E’ una delle immagini “turistiche” più conosciute delle Alpi: il campanile che spunta dalle acque del lago di Resia, circondato dalle montagne, in un angolo di Italia che si incunea fra Austria e Svizzera, in cima alla val Venosta. Ma quale storia ci sia sotto, in pochi se lo chiedono, e se lo fanno, probabilmente liquidano la faccenda con un’alzata di spalle: è il prezzo del progresso, e il progresso, in quegli anni, richiedeva energia. Diversi paesaggi naturali ne fecero le spese, quando si trattò di costruire centrali idroelettriche e bacini artificiali, e in qualche caso anche interi paesi, che vennero sommersi. Successe a Curon, in Alto Adige/Südtirol, provincia di confine annessa all’Italia dopo la fine della Prima guerra mondiale e italianizzata a forza dal fascismo. Successe anche da altre parti in Italia, e succede oggi in molte regioni del mondo, ad esempio in Etiopia, dove gli italiani stanno realizzando una serie di dighe sulla valle dell’Omo. Le sofferenze delle popolazioni coinvolte, le cui esistenze sono state (e sono) completamente stravolte, rimangono sullo sfondo. Spesso ignorate, spesso, colpevolmente occultate.
Il romanzo di Marco Balzano Resto qui, appena uscito per Einaudi, ha il grande pregio di sollevare un velo sulla vicenda di Curon Venosta e del lago di Resia, e di farlo non con un libro di storia, ma con la forza della narrazione. Balzano, come tanti altri turisti, un giorno è capitato sulle sponde di quel lago, oggi una meta turistica importante in una terra che ha fatto del turismo una delle sue maggiori fonti di ricchezza. E come tanti – o forse come alcuni – ha letto la targa che qualche anno fa è stata apposta vicino al pontile che si affaccia sul campanile, che ricorda la vicenda dello sgombero del paese annegato sotto alle acque del bacino artificiale inaugurato dalla Montedison nel 1951. Ma non si è fermato lì. Da buon scrittore (nel 2015 ha anche vinto il Campiello) e da buon insegnante di storia (avercene tanti, così) ha iniziato a leggere, a raccogliere testimonianze.

Infine ad intervistare i pochi testimoni rimasti, a volte vincendo la loro diffidenza (“una, la più anziana, temeva fossi una spia fascista”).
Ne è uscito un romanzo asciutto, essenziale, scabro come le montagne dell’Alta Venosta. Un romanzo che non concede nulla a voli pindarici o al facile lirismo, e tuttavia di grande impatto emotivo. Lui, italiano, uomo di pianura – vive a Milano, le origini familiari sono pugliesi – ha dato voce ad una donna di montagna, una donna di madrelingua tedesca, Trina.
Trina avrebbe voluto fare l’insegnante, ma il fascismo gliel’ha impedito, chiudendo le scuole tedesche e sostituendone gli insegnanti sudtirolesi con altri fatti venire dall’Italia. Così, alla fine, è diventata un’insegnante delle Katakombenschulen, come i sudtirolesi ribattezzarono le scuole clandestine aperte nei masi, nei fienili, nelle cantine, per trasmettere ai figli la conoscenza della lingua madre. Ma la guerra incombe, e con essa l’accordo fra Hitler e Mussolini, le cosiddette “Opzioni”. Ai sudtirolesi che accettano di lasciare la loro terra – la loro Heimat – Hitler ha promesso nuove case, nuove terre, nuovi agi. Mussolini ne è felice: in questo modo il suo disegno di pulizia etnica dell’Alto Adige potrà realizzarsi più facilmente.
Qualcuno decide di partire. Altri, i Dableiber, di restare. Trina e suo marito rimangono. Una figlia, però, una notte scompare, in circostanze poco chiare, ed è questa la lacerazione che attraversa tutto il romanzo, la perdita definitiva, che incide in profondità nelle carni, perché guerre e dittature questo fanno, dividono le famiglie, tolgono affetti, mettono uno contro l’altro persino i parenti.
Balzano va oltre. Racconta chi fra i tirolesi respinge con forza le seduzioni del nazismo, che pure, dopo l’8 settembre, restituisce al Sudtirolo una lingua e un’appartenenza (anche se al Reich e non al vecchio Impero asburgico, al quale appartenne fino al 1918). E chi invece ad Hitler finisce col credere, a chi si proclama nazista. Racconta chi fugge in montagna, per scampare all’arruolamento, prima dell’esercito italiano, e poi di quello tedesco. Racconta come la morte, la morte inflitta, l’omicidio, possano toccare a chiunque, se le circostanze sono eccezionali. Racconta chi per sopravvivere deve ammazzare, pur essendo mite. Senza pentirsi.

