
Avevo invitato più volte mio papà a venirmi a trovare durante il mio semestre a Cambridge, ma fosse avarizia fosse pigrizia, declinava sempre l’invito. Finché, curiosando come al suo solito per le bancarelle di libri usati, non si è imbattuto in un volume tascabile nel quale, sulla pagina di risguardo, il primitivo proprietario aveva annotato fra virgolette: “Questa vecchia Europa mi annoia, voglio il Nuovo mondo”. Mio papà non è superstizioso, eppure ha colto l’occasione come un presagio. Pochi giorni dopo è sbarcato al JFK: ovviamente aveva portato con sé il libro nel quale si era fortunosamente imbattuto. La citazione ominosa veniva infatti dal cuore del libro in questione, le Memorie di Lorenzo Da Ponte (Cèneda 1749 – New York 1838).
Non si trattava già di una delle edizioni newyorkesi pubblicate in vecchiaia dal Da Ponte (la prima del 1823 è quotata nell’ordine di migliaia di dollari!) ma della più modesta eppure ben curata edizione Garzanti del 1976. Comunque ottima da portarsi in giro per la città e scartabellarla nei passi più amari, quelli che riguardano la scarsa fortuna della lingua italiana nell’America del primo Ottocento. Lorenzo Da Ponte deve indubbiamente la sua celebrità all’essere stato l’autore dei libretti di Mozart; più spesso e banalmente si associa il suo nome all’amicizia con Casanova, ispiratore del Don Giovanni, meno frequentemente lo si ricorda fra gli esponenti del cosmopolitismo italiano destinati – come dice Gramsci – a correr il mondo in cerca di fortuna, ma “in una particolare posizione che viene attribuita all’Italia” giacché essa “è concepita come complementare e produttrice di bellezza e coltura” per tutti i paesi del mondo.
Povero Da Ponte, che visse in New York per trent’anni venendo da Philadelphia nel 1805, e che di quella posizione era pienamente consapevole, portandone carico e traendone alla morte un bilancio fallimentare…
Queste erano le considerazioni che esponeva mio papà per la via, facendo proprie le lamentazioni di cui Lorenzo Da Ponte costella le sue Memorie e che sono le seguenti: la lingua italiana non è considerata una lingua commerciale, a differenza dello Spagnolo e del Francese, e quindi è un lusso o un capriccio studiarla, di conseguenza libri italiani se ne leggono pochi, quei pochi sono i vecchi classici e la produzione contemporanea (ovvero dei secoli XVIII e XIX) è negletta, dell’Italia si loda solo il formaggio parmigiano e i maccheroni.
Si sa che gli anziani sono pessimisti e brontoloni e mio papà ha pressoché gli anni che aveva Da Ponte quando scriveva delle sue delusioni a New York. Ma, a distanza di circa due secoli, mi chiedo io, cosa si riscontra di ancora attuale nella denuncia dell’intellettuale illuminista? Andiamo così a spasso per Manhattan dove, e molto vistosamente, vetrine italiane nel campo della moda e del cibo sono numerose e diffuse. Librerie ce ne sono ovviamente molte di meno e in quelle visitate la presenza di autori italiani è irrisoria, con l’eccezione di Dante, ma solo per l’Inferno. La Rizzoli – storica e prestigiosa vetrina italiana- mostra invero al suo interno uno scaffale di edizioni italiane correnti; i gentilissimi commessi, interpellati però su quali autori italiani siano lì in vendita in inglese, dopo una perplessa ricerca hanno dichiarato: nessuno. Quasi per scusarsi ci hanno accompagnato a un tavolo ove erano in mostra monografie di arte italiana del Rinascimento, di autori però non italiani.
La Rizzoli non è certo una libreria che soffra di provincialismo; durante la nostra visita, vi si stava presentando un autore messicano: il che è lodevole. A New York sta avendo successo una mostra dedicata alla figura di Alberto Savinio “pressochè sconosciuto in America” finalmente non più solo il fratello di De Chirico, e pur tuttavia presentato per l’arte figurativa e non anche annoverato fra gli scrittori più stupefacenti del Novecento italiano. Ma è pur sempre una consolazione vedere che si offre al pubblico newyorkese un artista italiano moderno: nelle strabilianti collezioni degli Harvard Art Museums, l’unico pezzo di un italiano posteriore al Canaletto ( XVIII sec.) è una testa scolpita di Modigliani…
Abbiamo visitato anche alcune biblioteche di quartiere, poichè è da quelle che si avverte il polso della situazione; è un piccolo test che avevamo fatto anche quasi vent’anni fa in California e il riscontro è analogo: al massimo Calvino o Umberto Eco; Pinocchio è un personaggio della Disney.
Eppure altri autori non anglofoni sono presenti in modo significativo; talvolta riflettono- e giustamente- la consistenza etnica del quartiere: autori russi a Coney Island o iberici al Bronx, ma tradotti in inglese.
Forse che la lingua italiana si fermò a quella artificiosa dell’opera lirica, dato che il Da Ponte fondò il Teatro Italiano a New York perchè vi si cantasse Rossini, Bellini e Mercadante? Fu certo iniziativa meritoria e, per gli impresari teatrali, anche remunerativa. Ma per la fortuna della nostra lingua? Da Ponte fu anche colui che ottenne l’istituzione di una cattedra di italianistica al Columbia College: che vi si studiasse Cesare Beccaria, non che si declamasse l’indigesto Carmagnola manzoniano!
Nel 1834 a New York Deaborn stampava la prima traduzione americana de I Promessi Sposi. Probabilmente Da Ponte non se ne accorse, e per altro, povero lui, vendeva solo libri italiani in Italiano. Se ne accorse però Edgar A.Poe, che conosceva di fama il Da Ponte e pare non ne avesse una buona opinione. Fu tanto colpito dalla lettura di Manzoni romanziere da trarne materia per il racconto King Pest.
Sarebbe stata forse questa la miglior lezione (e consolazione) per il vecchio librettista: le buone traduzioni di buoni testi sono il miglior veicolo per l’amore verso la lingua originale del testo. Dunque una maggiore sollecitudine presso gli editori americani affinché arricchiscano i loro cataloghi con autori italiani. L’ombra rancorosa di Lorenzo Da Ponte, compagna di tanti dubbi nelle escursioni per la città, troverebbe forse così un po’ di pace.
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