Nelle ultime settimane il panorama editoriale italiano è percorso da refoli di aria molto fresca, fresca come possono esserlo i diciotto anni di Rocco Civitarese, autore di un romanzo dal titolo enigmatico, Giaguari invisibili, pubblicato dall’editore Feltrinelli.
Ambientato a Pavia, città universitaria per eccellenza, il libro segue però le vicende di un gruppo di adolescenti all’ultimo anno di liceo, quel momento della vita che è una vera propria cerniera tra il vastissimo regno in cui possiamo credere di avere pressoché infinite possibilità di scelta (infanzia e adolescenza) e la definizione di una identità che è al contempo riconoscimento della propria natura e costruzione attraverso lo studio e il lavoro. Sulla soglia dell’età adulta, il futuro magnificamente davanti a sé. Ma si tratta di prendere decisioni importanti, che avranno un peso determinante.
La narrazione si dipana a ritroso dalla bocciatura al test di Medicina a Pavia (terribile spauracchio per migliaia di ragazzi) di Pietro Mazzoccone, il protagonista primus inter pares di un libro armoniosamente corale, con un flashback che ci riporta indietro di un anno, per poi ritornare all’oggi. Pietro che vuole fare Medicina ed è sopraffatto dall’innamoramento per Anna Pettirosso; Giustino che sogna di diventare fumettista ed è certo del suo amore per Laura; Davide, cestista che anela a diventare professionista ma che è terribilmente deviato dalle impennate ormonali per la scatenata Lucilla: questi i personaggi principali, a cui si uniscono altre presenze. Ogni capitoletto è dedicato a uno di loro: Civitarese dà voce singolarmente al punto di vista di un personaggio alla volta, entrando nell’intimo anche grazie all’efficace espediente di una “vocina” interiore (in corsivo tra parentesi) che rende molto bene il dibattito interno di pensieri e sentimenti.
L’autore ha molte cose in comune con i suoi personaggi: l’età, l’ultimo anno di liceo classico (tra poche settimane la maturità), come Pietro vive a Pavia ma è di origini abruzzesi. A differenza di Pietro, Rocco però ha già passato il test di Medicina.
Ci incontriamo in un locale storico di Pavia, il giorno dopo la scomparsa di Philip Roth, immenso scrittore che quando ci siamo conosciuti, una settimana prima, abbiamo scoperto essere caro a entrambi. Il Grande Vecchio della letteratura mondiale appena scomparso e il ragazzo di diciotto anni che ha pubblicato un libro scritto a diciassette. La letteratura attraverso le generazioni. Il benedetto impulso alla scrittura che rinasce, si rinnova a ogni generazione.
Forse sarai già stanco di sentire parlare della tua età, ma è impossibile ignorarla: avere un romanzo pubblicato da un grande editore a 18 anni è un evento. In questo momento ti trovi in una condizione molto particolare, unica: in quanto autore, all’improvviso sei trattato da adulto, ma al contempo continui ad avere pienamente la tua vita da liceale. Come ti trovi in questa terra di mezzo o con questa sorta di doppio status?
“In realtà, ultimamente mi sento in piena regressione, nel senso che sento molto il clima da fine liceo, prima della maturità. È un periodo davvero molto bello con gli amici, ci divertiamo tanto, ci lasciamo andare. Certo, ho fatto molti progressi come persona. Ad esempio, pensando a me stesso quando faccio le presentazioni del romanzo. Solo un paio d’anni fa non sarei stato in grado di affrontare e gestire tutto questo…”.
Due anni fa avevi solo 16 anni…! In questa fase della vita un singolo anno è carico di cambiamenti, ne vale dieci.
“Sì, vero, anche un solo anno a questa età significa molto. Lo vedo anche con mio fratello minore, che ha solo un anno meno di me”.
Tuo fratello come vive la tua nuova “condizione”, la tua notorietà?
“Benissimo. Mi è molto vicino. È un lettore molto attento che mi dà pareri e consigli utilissimi. I miei primi lettori sono i miei genitori (mio papà è uno psichiatra e psicanalista, mia mamma una professoressa di Lettere: sono nato in una casa piena di libri), poi mio fratello e la mia agente Benedetta Centovalli. Sono molto fortunato”.
