Incontro Emanuela Canepa nel tardo pomeriggio di un torrido giorno di inizio giugno; è in una nota libreria di Padova per la presentazione del suo romanzo d’esordio, L’animale femmina. Non posso trattenermi, complice una tosse persistente che rischierebbe di diventare il sottofondo dell’incontro, così le stringo la mano, mi presento e poco dopo mi congedo. Ma Emanuela, gentilissima, mi concede comunque una bella intervista via email. Il suo libro mi è piaciuto, così come la sua prosa lieve, l’abilità nel tratteggiare il carattere sfaccettato della protagonista, l’elegante sfondo di una Padova stanca e fiera. In sintesi? Rosita si è trasferita in Veneto per sfuggire a una madre oppressiva, ma la vita non le sorride. Lavora in un supermercato e ha un amante sposato che le concede poco. Un giorno però, per caso, conosce un enigmatico avvocato che le offre una possibilità. Ecco la nostra chiacchierata virtuale.
Emanuela, L’animale femmina è il tuo primo romanzo, pubblicato per Einaudi: dopo aver vinto il Premio Calvino sta scalando le vette delle classifiche. Da padovana non posso non essere orgogliosa, anche se tu come me lo sei soltanto di adozione. Come hai scoperto che scrivere poteva diventare una professione a tempo pieno?
“Definirla una professione a tempo pieno è un atto di un ottimismo quasi visionario. Negli ultimi mesi ho conosciuto diversi scrittori. Nessuno di loro riesce a vivere solo di questo, nemmeno quelli ben più rispettabili di me. Il tempo che puoi dedicare alla scrittura per definizione non è mai pieno ma sempre parziale, monco, precario e occasionale. Però non ci sono alternative, e lo considero comunque un privilegio. Da questo punto di vista, per rispondere alla tua domanda, le cose non sono molto cambiate dopo la vittoria del premio Calvino. Cerco di scrivere ogni volta che posso nei ritagli di tempo, esattamente come facevo prima. Certo, adesso è diversa l’accoglienza, e ho un editor professionista splendida e molto disponibile. Un bel vantaggio”.
Come è nato L’animale femmina? È il frutto di anni di labor limae o si è sviluppato rapidamente? Parlaci delle tappe che hanno portato alla pubblicazione del romanzo.
“La prima bozza è uscita a conclusione della frequenza di una scuola di scrittura, la Palomar di Rovigo, diretta da Mattia Signorini. Ma era una versione molto diversa da quella attuale. L’ho fatta leggere a qualcuno di cui mi fidavo, ho ascoltato cosa avevano da dire, ci ho rimesso mano da cima a fondo altre due o tre volte, e solo un anno dopo mi sono azzardata a spedirla al Calvino”.
A Rovigo appunto hai frequentato la Palomar: quanto ti ha aiutata nel processo di stesura del romanzo? Consiglieresti questi corsi a un giovane scrittore che sogna in grande?
“Le scuole di scrittura sono tante e tutte diverse. Non esiste una risposta univoca a questa domanda, che oltretutto implica anche la valutazione delle inclinazioni naturali dell’allievo e le interazioni con un gruppo, che possono essere proficue o nefaste. In linea di principio però nell’energia dei gruppi credo molto, a volte anche solo quella è in grado di innescare un processo di combustione interna che produce frutto. A me questa esperienza ha fatto molto bene”.
A bruciapelo: scrittori si nasce o si diventa?
“Credo che esistano entrambe le tipologie, in rapporto uno a cento, più o meno. In natura quelli che nascono scrittori – oltre a fare felici i lettori – hanno un ruolo soprattutto in prospettiva di darwinismo narrativo: servono a testare la determinazione degli scrittori che invece devono sudare per diventarlo. Se riesci a sopportare la frustrazione immensa che ti causa sapere che c’è qualcuno al mondo che lavorando tre ore al giorno per una settimana produce perle che a te non verranno fuori nemmeno nel doppio del tempo per un anno, allora forse qualcosa di buono puoi riuscire a farlo anche tu. Con molta pazienza. Sono sempre stata della scuola di Gordon Lish, il celebre editor americano: ‘I see the notion of talent as quite irrelevant. I see instead perseverance, application, industry, assiduity, will, will, will, desire, desire, desire’”.
Sei bibliotecaria. Si dice con un po’ di cattiveria che in Italia tutti scrivono e pochi leggono: che ne pensi?
“Non ci vedo cattiveria, sono affermazioni abbastanza oggettive. Se confronti il numero medio di manoscritti che arriva sul tavolo di chiunque si occupi di editoria, a qualsiasi titolo, e lo incroci con le statistiche di lettura, il risultato piuttosto deprimente non è un’opinione, è un dato di fatto”.

