Classe 1979, nata a Palermo, Linda Randazzo è un’artista, illustratrice, pittrice, fashion designer, set designer, costumista. La sua è una vita dedicata all’arte, in tutte le sue forme.
Linda Randazzo, perché hai scelto l’arte?
“Io sono una pittrice, mi permetto di pensare che sia la Signora Pittura a prendersi cura di me. Credo che l’arte sia la fase successiva di elaborazione simbolica, attraverso segni e gesti visivi, che caratterizza l’espressione primaria dell’uomo; noi tutti da bambini disegniamo e questo rappresenta un modo assolutamente universale di comunicare, emotivamente diretto. Quello che succede dopo a qualcuno, è di non voler abbandonare mai più quel linguaggio, anzi di sofisticarlo, adeguandolo a una personalissima visione poetica del mondo; chi fa questa scelta è un artista, un uomo che elabora e offre la “Visione” del mondo stesso. Il pittore/artista elabora un sistema di rappresentazione, fornisce un “principio di realtà”, che si auspica seducente per molti, (se non per tutti), così poetico da fornirci persino di un’ anima, che nella gioia percettiva della bellezza ricorda di essere eterna. L’Arte ci regala contemporaneamente un corpo e un’anima, un sopra e un sotto. Si può dire che sia l’Arte a scegliere chi nel delirio di seduzione universale è condotto in quest’affascinante ruolo di demiurgo, tragicamente salvifico – una contraddizione in termini! Ho scelto di vivere questo paradosso all’origine dell’atto creativo, di confrontarmi giornalmente con il conflitto interiore che scaturisce dal fare arte nella nostra società”.
E cosa ti ha portato alla decisione scegliere Palermo per la tua arte?
“Il mio percorso è stato travagliato…. Ho studiato storia dell’arte a Palermo e Firenze, design per il teatro a Milano, l’Erasmus in Spagna, ho girato in largo e in lungo, e dopo l’ultima trasferta al nord dell’Italia ho definitivamente deciso che questo fosse il mio posto. Dipingere rimanda alla dilatazione del tempo, alla contemplazione. Qui il tempo scorre lento, è fuori dal divenire contemporaneo, la luce è così accecante da essere imparentata con il buio. La Sicilia è magnifica paesaggisticamente, la sua cultura è complessa. È un ibrido religioso e filosofico, guardando i mosaici delle chiese arabo/normanne ho compreso come non vi sia mai stata una reale scelta tra le istanze mediorientali e quelle occidentali, tra la linea bizantina e la plastica classica. Qui il fondo oro ha un corpo che altrove non ha, la metafisica fa l’odore acre della carne arrostita nei mercati del centro storico. Queste incoerenze estetiche sono congenite nel nostro carattere. Si può vivere con poco e avere una qualità della vita che tutto sommato è superiore a quella delle grandi metropoli occidentali. Palermo è nobile, magnifica e decaduta, meravigliosamente popolare; tralasciando il suo declino del periodo mafioso, si può dire che sia realmente una città dell’accoglienza, della promiscuità e dell’incontro. Le sue radici islamiche e giudaiche trasudano dalla cultura dei suoi intellettuali. Una città che rapisce con le sue tragiche contraddizioni, con il suo carattere sorprendente”.
E chi è stato il tuo mentore, o il tuo “scopritore”?
