Enzo Mari (1932-2020), il poeta del design, ha saputo vedere la giustizia e la verità negli oggetti come fenomenologia del loro processo di creazione. Tutto il mondo sa già da qualche giorno che Mari ci ha lasciati.

La prima cosa che mi è venuta in mente appena ho appreso la notizia della sua morte, è stata mia madre, un architetto milanese di una generazione più giovane di Mari e sua allieva spirituale, che collezionava i libri per bambini che lui e la prima moglie creavano. Ho pensato a come li sfogliava con passione, cercando di farmi interagire con forme e colori. Mi è venuto in mente quando sono andata a vivere da sola quando avevo 18 anni e, dato che ero una studentessa squattrinata, cercavo di assemblare mobili Ikea o di hackerare cassette della frutta e vecchie panche per trasformarle in sedie; mia madre mi diceva sempre, ridacchiando: “Dovresti leggere il manuale di Autoprogettazione di Enzo Mari!”.
In casa nostra Enzo Mari faceva parte del sottotesto, di quei riferimenti culturali radicati che ti accompagnano consapevolmente e inconsapevolmente. Forse è per questo che, quando le ho detto che il maestro Mari era morto, ha esclamato: “IL NOSTRO (il nostro) Enzo Mari!”.

Anche la moglie di Enzo Mari, Lea Vergine (1935-2020), curatrice e scrittrice d’arte italiana, è deceduta la notte seguente, per complicazioni legate a COVID a 82 anni. La scomparsa della coppia, avvenuta a poche ore di distanza come se Lea non potesse aspettare di raggiungere il suo amato marito e compagno, ha innescato una reazione di cordoglio e dolore in tutta la comunità intellettuale. “Il grande Maestro”, “la leggenda”, “il ribelle” Enzo Mari e “il non convenzionale”, “il divino”, “la grande intellettuale” Lea Vergine ci hanno lasciato un’eredità enorme, e ora abbiamo la possibilità di onorarla.
In un’intervista per Klatmagazine nel 2014, Enzo Mari parla di sua moglie e della sua idea di amore:
“È da cinquant’anni che litighiamo. Ho avuto una prima moglie, ho avuto delle fidanzate. Ho conosciuto Lea per caso, a Napoli, dopo che aveva chiesto a Giulio Carlo Argan di consigliarle qualcuno che potesse curare la grafica di una rivista. Quindi vado a Napoli, in un albergo, entro verso mezzogiorno, nella grande hall non vedo nessuno. In fondo alla sala vedo un uomo e lei, che allora aveva 26 anni. Ero fermo in piedi come un cretino. Lea era una bella ragazza, ma io ero troppo timido e pensavo in termini vagamente mitologici alle belle ragazze. Per me erano una specie di regalo della divinità che ti arrivava dal cielo. Se Dio pensava che tu te lo meritassi, ti donava questa occasione di incontrare la donna della tua vita. (…) L’amore è un progetto? No, è molto più semplice. Stare in piedi come un cretino, così, in fondo alla sala, con lei lì che mi guarda, fare due o tre passi verso di lei. E lei che fa due o tre passi verso di me. Forse l’amore è fare due o tre passi nella stessa direzione”.

Quando il mondo è venuto a conoscenza della morte di Enzo Mari, Hans Ulrich Obrist e Francesca Giacomelli avevano appena inaugurato una retrospettiva delle opere di Mari alla Triennale di Milano, raccontando oltre 60 anni di attività, attraverso una serie di contributi di artisti e designer internazionali che sono stati invitato a rendere omaggio a Mari con installazioni site-specific e nuovi lavori commissionati, e una serie di videointerviste di Hans Ulrich Obrist che illustrano la comprensione teorica di Mari e le sue straordinarie capacità progettuali con cui ha dato forma all’essenziale.
La sua visione dell’industria del design mostra la sua costante tensione etica, che oscilla tra un forte desiderio di giustizia sociale e un’immagine lucida della storia e della realtà. In queste parole, la sua poetica giustifica le sue scelte e dà un senso preciso al suo corpus personale di opere: “Il design italiano non è stato inventato dai designer di Milano, ma dagli artigiani del sud Italia che hanno poi perso il lavoro a causa dell’urbanizzazione e della diffusione della tecnologia. Gli artigiani producevano oggetti essenziali per i contadini: quegli oggetti non erano design, ma erano il risultato di un lavoro artigianale”.