I protagonisti del tuo romanzo sono ragazzi che hanno sogni e fanno progetti per la loro vita. In questo caso l’autore e i personaggi sono coetanei. È senz’altro un romanzo “di formazione”, nel senso tradizionale (un cosiddetto Bildungsroman). Per alcuni è anche un “romanzo generazionale”: tu cosa ne pensi, ti senti di rappresentare la tua generazione?
“Direi che è un romanzo di formazione anche per il senso di incompletezza. Con un taglio onirico, a cui tengo molto. Un entrare e uscire dal sogno, che in alcuni momenti è particolarmente forte: mi riferisco soprattutto alla scena clou della festa, nel finale. Per quanto riguarda il romanzo generazionale, non mi sento di dire che rappresento un’intera generazione… Lavoro su dati reali ma presi da un bacino ristretto: ovvero le persone che conosco. Sono ragazzi studenti di liceo, classico e scientifico: non è uno spaccato di tutta la gioventù”.
Cosa c’è di rappresentativo, di generale, almeno di quel bacino specifico, di quel gruppo?
“Penso che l’aspetto generale del libro riguardi le emozioni, comuni a tutte le generazioni”.
A che cosa tieni di più di Giaguari invisibili?
“Al senso del ritmo. Alla scrittura vivace, veloce. E ai miei personaggi, che sono teneri e frizzanti allo stesso tempo”.
Parliamo dell’origine della tua scrittura, così precoce: quando e come hai cominciato? Da cosa è stato dato l’impulso originario?
“È iniziato tutto dalla lettura dei racconti di Fango di Ammaniti, a quindici anni. Era Natale e pensavo ai mesi di scuola davanti a me, pesanti, incombenti. Ho sentito il bisogno di trovare qualcosa di diverso da fare, che mi desse soddisfazione. Ho sentito l’impulso di scrivere. Non volevo essere la copia di qualcun altro, avevo bisogno di essere originale”.
Vuoi dire che in un certo senso hai iniziato a scrivere per noia?
“Sì, è proprio così: per vincere la noia. E ho visto che avevo facilità di scrittura e in un certo senso la voglia di farcela alla prima bozza (in realtà poi segue sempre un lavoro intenso di revisione e labor limae)”.
Quali autori sono i tuoi punti di riferimento in letteratura?
“Come accennavo, senz’altro Niccolò Ammaniti: il suo libro che preferisco in assoluto è Ti prendo e ti porto via; John Fante, non solo per l’abruzzesità, e Philiph Roth”.
Il lamento di Portnoy?
“Il lamento di Portnoy ma non solo. All’inizio provavo come un senso di fastidio, ma avvertivo una grande potenza. Ho imparato molto dalla lettura di Indignazione, La macchia umana, Pastorale americana: come si scrivono i dialoghi, la necessità di documentarsi per dare credibilità, le regole per la costruzione dei personaggi”.
Ammaniti l’hai conosciuto? Ha letto il tuo libro?
“Gli ho mandato il libro, non so se l’abbia letto… È sicuramente molto preso con la sua nuova serie TV. A me piacerebbe molto conoscerlo”.
Tu e Ammaniti avete diverse cose in comune: tra l’altro, un padre psichiatra e psicanalista. Anche tu potresti scrivere un libro a quattro mani con tuo papà…
“Ci abbiamo pensato in effetti. Ci piacerebbe scrivere insieme un libro sull’adolescenza”.
Cosa hai scritto prima dei Giaguari?
“I miei testi possono essere grosso modo divisi in due categorie: Giaguari invisibili e altri romanzi lunghi, abitati da un manipolo di personaggi; e i racconti brevi, animati da uno o pochi personaggi che definirei “d’occasione”, nel senso che il loro sviluppo narrativo è implicitamente tutto contenuto nella vicenda da cui hanno origine. Io preferisco i romanzi lunghi, di cui io stesso non conosco il finale, che mi danno più libertà, tanto spazio di movimento con i personaggi. Uno scrittore non è sempre consapevole del punto a cui arriverà: io faccio a volte delle “mappe”, però oltre un certo limite tolgono il gusto della sorpresa, che invece io non voglio perdere. “I libri scritti prima di Giaguari invisibili e non pubblicati sono sette o otto… Miele, inviato al Premio Calvino, ha avuto una menzione, tre anni fa; due racconti, di cui uno è andato al premio Campiello giovani; due romanzi diciamo generazionali, scritti sotto l’influsso della lettura del Lamento di Portnoy…”.