“Il mio primo scopritore è stato Enzo Patti, un artista sempre avanguardista, era il Professore di scenografia, gli chiesi di non coinvolgermi troppo in quella formazione, lui mi rispose che ero già totalmente coinvolta e che sicuramente ero una pittrice, m’insegnò a non avere paura e mi disse ironicamente che il pittore non sarà mai povero. Quando avevo ventisei anni, incontrai Alessandro Bazan, un esponente della Scuola di Palermo, consacrata da poco in una mostra al museo di arte contemporanea della Sicilia, Riso. Era stato uno di quei quattro ragazzi della scuola che negli anni di mafia, negli anni 80 a Palermo, invece di fuggire, come fanno ancora molti, decise di rimanere e di “combattere”, di “fare” nel deserto. Era uno di quelli che dipinge con quella filosofia della resistenza, che caratterizza un po’ tutti i pittori che ho avuto la fortuna di incontrare in Sicilia e da cui ho imparato molto. Alessandro aveva poco più della mia età di adesso, scommise sul mio talento, divenni sua allieva, poi feci amicizia con Francesco De Grandi e mi innamorai perdutamente della luce accecante delle opere di Andrea Di Marco, che più di tutti per me rassomiglia alla mia idea di Palermo e di pittura, anche lui fortemente mi spinse a dipingere, mi regalò dei fogli, promettendomi di aiutarmi ad esporre i miei acquarelli all’estero… ho avuto la fortuna di avere la sua stima e di sapere qualcosa della sua poetica prima che ci lasciasse. Bazan insegna con gli altri artisti della scuola di Palermo all’Accademia di belle arti di questa città, e questo per Palermo è un valore aggiunto. Credevo di avere esaurito la possibilità di continuare a formarmi, quando invece ho incontrato altri pittori: Francesco Lauretta, maestro della luce anche lui, siciliano, fondatore di una scuola a Firenze, sono stata molto incoraggiata da lui, così come da un pittore che stimo tantissimo Alfonso Leto. Poi ho incontrato il Maestro Guido Baragli, che mi onora delle sue opinioni pittoriche. Con Baragli ho passato molto tempo al bar, come artisti francesi, ma di fronte al mare di Mondello, studiando i colori di quella spiaggia, che da almeno tre anni è fonte della mia ispirazione. Nel suo studio ho compreso come il micro mondo delle luci riflesse possa diventare nella pittura un grande monumento. Baragli e quella spiaggia sono stai i regali più belli del mio ritorno a Palermo dopo Milano. Ho appreso il senso della composizione, del rigore e dell’ordine, l’orgoglio e l’appartenenza alla storia della pittura italiana”.
Lavori in un palazzo che ha ospitato l’arte contemporanea di Palermo negli anni ’80. La tua condizione oggi qui è migliore?
“Il mio amico artista Giallo Concialdi, che lavora nel Palazzo Rammacca, sapeva che cercavo uno studio da quelle parti e mi ha presentato Fabrizio Favuzza, uno degli architetti di Studio PL5, che si occupa del progetto di riqualificazione dell’intera Piazza Garraffello alla Vucciria. L’architetto Favuzza mi conosceva per fama e mi ospita in quello che fu uno dei Palazzi più importanti della storia di questa città. Nel ‘600 fu sede del Banco Pubblico, si affacciava in quella piazza, dove s’incontravano le logge di tutti i mercanti provenienti dal Mediterraneo e oltre, a pochi metri dalla Cala, il vecchio porto, quando Palermo era florida e la Vucciria era il cuore dell’economia e della vita sociale della città. Oggi la piazza è un immenso rudere a cielo aperto con una meravigliosa fontana al centro. Uwe Jäntsch, artista austriaco, simbolo di quest’ affascinante area decaduta che trasuda la sua storia da ogni mattone barocco, per molti anni ha vissuto la piazza come scenario delle sue performances, lasciando molte tracce pittoriche della sua vita qui. Nel palazzo, hanno vissuto molti artisti contemporanei siciliani e stranieri, anche i miei maestri, sede di una delle prime Gallerie, Francesco Pantaleone arte contemporanea, che ha portato a Palermo le prime novità internazionali con cui noi giovanissimi potevamo entrare in contatto. Io ho fatto da assistente a qualcuno dei suoi artisti e in quel palazzo cominciai a studiare pittura, appunto nello storico studio di Bazan in cui ora lavoro io. Strana la coincidenza non casuale del fatto che oggi sia rimasta io sola con Giallo, e con altri giovani colleghi che vengono in trasferta a dipingere qualcosa, in questa immensa e decaduta piazza che aspetta con ansia che l’utopia avveniristica degli investitori si realizzi e che, quel cuore agonizzante si riprenda meglio di prima. Oggi quello che era il centro di alcune resistenze artistiche cittadine attende un nuovo abito, tra le polemiche di molti, preoccupati come me, che le istituzioni non siano in grado di sostenere i privati che cercano di migliorare le cose e di connettere il vecchio con il nuovo, e di mantenere quell’autenticità popolare del mercato, integrandolo con le nuove esigenze culturali e residenziali di una città futura ancora solo progettata. In quel vuoto di Piazza Garraffello dalla finestra di Palazzo Rammacca posso osservare il simbolo delle vicende di una città politicamente complessa che attende la sua nuova veste. Il centro artistico della città quest’anno si sposta nel quartiere della Kalsa, quartier generale della Biennale Manifesta, tutto sommato un format artistico che a me risulta quasi incomprensibile data la sua perfetta aderenza a un linguaggio artistico globalizzato, molto lontano da ciò che per me è desiderabile. Il vantaggio invece è che in città circolino persone nuove che parlano altre lingue e che fanno “arte contemporanea mitologica” come quella che vedevamo sui libri in Accademia. Trovo il confronto culturale che si è creato in questo momento in città una grande possibilità”.