Manhattan, nel 2010 (Photo by Wolf Gang)
Spostiamoci negli States: la morte di Philip Roth, inaspettata nonostante la sua età avanzata, ha colto tutti noi di sorpresa. Io sono membro della Philip Roth Society da anni e ho vissuto il lutto quasi come una di famiglia. Cos’amavi dei suoi personaggi? E quale romanzo suggeriresti a un lettore italiano che volesse affrontare Roth per la prima volta?
“Ho un tale rispetto per Philip Roth che mi sento indegna di lui perfino come lettrice. Però una cosa mi consola: non ho letto ancora tutto, quindi in un certo senso non è morto, sebbene anche per me, come nel tuo caso, la notizia sia stata pesantissima. L’unica perdita che mi ha colpito nello stesso modo, trent’anni fa, è stata quella di Marguerite Yourcenar. Mi affascina il peso specifico della scrittura di Roth, la sua densità di narratore, la familiarità oscena con il male del mondo. Ho finito Pastorale americana in ginocchio, non avevo più la forza di tenerlo in mano. Tutto sommato mi stupisce che sia riuscito a vivere fino a ottant’anni con quel peso sulle spalle. Doveva essere un lottatore”.
Oltre ad avere il dono della scrittura sei una donna molto bella, come chiunque ti incontri di persona può constatare. L’avvenenza fisica rema contro alle donne che vogliono un posto nel mondo? Io da giornalista sportiva ricevevo avance pesantissime e mortificanti ogni giorno. Gli uomini certo non corrono questi rischi, o in misura minore.
“Faccio molta fatica a riconoscermi nella tua definizione, anche se detesto la dissimulazione e le moine. La meraviglia di avere cinquant’anni comunque sta anche in questo. La dimensione oggettiva della bellezza ce l’hai alle spalle ed è una cosa che non tornerà. A questo punto ci può essere bellezza solo se riesci a coincidere con quello che sei e a stare bene nel tuo corpo, qualunque sia. Gli stereotipi continueranno a condizionarti, non si zittiranno mai. Ogni volta che incapperai in uno specchio una parte di te lavorerà per somme e sottrazioni, elencando tutto quello che c’è oppure che manca. Ma per fortuna la vita non la passiamo di fronte a uno specchio. Basta lasciarselo alle spalle e concentrarsi sul senso del tuo confine, sulla grazia dello spazio che occupi nel mondo, e la bellezza può diventare un’idea di te continuamente mutevole che contribuisci a creare in ogni momento. E per quel che riguarda il nostro posto nel mondo, non ho la sensazione che la polarità si articoli intorno alla bellezza. Piuttosto all’intelligenza. Le donne intelligenti, belle o brutte che siano, trovano il modo di aprirsi una strada”.
Quale romanzo ha segnato la tua vita? E quale tramanderesti alle nuove generazioni se potessi salvarne uno soltanto?
“Oddio, non posso farcela… Non riesco ad assumermi la responsabilità di sceglierne uno solo ed eliminare il resto, sia pure solo come gioco letterario. Posso rispondere alla prima parte della tua domanda però, perché indicare un romanzo che ha segnato la mia vita non implica che ce ne sia stato solo uno. Scelgo il primo in ordine di tempo, avrò avuto quattordici anni o giù di lì: Cime tempestose. Da allora quel paesaggio, quel clima, quel senso desolato di egoismo feroce e di tempesta, li porto dentro come corollari irrinunciabili dell’amore. Credo sia stato un vero imprinting”.
Rosita Mulè, la protagonista dell’Animale femmina, è un’eroina?
“Dipende dalla definizione che vogliamo dare al termine. Se per eroe intendiamo qualcuno che assume di sé la determinazione a scoprire la sua vera natura, di qualsiasi cosa si tratti, allora forse lo è. O almeno ci prova, con onestà”.

Chiudiamo in bellezza: c’è uno scrittore o una scrittrice, di oggi o del passato, italiano o straniero, che ritieni il più grande di sempre? Difficile scegliere, lo so, e poi è soggettivo. Ma mi interessa conoscere il tuo preferito.
“Qui valgono le stesse remore di prima. Posso solo fare una selezione di opportunità, perché è una scrittrice su cui sto molto meditando in questo periodo, però se me lo chiedi di nuovo l’anno prossimo o fra sei mesi è molto probabile che ti dia una risposta diversa. Per ora è Elizabeth Strout. Amy e Isabelle è il paradigma perfetto di un’educazione sentimentale distruttiva. La scena centrale – non dico altro, non voglio rovinarla per chi non l’avesse ancora letto – descrive un evento che preso isolatamente e decontestualizzato risulterebbe poco più che fastidioso. Nelle spire del rapporto malato fra Amy e Isabelle diventa una violenza da mattatoio. Ci vuole un talento esorbitante per trasfigurare la quotidianità in questo modo”.