In Giaguari invisibili una caratteristica fondamentale è proprio la coralità, la tessitura narrativa a cui contribuiscono le tante voci dei personaggi, che si confrontano, rispondono, contraddicono e completano a vicenda. Ma c’è un personaggio a cui ti senti più vicino? Il protagonista Pietro?
“I personaggi li sento un po’ tutti come miei: i ragazzi certo, ma anche le ragazze. Poi ci sono più spunti autobiografici in Pietro che negli altri, a partire dalle origini abruzzesi. Ma senza essere un grande giocatore di basket e un fumettista come Davide e Giustino, sono un appassionato di basket e di disegno, per esempio. Mentre scrivevo, ho fatto l’attore, li ho interpretati tutti, mi sono immedesimato. Ho usato la lettura a voce alta, anche facendo le “vocine” di ciascuno di loro”.
Uno scrittore burattinaio?
“Vero, si può dire così”.
Nel romanzo alcuni temi costituiscono una sorta di ossatura portante: l’amicizia, la scoperta del sesso, la famiglia, i sogni. E nel finale, l’irruzione della violenza.
“L’amicizia è tema fondamentale, ma sempre in discussione: non c’è mai tranquillità, c’è anzi una leggera tensione continua tra Pietro, Davide e Giustino. D’altra parte, anche nei casi migliori l’amicizia comporta un approfondimento del rapporto attraverso canali diversi: da un lato il divertirsi insieme, dall’altro la conoscenza reciproca, che inevitabilmente causa anche gelosie e invidie. Il sesso non poteva non essere presente, perché tra ragazzi è sempre “in ballo”. E non ho mai sentito l’istinto di censurarmi. Per quanto riguarda le due scene di violenza alla festa, sul finale del libro (un’aggressione tra amici e una violenza sessuale su una ragazzina, n.d.a.), avvengono al culmine di un lungo crescendo e la prima in particolare è molto onirica”.
Nell’ultima parte del libro, particolarmente visionaria, entra prepotentemente una presenza possente e avvincente: il fiume. Il Ticino come vero e proprio personaggio. Gli adulti, invece, in tutto il libro restano sullo sfondo, sono assenti.
“Gli adulti sono assenti sostanzialmente perché scrivo di ciò che conosco meglio. E non sono al momento in grado di far funzionare adeguatamente personaggi adulti”.
Come i tuoi giaguari, tra poche settimane darai l’esame di maturità. Come vedi il tuo futuro? Quali progetti hai?
“Nella scrittura, mi piacerebbe fare una sorta di salto in avanti, per quanto riguarda la complessità della trama. Continuo a scrivere, per divertimento e per “tenermi in caldo”. Ho tre libri in cantiere ma sarà il quarto ad essere pubblicato (spero): un libro in cui ritorno alla coralità, la cosa che mi diverte di più. Gli altri tre sono un racconto di cui è protagonista un ragazzino di 13 anni che fa un fuoripista sugli sci; il secondo è quello che io chiamo libro-carcassa, perché l’ho saccheggiato per riversarne diverse parti in Giaguari invisibili (terribile inserire delle scene: è stato molto difficile, un lavoro complicato di bulloni); un testo, infine, di cui sono protagonisti solo un ragazzo e una ragazza. Scrittura a parte, voglio iscrivermi a Medicina”.
E continui a suonare il pianoforte. Che repertorio ami?
“Ultimamente sono passato a un repertorio più moderno rispetto agli anni scorsi. Mi piace molto suonare Morricone”.
Il titolo del romanzo è molto accattivante: com’è nato?
“È tratto da una poesia di Wisława Szymborska, Concorso maschile di bellezza. Da un lato, c’è l’aspetto istintuale (i giaguari), una carica aggressiva verso obiettivi e ambizioni, dall’altro la paura di non farcela, di rimanere invisibili”.
Se dovessi dare qualche indicazione a un ragazzo che inizia a scrivere, cosa gli diresti?
“Di leggere tanto e scrivere tanto”.