Approfondiamo Manifesta per i nostri lettori?
“Manifesta è una Biennale nomade europea, nata negli anni novanta e fondata ad Amsterdam dalla storica dell’arte olandese Hedwig Fijen, che ancora oggi la guida; è un progetto culturale site-specific che reinterpreta i rapporti tra cultura e società attraverso un dialogo continuo con l’ambito in cui si trova temporaneamente, questo avviene invitando la comunità culturale e artistica a produrre nuove esperienze creative. Partendo da queste premesse Manifesta si trasformerà in piattaforma europea interdisciplinare, volta ad esplorare e catalizzare un cambiamento sociale positivo in Europa attraverso la cultura contemporanea”.
E perché Palermo è così centrale in questo progetto?
“La Città di Palermo è stata selezionata dal comitato di Manifesta per la sua rilevanza su due principali temi che identificano l’Europa contemporanea: migrazione e condizioni climatiche, e sull’impatto che queste questioni hanno sulle nostre città. Le diverse stratificazioni e la fitta storiografia di Palermo – occupata da diverse civiltà e culture con forti legami e connessioni con l’Africa del Nord e il Medio Oriente negli ultimi 3000 anni – hanno lasciato le loro tracce nella società multiculturale, localizzata nel cuore dell’area mediterranea. I curatori e ideatori di Manifesta 12 a Palermo credono che questi loro interventi culturali possano avere un forte ruolo nell’aiutare a ridefinire uno dei più iconici crocevia del Mediterraneo della storia, all’interno di un lungo processo di trasformazione. Manifesta 12 vuole stimolare la partecipazione dei cittadini alla governance della Città, riappropriandosi di essa. La loro maggiore istanza è lavorare in modo interdisciplinare accanto alle comunità locali ripensando le infrastrutture architettoniche, urbane, economiche, sociali e culturali della città. Da una parte ammiro questa idea utopica e positiva, da un’altra parte mi viene seriamente da ridere. Io credo che a ridefinire il ruolo della propria identità storica in un contesto molto complesso come il nostro, non debba essere un qualche altro colonizzatore, (se pur vestito da curatore), ma credo che debbano essere le istituzioni e le condizioni infrastrutturali di una società a consentire un’emancipazione dal degrado sociale e culturale in cui vivono molti dei miei concittadini, compresa me. Un’altra critica vorrei avanzare. Il loro linguaggio non coinvolge di sicuro le parti più basse della popolazione locale, non coinvolge me, né tanti altri che hanno studiato arte contemporanea per tutta la vita. Il sarcasmo maggiore mi viene pensando ai progetti di ridefinizione urbana della città. Palermo è stata splendente fino ad un certo punto. Il sacco di Palermo operato durante il governo mafioso del sindaco Ciancimino, ha inferto un colpo durissimo al paesaggio della città. Una storia di abusivismo edilizio che non si è mai fermata. Interi quartieri periferici vertono in uno stato di abbandono. A cosa serve Manifesta 12 allo Zen? Apprezzo molto i laboratori educativi e creativi che si fanno per i bambini, ma quando i signori urbanisti di Manifesta 12 saranno andati via, cosa rimarrà di questi quartieri dormitori abbandonati a se stessi senza le fognature e le strade? Qualcuno dovrebbe dire che Palermo è una città senza mezzi di trasporto efficienti, per muovermi da Mondello, una delle più belle spiagge del mondo, al centro storico, dove lavoro e faccio i miei incontri “culturali”, impiego circa due ore di bus per soli 11 km, circa 4 ore al girono per muovermi all’interno di Palermo. Mi domando e vi domando: come può emergere la cultura sotterranea e non, di una città dove non si può circolare liberamente in modo civile, ecologico ed economico? Mi pare una cosa vergognosa, faccio prima in due ore a raggiungere Milano. Il progetto di viabilità del nostro sindaco