Mari identifica la nascita della produzione industriale come un evento avvenuto per colmare il bisogno di uguaglianza per le persone libere: “L’industria nasce a metà del Settecento quando in Francia vivevano 28 milioni di persone, che, eliminati i ricchi, erano 27 milioni di poveracci. Quando viene pronunciata per la prima volta la parola égalité, la gente si mette a piangere di felicità e stupore. Ma dopo l’entusiasmo iniziale ecco che cominciano ad avere bisogno di scarpe, mutande e tutto il resto. È qui che si capisce cosa vuole dire veramente uguaglianza, ed è lì, in quel momento, che nasce la produzione industriale. L’oggetto artigianale, che veniva confezionato a Versailles, era semplicemente troppo costoso. (…) L’operaio dovrebbe guadagnare la sua vita in modo diverso, dovrebbe guadagnare una percentuale, anche piccola, sugli incassi della sua industria. Non incasserebbe più lo stipendio, ma dopo quindici anni diventerebbe socio dell’impresa”.
Enzo Mari aveva anche una visione radicale della scuola, un’istituzione in cui le persone “confondono la libertà di espressione con un’anarchia ignorante, come un’orchestra i cui elementi sono casi persi, ma che rifiutano ostinatamente i segnali del regista perché pensano di saperne di più, producendo pura cacofonia, e in cui due o tre di loro sanno davvero quello che fanno e suonano molto bene, ma nessuno li sente”. Il suo giudizio era severo: “Detesto le scuole. Ma soprattutto quelle tecniche: portano a pensare che le discipline umanistiche, che sono la spina dorsale etica di tutto, sono inutili nel mondo di oggi. Eppure la conoscenza che danno in cambio non è nulla che una persona intelligente non possa raccogliere in poche settimane di lavoro (…) la vera conoscenza è un duro lavoro. (…) Le scuole sono un business. Esistono per plasmare le persone, per supportare le esigenze industriali: realizzare cose che soddisfino la massa e durino il meno possibile, in modo che possano essere sostituite. Sostenere questo significa sostenere un pensiero familista, non un pensiero sociale. (…) Dico: insegniamo ai nostri figli a essere artigiani, a padroneggiare di nuovo l’arte del disegno (un’abilità lenta che richiede pensiero), a capire cosa è stato fatto in passato, e perché e come”.

L’esperienza personale di Mari, la sua infanzia nell’Italia del dopoguerra, potrebbe aver influenzato il suo giudizio, in quanto aveva avuto necessità di sviluppare un pensiero creativo sul design per la sua stessa sopravvivenza. Nato nella regione meridionale della Puglia nel 1932, Mari si è trasferito da bambino con la sua famiglia al nord, dove ha lottato per sbarcare il lunario e ha dovuto fare affidamento sulla sua precoce intraprendenza. Credeva che i bambini fossero il nostro genio incontaminato: “Quando nasce un bambino, ha miliardi di neuroni collegati tra loro, e infatti i bambini sono molto intelligenti, ripeto spesso: il Nobel andrebbe dato ai bambini di 2 anni!”.
Quello che possiamo imparare da Enzo Mari è che il design deve essere “un atto di guerra, non un gioco”, una pratica volta a creare strumenti accessibili, utili e democratici. “Il design ormai è solo percepito come forma” diceva, paragonando la fiera leader del settore “Il Salone del Mobile” di Milano a un volgare mercatone, in cui “i designer sono totalmente persi nella folle ricerca che le renderà ricche e famose” da dimenticare la missione principale: creare oggetti utili e significativi per le persone comuni.
Discussion about this post