periferie delle città industriali svizzere, attenti a non farsi vedere dagli abitanti del luogo, senza la possibilità di giocare all’aria aperta, senza poter andare a scuola.

A queste storie italiane all’estero è dedicato il romanzo Chiamami sottovoce, che la scrittrice milanese ma di origini svizzere Nicoletta Bortolotti ha da poco pubblicato per HarperCollins. Tutto inizia con la piccola Nicole che nel 1976 scopre che nella casa accanto alla sua, tra i boschi di Airolo, ai piedi del San Gottardo, vive Michele, un “bambino proibito”, un bambino che in Svizzera non ci può stare. Michele ha superato la frontiera nascosto nel bagagliaio di un’auto e ora vive in una soffitta, solo, con la paura e qualche matita per disegnare arcobaleni sul muro. Le regole dei suoi genitori sono chiare: «Non devi ridere, non devi piangere, non devi mai fare rumore». Ma i bambini non temono i divieti degli adulti e Nicole e Michele stringono un’amicizia fatta di passeggiate furtive nel bosco. Fino a quando una macchina si ferma davanti alla casa dov’è nascosto Michele e le tracce di quel bambino si perdono.

Quanto c’è di autobiografico nel romanzo?
“Il nome della protagonista, Nicole, sembra alludere a un alter ego; in realtà lei da adulta conduce una vita molto diversa dalla mia. Ma è innegabile che nel libro ci sia molto della storia della mia famiglia e della nostra casa, dove ancora passo le mie estati. Sono svizzera eppure la storia drammatica dei bambini nascosti l’ho scoperta solo dieci anni fa. Com’è stato possibile che nemmeno i miei genitori non me ne avessero mai parlato? Mi sono sentita toccata sul vivo e ho iniziato a fare ricerche, partendo da un libro di Marina Frigerio, che è stata la prima a raccogliere le storie di questi bambini. Proprio per il mio legame con i luoghi, ho scelto di ambientare la storia ad Ariolo, nel contesto della costruzione della galleria del San Gottardo, dove lavorarono moltissimi stagionali italiani, anche se la maggior parte dei bambini clandestini furono nascosti nella Svizzera francese e in quella tedesca”.

A chi si è ispirata per la figura di Delia, la donna che nasconde Michele in soffitta?
“Delia ricorda molto mia nonna. Il suo personaggio serve per capire la doppia anima della Svizzera: da una parte quella della politica dei respingimenti, dall’altra quella generosa di chi aiuta, che accoglie di straforo, negli anni Settanta come durante la guerra. Mia nonna si salvò dai nazisti proprio riparando in Svizzera e i suoi racconti sulle grandi figure degli esuli antifascisti mi hanno accompagnata lungo tutta la stesura del romanzo”.

Nicoletta Bortolotti.

Qualche suo lettore le ha raccontato la propria esperienza di bambino nascosto?
“Quando sui social network diedi notizia che stavo per scrivere un libro che affrontava il tema dei bambini italiani clandestini, una donna mi ha contattata per raccontarmi la sua esperienza di bambina che dal Nord-Est italiano, seguendo i genitori in Svizzera, venne tenuta nascosta proprio ad Airolo, sviluppando un legame molto forte per la “seconda mamma” che l’allevò. Ma di storie così ne ho incontrate tante. Devo aggiungere che molti che hanno letto il mio libro non sapevano nulla di queste vicende e sono rimasti colpiti da quanto racconto. Altri che già avevano saputo o letto di questi fatti hanno trovato la storia molto reale”.

Perché gli italiani secondo lei ora mostrano un po’ ostili verso chi arriva in cerca di una vita migliore?
“È come se gli italiani stessero vivendo una rimozione: le persone che sbarcano sulle nostre coste ci ricordano chi siamo stati e molti non sono pronti ad affrontare il peso della memoria. C’è anche una questione “lessicale”. Noi eravamo emigranti e loro invece sono migranti. In questa differenza di linguaggio si nasconde il desiderio di trovare una distanza tra noi e loro. Vi è una narrazione romantica sull’emigrante italiano, che partiva con la sua valigia di cartone e il suo bagaglio di storie e di speranze. I migranti di oggi, invece, sono percepiti quasi fossero uno stormo indistinto, senza volti, senza storie individuali. Preferiamo pensarli clandestini, illegali, dunque diversi dal racconto che facciamo di noi stessi e del nostro passato di espatriati. In realtà, anche gli italiani entrarono illegalmente in Svizzera. Come il Michele del mio libro”.

La Svizzera è sempre stata vista come rifugio, come salvezza…
“Nella prima metà del Novecento la Svizzera vide moltissimi clandestini italiani. C’era chi fuggiva dalla legge, chi dalle persecuzioni, come i dissidenti politici e gli ebrei. Da tempo c’è una polemica in Svizzera proprio sul ruolo che il Paese ebbe nell’accoglienza dei profughi durante la Seconda guerra mondiale. Non ne accolse abbastanza perché anche allora c’erano leggi che ne limitavano l’ingresso. Quando la Svizzera respingeva, lo faceva con le stesse motivazioni con cui oggi si respingono i migranti che attraversano il Mediterraneo. Ed esattamente come allora, quando i contrabbandieri accompagnavano i profughi ebrei illegalmente attraverso il confine, c’è chi sfrutta la fiducia dei disperati per guadagnarci e chi sfida la legge in nome dell’umanità”.

Lei ha scritto anche altri romanzi, uno dedicato a Oskar Schindler, e un altro, “Sulle onde della libertà”, che racconta l’amicizia sportiva fra un ragazzino israeliano e uno palestinese
“Si, i protagonisti del mio romanzo sono Mahmud, palestinese, che vive a Gaza City, città colpita ogni giorno dai bombardamenti, e Samir, un israeliano. Entrambi amano e praticano il surf. Hanno insomma gli stessi sogni e aspettano tutti e due la stessa onda perfetta da cavalcare. E non importa se quell’onda che aspettano sarà israeliana o palestinese.  Una storia, questa, che un regista e produttore a Los Angeles hanno letto e che ora vorrebbero trasformare in un film”.

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