è fantastico ma quanto tempo passerà prima che la città venga risanata da venti, trenta, quaranta anni di decadenza politica, sociale e culturale, in cui chi rimaneva diventava quasi un martire o un eroe o tutt’e due le cose? Perché non stanziare qualche soldo per l’azienda dei trasporti pubblici? Sarà forse un laboratorio di Manifesta a spingere i cittadini a prendere coscienza di essere trattati come sudditi? Lo spero vivamente! Manifesta 12 pone l’accento sul nostro ruolo storico e oserei dire quasi parentale con il mondo mediorientale, infatti Palermo è stata fondata dai Fenici circa tremila anni fa, provenivano dal Libano e praticamente dividevano la terra di Caan con gli ebrei, una storia veramente affascinante, ma come non si fa a considerare che certe cose si muovono oggi per volontà geopolitiche molto più alte dei semplici progetti site specific dell’arte contemporanea? Qualsiasi argomento pseudo politico si affronti nell’ambito geografico della Sicilia, diventa veramente difficile e non si può affrontarlo senza un po’ di rabbia come quella che provo io. Grazie a tanti piccoli passi che stanno facendo i nostri governatori, oggi nel mondo si sa che la nostra storia è stata quella di un popolo al centro di un crocevia che ci vedeva in quello che era il centro del mondo antico, imparentati culturalmente con tutte le più antiche civiltà mediorientali e nordafricane che stranamente sono state vittime di una volontà di cancellazione e occultamento, un poco proprio come è successo a noi, non a caso secondo me, ma di seguito a gli stessi processi di cancellazione e sparizione di certe culture. Siamo stati arabi per qualche secolo, per me gli arabi non sono migranti islamici e terroristi ma vicini di casa e cugini culturali. Lo sono tutti per me. In questo senso sposo a pieno, come ho detto prima, la politica di Palermo capitale della cultura italiana 2018, dico benvenuta a Manifesta 12 e a tutti quelli che possano accorgersi della nostra cultura millenaria e ibrida, tirarci fuori dall’isolamento geografico e addirittura prenderci come esempio di accoglienza, cose che ci rendono un po’ tutti orgogliosi di vivere e lavorare qui in questo momento”.
La Vucciria e l’arte. Qual è la tua esperienza?
“Della mia esperienza in Vucciria da artista ho parlato, quello che mi preme più dire è che per me la Vucciria è Palermo stessa, quello che mi fa battere il cuore quando entro in quel mercato, sono i volti e le voci dei suoi abitanti. C’è qualcosa di esoterico in quel quartiere. Spero fortemente che la Vucciria riesca a mantenere la sua natura che fa di Palermo una città unica, che resiste al format del turismo usa e getta, prendi e fuggi. Da almeno venti anni frequento la Vucciria, alla Taverna Azzurra si possono incontrare artisti, studenti, mercanti, casalinghe, gente che fa la spesa, intellettuali, professori, vi è un patto tacito per cui è concesso a tutti parlare con tutti, è un punto dionisiaco, una dimensione diversa, una porta, un luogo dove si può socializzare, essere lenti, bere un bicchiere di vino con qualcuno che può arricchire la tua spesa. Spero che le istituzioni capiscano che anche se Palermo si rifà il look, è necessario che qualcuno aiuti e difenda le persone che vivono di mercato e di vecchi mestieri. Spero che nell’entusiasmo della nuova città internazionale non si costringa l’autentico popolo del centro storico a emigrare verso le periferie. Una cosa è certa, alla Vucciria piace l’arte, quando passo con le mie tele, mi fermano tutti i fruttivendoli e negozianti, per controllare cosa faccio, ho molti fans fra questi signori di una giuria popolare. Io farei un museo a cielo aperto in quei vicoli. Un signore che vende la frutta mi ha detto che “la Vucciria fa i pittori”, perché da Renato Guttuso in poi “lì ci hanno vissuto in molti e adesso sono i più bravi””.