Poi, finalmente, a Curon (o Graun, come recita il toponimo originale) torna la pace. E con la pace anche la democrazia, quella portata in dote dallo Stato italiano, dalla nuova Costituzione, su cui vigila un presidente della Repubblica trentino, Alcide De Gasperi, un “cugino” dei sudtirolesi, uno che si è fatto le ossa, da giovane, al Parlamento di Vienna. Ma è proprio in questi anni di apparente ritorno alla normalità che si consuma la fine del paese. Il progetto della diga, più volte iniziato e poi interrotto, questa volta va avanti. Trina e suo marito Erich cercano di opporvisi come possono, mettendo in allarme i loro concittadini, giocando di sponda con il parroco del paese, che riesce persino ad ottenere un’udienza a Roma, dal Papa. Forse solo qui il romanziere forza un po’ la mano alla realtà. “Alcune figure sono reali – spiega Balzano – ma in realtà da parte della gente non ci fu vera opposizione”.

C’è una figura molto ambigua e perciò anche molto bella, letterariamente parlando, che spicca in questa parte del libro: quella del responsabile dei lavori della Montedison (società che in realtà – ha dichiarato ancora l’autore – non ha collaborato in nulla alla realizzazione di questo romanzo): è una figura che incarna i processi di modernizzazione, che come tali portano con sé un forte carico di ambivalenza, e sfuggono alle classificazioni precise. Questo “uomo col cappello” non si rifiuta di dialogare con Erich, ma non per questo è “buono”.
I suoi consigli sono ambigui: spiega al contadino che da solo non potrà nulla, che sarebbe utile per lui cercare degli alleati, ma non gli dà nemmeno alcuna speranza di riuscire davvero a cambiare le cose. Ad un certo punto, gli suggerisce persino di uccidere (il terrorismo, come sappiamo, ha insanguinato l’Alto Adige, un po’ più tardi rispetto agli anni in cui occorrono queste vicende). Oltre al progresso, con le sue contraddizioni, l’uomo col cappello rappresenta forse anche quelle figure sfocate o quelle zone d’ombra che si sono accompagnate al “progresso” negli anni tumultosi della ricostruzione e poi del boom economico, e anche oltre: la mente va a Gladio, ai servizi segreti deviati, a tante persone che sapevamo ma tacevano o parlavano a metà. Oggi sarebbero dei consulenti superpagati, dei consiglieri ben introdotti nelle stanze dove si prendono le decisioni che contano. Sarebbero membri di cda, di fondazioni, di club. Sarebbero tecnocrati, finanzieri.
Sia come sia, i giochi sono fatti. Alla fine, Curon è destinato a giacere nella sua tomba d’acqua. Non muore con un rombo, con una deflagrazione. L’acqua sale lentamente, ci vuole un anno perché del paese rimanga solo quel campanile, destinato ad essere immortalato in milioni di foto, negli anni a venire.
Balzano ha scritto uno splendido romanzo civile che racconta la storia di una resistenza, ad una diga, certo, ma anche alla Storia, quella Storia che con i suoi imperativi chiede alle persone semplici prezzi altissimi. Chiede di rinunciare alla propria lingua e alla propria cultura, ad esempio. Di rassegnarsi alla perdita della casa e degli affetti. Di partire per un fronte lontano. Di “cambiare”.
Resistere può significare fuggire, nascondersi. Ma può significare anche restare. Tenacemente ancorati al proprio lembo di terra. Resistenza vana, sia pure. Ma bisognava provarci.
A tutti gli altri, infine, il compito almeno di leggere. Di sapere.