Si è conclusa con la vittoria dello scrittore Wlodlek Goldkorn, l’edizione 2017 del Premio Asti d’appello, gara letteraria a cui possono concorrere i libri di narrativa di autore di lingua italiana che nell’anno si siano classificati al secondo e al terzo posto nelle classifiche dei maggiori premi letterari nazionali individuati dal Direttivo dell’Associazione “Premio Letterario Asti d’Appello”.
L’autore di origini polacche ha conquistato la giuria con il romanzo “Il bambino nella neve” , edito da Feltrinelli, domenica scorsa in un teatro Alfieri gremito.
Questi erano “Magnifici Otto” in gara: “Una pistola come la tua” di Enrico Pandiani (Rizzoli), finalista al Premio Scerbanenco, “Il bambino nella neve” di Wlodek Goldkorn (Feltrinelli), segnalato dai giurati del Premio Bagutta, “Lo spregio” di Alessandro Zaccuri (Marsilio), dal Premio Bergamo, “Confessioni audaci di un ballerino di liscio” di Paola Cereda (Baldini & Castoldi) dal Premio Rapallo, “La Locanda dell’Ultima Solitudine” di Alessandro Barbaglia (Mondadori) dal Premio Bancarella, “È giusto obbedire alla notte” di Matteo Nucci (Ponte alle Grazie) dal Premio Strega, “La città interiore” di Mauro Covacich dal Premio Viareggio e “La notte ha la mia voce” di Alessandra Sarchi (Einaudi) dal Premio Campiello.

Il premio Asti d’Appello nasce, anzi rinasce ad Asti a cura della Biblioteca Astense e della Associazione Premio Asti d’Appello grazie al sostegno della Regione Piemonte, della Fondazione Cassa di Risparmio di Asti e della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino.
Recupera dopo molti anni un nome e un’idea originale degli anni ’60: rimettere in gioco i romanzi giunti secondi e terzi nei maggiori premi letterari nazionali e offrir loro una seconda chance, una sentenza d’appello. Il premio, presieduto dallo scrittore e pittore Leonida Repaci, ebbe soltanto tre edizioni, dal 1966 al 1968, ma ebbe il merito di premiare esclusi di vaglio quali Anna Banti per “Noi credevamo” e Italo Calvino per “Le cosmicomiche”. Poi venne abbandonato sull’onda delle contestazioni del ’68. Ora la sollecitazione a riprendere l’iniziativa viene niente di meno che da Paolo Conte, l’avvocato e chansonnier astigiano, presidente onorario del premio.I riconoscimenti vengono scelti annualmente dal Direttivo dell’Associazione Premio Letterario Asti d’Appello e sono assegnati sulla base di una doppia votazione: quella della giuria popolare e quella della giuria togata. La votazione premia con euro 10.000 un solo vincitore.
I romanzi sono stati letti da almeno 300 persone, tra la giuria popolare, formata dai 150 soci del Premio, i 140 studenti degli istituti superiori della giuria giovani, i 12 detenuti della casa di reclusione di Quarto e da quest’anno anche 8 ufficiali dell’esercito che frequentano la Scuola di Applicazione di Torino.
A condurre la cerimonia di domenica Chiara Buratti: attrice, conduttrice e giornalista, si divide tra televisione, cinema e soprattutto teatro. Come conduttrice è uno dei volti di Rai Cultura.
A giudicare le opere e’ stata come sempre una doppia giuria: popolare e togata. La prima, che si è espressa sabato scorso alla biblioteca Astense Giorgio Faletti alla presenza del notaio del Premio, è formata dai soci dell’Associazione del Premio Asti d’Appello, ai voti dei quali si sommano le valutazioni espresse dagli studenti della giuria giovane e da un gruppo di detenuti della casa circondariale di Quarto d’Asti.
Domenica a teatro, durante la cerimonia, gli scrittori hanno “difeso” in giudizio con un’arringa la propria opera davanti al pubblico e alla giuria togata, composta da magistrati e avvocati: dalla somma dei voti delle due giurie, ‘ponderati’ secondo il rapporto matematico tra numero di giuristi e numero dei giurati popolari e giovani.
Ogni scrittore ha espresso le proprie motivazioni per conquistarsi il voto della “corte”.
Alessandro Barbarglia, autore della “Locanda della solitudine” ha sostenuto la causa della scrittura come evasione, una storia che porta altrove chi l legge e chi la scrive, un invito a riscoprire ciò che si è ereditato e ha definito la narrazione come contenitore di bugie con schegge di verità.
Con il suo “confessioni audaci di un ballerino di liscio“ Elena Cereda ha invece portato all’attenzione il diritto di difendere una storia che parla di un tipo di musica e il suo background di balere e personaggi molto vicini alla realtà che raramente viene narrato in Italia. La sua storia, un canto corale di solitudine e di esistenze che si intrecciano proprio nei luoghi in cui il ballo unisce i destini, rivendica anche “l’importanza dell’incontro, in un’epoca in cui il contatto umano e’ schermato dai social media e dove degli altri non si avverte più nemmeno l’odore, inteso come essenza intima dell’individuo”.
Mauro Covacich invece si schiera dalla parte della indefinibilità della propria storia, a metà tra la autobiografia, romanzo di formazione e il saggio storico, in cui si raccontano le esistenze parallele di un bambino ai tempi della seconda guerra mondiale diventato adulto negli anni 70 ed esplora il rapporto genitore- figlio e lancia il proprio appello come elemento di riscatto , anche se “ la letteratura si difende da sola “.
Per il romanzo vincitore “Il bambino nella neve”, in cui si racconta la shoa e il profondo buio del 900, l’autore sostiene l’importanza della memoria per scegliere chi siamo dal nostro passato, per immaginare il futuro. “ sono figlio della seconda generazione di ebrei che hanno subito la deportazione e tramite la letteratura voglio dare voce al silenzio e rivendicare il diritto di non essere una vittima”.