Le borgate marinare: i tuoi scenari preferiti. Perché?
“Perché sono tra i pochi quartieri non distrutti dalla speculazione edilizia, perché sono quartieri di marinai e di pescatori, perché i bambini vanno in giro scalzi verso le spiagge, perché tanta bellezza quasi è vissuta con indifferenza, perché il turismo non riesce a penetrarvi, perché amo il mare, perché a pochi passi dal centro si entra in un altro mondo lontano dall’Europa, da Milano, da Parigi, da Londra. Le borgate marinare sono immerse in quel tempo dilatato della visione pittorica. Ecco, per questo e tanto altro adoro le borgate e le spiagge, vedo nelle famiglie semplici, immagini archetipiche, la madre e il padre, la sensualità femminile che trascende nella maternità, vi vedo la sacra famiglia sulla spiaggia. Le ombre sono lunghe sotto il sole, più importanti degli oggetti stessi di cui sono il doppio, gli ombrelloni hanno colori profondi, i corpi nudi adagiati sono tutti bellissimi e veri, si lasciano guardare senza pudore. I surfisti sono come tartarughe appena nate che vanno verso il mare”.
I ritratti. Come si esplica il processo creativo in questa tua forma d’arte?
“Dato che sono interessata all’essere umano “sostanziale”, amo attraversare le classi sociali in modo trasversale, perché l’immagine degli individui non è altro che frutto della loro appartenenza sociale. Quando m’innamoro di una persona, cerco di sapere quali siano i suoi reali sentimenti, le emozioni, la storia, i moti interiori che la muovono. Cerco di conoscere il mio soggetto, di coglierne l’essenza e di trasferirla in pittura. Per me ogni persona è un mondo unico, un particolare specchio della vita. Ho fatto ritratti ad aristocratici siciliani che si trovano in dimore storiche d’incredibile bellezza, ho fatto ritratti a bambini per strada, a pescatori, a ragazzi implicati nella vita criminale, a migranti e vagabondi. Mi hanno concesso la loro storia, dandosi completamente a me, così è avvenuto con il Principe Alliata, un uomo dalle infinite risorse umane e culturali, un monumento della storia siciliana e della cinematografia italiana, e cosi è avvenuto con alcuni ragazzi che ho conosciuto nel quartiere dello Zen. La cosa più bella del fare ritratti è il dono che mi viene fatto dall’altro che si fa ritrarre. Il ritratto è il racconto di un incontro umano intimo”.
Come immagini la tua vita da pittrice qui a Palermo tra dieci anni?
“Se devo essere sincera, non immagino nulla, mi verrebbe un’ulcera! Questa è la mia casa, ma il mondo tutto intero è la casa dell’arte, la mia sete di conoscenza mi porta a sperare di continuare sempre a incontrare nuove persone, mentori che sappiano valorizzare il mio lavoro, fuori da certi buchi dimensionali, come quello in cui molti di noi vivono. I galleristi che ci sono qui, sono pochi e insufficienti a garantire chi, (come me), cerca di rendere il proprio lavoro all’altezza di una vera internazionalità. Ho sempre trovato molto più entusiasmo per il mio lavoro da parte degli stranieri, hanno un apprezzamento superiore e un rispetto che spesso qui non è facilmente espresso, se non da pochi sostenitori. A parte qualche mecenate e collezionista veramente interessato al mio lavoro, il mercato dell’arte qui mi sembra quasi inesistente. Si può ben sperare che le cose cambino dopo queste aperture internazionali di Manifesta e la proclamazione di città della cultura italiana, ma certo non fermarsi a questo territorio, affascinante ma insufficiente da questo punto di vista, secondo me è la cosa migliore”.
Esiste una rete, un legame, tra i pittori siciliani?
“Forse una parentela, qualche amore, qualche legame, ma spesso tanto fatalismo ci rende pigri ed esprimere il vero contesto artistico nel quale viviamo è ancora molto difficile, almeno per quelli della mia generazione … mi sembra che sia così”.
Parliamo dell’evento del 22 a Vienna, che ti vede protagonista…
“Il 22 Marzo si è inaugurata una mostra collettiva all’istituto di cultura italiana di Vienna, Komm mit nach Palermo, semplicemente perché una pittrice siciliana che vive a Vienna, Antonella Anselmo, ha visto il mio lavoro e quello di altri artisti Palermitani e ha creato un contatto con una curatrice che è interessata ad evidenziare la qualità del nostro contesto pittorico di ultima o penultima generazione; credo ci sia una domanda sottesa: cosa fanno gli artisti indigeni di una città così sotto i riflettori in questo momento, che ospita format globalizzati, importa sul territorio eventi internazionali, evidenzia poco le sue maestranze e sembra così lontana dall’Europa!? Non so se sia esattamente questa la curiosità nei nostri confronti, forse è una mia proiezione perché immagino che si possa pensare questo di noi! Certamente Synne Genzmer si è chiesta se la nostra opera fosse in parte in conflitto o debitrice, di una (si presume) riconoscibile tradizione territoriale. La mostra è patrocinata dall’assessore Andrea Cusimano e da Palermo Città della Cultura 2018, dunque oggi Vienna sembra vicina e la nostra città è associata a cultura e bellezza, questo ovviamente mi rende molto felice! ”
Palermo città della cultura: cosa salvi e cosa ti allontana da questo evento?
“Sono un po’ polemica verso certe questioni, alcune cose mi sembrano contraddittorie. Una cosa a favore di Palermo città della cultura è che finalmente si sta lavorando per esportare un’immagine diversa, finalmente si pensa a Palermo non più come capitale della mafia, ma di quello che realmente è, una città colta, anzi piena di culture diverse. Apprezzo molto questa nuova e sostanziale immagine esportata, in questo momento sento che in Italia sta dilagando una fortissima tendenza razzista, per cui questa controcorrente mi piace moltissimo. Interi quartieri sono abitati da africani, indiani, arabi, come all’Albergheria così chiamata perché già nel medioevo vi albergavano civiltà diverse, vi si parlavano moltissime lingue e vi era libertà di culto. Che questo si sappia è meraviglioso. C’è anche un duro lavoro, che le istituzioni dovranno fare, perché noi tutti ce lo aspettiamo. Dopo avere ridimensionato l’immagine della città e accolto gli stranieri, bisogna davvero occuparsi dei figli che rimangono e di quelli che tornano e che cercano di sopravvivere, in un caos di difficoltà non indifferenti. Noi artisti del territorio, per esempio, abbiamo bisogno di un mercato, di spazi, di voci, di pubblicità. Chi torna sa che Palermo è una città difficile, e sa che deve collaborare per risanare ferite profonde, molte delle quali sono ferite storiche venute alla luce solo da poco. Il simbolo di Palermo, il Genio ci dice proprio questo, lui accoglie gli stranieri e mangia i suoi figli”.
Faresti un ritratto al Sindaco Leoluca Orlando? Come lo raffigureresti?
“Certo che lo farei, se mi pagasse bene! Lo ritrarrei assiso in trono con il mantello rosso di Ruggero secondo, (dopo il quinto mandato non è più un sindaco ma un re). Lui è Palermo, nel bene e nel male, è come la Vucciria, il cinema di Franco Maresco o le fotografie di Letizia Battaglia. È un politico vecchio stile, la sua non è solo un’immagine ma una presenza vera e reale, direi quasi popolare, quasi tutti lo chiamano Professore o Leoluca, è un’icona! Se questa fosse New York ed io Andy Warhol, lo ritrarrei gratuitamente!”