Matteo Nucci e il suo “bisogna obbedire alla notte” esplora una Roma rinata, ricca di personaggi paradossali, emarginati che però parlano come oracoli. “il mio libro è difficile, come dopotutto lo è la vita stessa, in cui bisogna lottare per conquistare ciò che si desidera. E questa storia induce il lettore a porsi domande, a rielaborare il testo e a portarlo con sé “.
“Una pistola come la tua “di Enrico Pandiani unisce le caratteristiche del giallo con l’ironia e la sensualità dei personaggi non convenzionali e lo scrittore sottolinea la loro normalità, “che li rende adattabili al lettore che si identifica nelle caratteristiche umane, lontani dagli eroi ma vicini alla spontaneità “.
“La notte ha la mia voce” scritta da Alessandra Sarchi comincia con un incidente ed è la storia di un distacco dalla vita che scorre normalmente e che può essere rivoluzionata in un attimo cambiando per sempre il punto di vista di chi la vive. La disabilità può portare però a vedere tutto sotto un’altra luce, maturando una consapevolezza che va oltre il dolore. “la mia è una vicenda scritta sul corpo ed è la narrazione di due personaggi che vivono questa condizione in modo opposto , per sottolineare quanto sia complesso e differente per ognuno convivere con questa problematica”.
Conclude “Lo spregio”, di Alessandro Zaccuri, anche questo ambientato in una locanda dove aleggia il mistero della paternità e l’inquietudine del rapporto genitoriale. “difendo il mio libro dalla colpa, perché questo è l’argomento centrale, come in una tragedia greca i personaggi giocano con il proprio destino e si trovano ad affrontare il rischio dell’ essere padri e figli, con tutti I tormenti che questo comporta”.
Il Premio si avvale della preziosa collaborazione di Alberto Sinigaglia, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Piemonte.
Questa la motivazione della giuria per il premio a Wlodek Goldkorn “Per aver proiettato con rara e preziosa efficacia il ricordo infantile del dramma familiare, nella continuità delle tragedie di esclusione, persecuzione e morte che dal ventesimo secolo ancora si perpetuano”.

Il premio speciale della giuria popolare, novità di questa edizione, è andato a “Lo spregio” di Alessandro Zaccuri (Marsilio), dal Premio Bergamo, che ha ricevuto da Cesare Verona, presidente e amministratore delegato di Aurora, un’esclusiva penna stilografica Hastil. Una penna Aurora è andata anche a tutti gli altri scrittori in gara.
A chiudere la cerimonia in teatro il concerto “Fra due pianoforti: rimbalzi fra classica e improvvisazione” con i pianisti Ramberto Ciammarughi e Marco Scolastra, un gioco di relazioni pericolose, un dialogo tra l’apparente immobilità della pagina scritta e il “rischio calcolato” della pura invenzione, ma anche un grande divertissement.