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November 4, 2017
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Il piccolo Lincoln finisce nel Bardo, il limbo tibetano “terra di nessuno”

Recensione del libro "Lincoln nel Bardo" di George Saunders, che tesse la trama di una narrazione corale, sospesa fra sogno e realtà

Marco PontonibyMarco Pontoni
Il piccolo Lincoln finisce nel Bardo, il limbo tibetano “terra di nessuno”

George Saunders, autore del libro (Foto da: Youtube)

Time: 4 mins read
La copertina del libro “Lincoln nel Bardo”

L’idea del buddismo tibetano è che, dopo la morte, lo spirito del defunto debba essere incoraggiato ad andarsene, a lasciarsi definitivamente alle spalle la sua vita precedente – il fardello dell’attaccamento – per procedere verso la prossima reincarnazione, se non, meglio, verso il Nirvana. Questo è quanto appresi in gioventù leggendo – fra gli altri – il Bardo Todol, o Libro tibetano dei morti, ma anche altri grandi classici sull’argomento come gli studi di Giuseppe Tucci e del suo allievo Fosco Maraini.

Il Bardo nel quale George Saunders confina nientemeno che un figlio di Abramo Lincoln, Willie, è proprio questo, il Bardo tibetano, la “terra di nessuno” che lo spirito attraversa dopo la morte, piena di apparizioni allucinatorie che rimandano alla vita appena conclusa. All’inizio non lo avevo capito. Leggendo quel titolo criptico, Lincoln nel Bardo, avevo pensato ad un antico poeta celtico, o a Shakespeare. Invece no: Saunders, classe 1958, da Amarillo, Texas, un ingegnere geofisico oltre che uno scrittore e un saggista, fa un’operazione geniale: prende quello che potrebbe essere un romanzo storico, centrato su un episodio minore della storia americana – la morte, nel 1862, per febbre tifoidea, di William Wallace “Willie” Lincoln, il terzo figlio del presidente e di Mary Todd Lincoln, all’età di 11 anni – e lo trasforma in una  costruzione poetica, intima, chiaroscurale, a volte divertente, a volte pregna di commozione, pur senza mai scivolare nel patetico.

Il palcoscenico in cui si svolge gran parte della vicenda è un cimitero, quello di Oak Hill, ma è anche il Bardo, appunto, il limbo in cui alcune anime si attardano, anziché avviarsi verso il loro destino (che sia di reincarnazione o di approdo nell’Aldilà, nel paradiso – ma anche nell’inferno – cristiano). L’anima – la coscienza – di Willie, è così. Indugia con dignità in questa landa crepuscolare, assieme ad altre che, cocciutamente, insistono con il rimanere: in particolare tre curiosi personaggi, un cinquantenne nudo affetto da priapismo, morto prima di riuscire a consumare il matrimonio con la sua giovane sposa, un giovane omosessuale che si è tolto la vita, e che nel Bardo si manifesta come una creatura piena di mani, nasi, occhi, ed un prete. Chi rimane nel limbo, lo fa perché sente di non avere concluso la sua esistenza, per paura di ciò che troverà oltre l’ultima delle soglie, o perché spera in qualche modo di “tornare”. Willie però è trattenuto dall’amore del padre: è così forte, così disperato l’amore del presidente degli Stati Uniti per suo figlio, da portare scompiglio persino nel Bardo. E parimenti, è così forte, così maturo il senso di responsabilità che il bambino prova, di fronte a quella testimonianza d’amore, da incutere in tutti un profondo rispetto, misto al desiderio di prendersi cura di lui.

L’autore del libro, George Saunders

In un libro del genere la trama è evidentemente importante, ma non ne spiega l’essenza. Il “come” conta tanto quanto il “cosa”, anzi, anche di più. Il romanzo di Saunders infatti è in parte una sorta di commedia o di radiodramma, in cui ciascun personaggio pronuncia le sue battute, contribuendo a tessere la trama di una narrazione corale, sospesa fra sogno e realtà. Ed in parte un romanzo citazionista.

Partiamo dal secondo. Alcune parti del romanzo sono costruite come un collage di brevi citazioni da testi storici, diari o lettere dell’epoca. E’ in questo modo, ad esempio, che Saunders descrive un sontuoso ricevimento alla Casa Bianca – siamo in piena Guerra civile, i Lincoln hanno radunato tutti i loro sostenitori – funestato però dall’inizio della malattia che confina il piccolo Willie nella sua camera, e nel suo letto. Dal Waste Land di T.S. Eliot in poi il citazionismo è sinonimo di successo, e lo è anche in questo caso, poco importa se le citazioni sono vere o inventate.

Le vicende che hanno per teatro il Bardo, invece, vengono raccontate dalle voci delle varie “anime”. Ognuna ne racconta un pezzetto. Spesso una lancia l’altra, o completa l’altra. Sarà una mia idea, derivante dalla troppa frequentazione di Under Milk Wood di Dylan Thomas, ma in radio, più ancora che al cinema, tutto questo funzionerebbe benissimo.

Il piccolo Willie Lincoln

Il tono a volte è mesto, altre volte vivace o comico, e anche questo contribuisce a fare del libro una lettura scorrevole, a dispetto  dell’argomento. L’abilità dell’autore sta nell’avere reso accessibile un’opera così al vasto pubblico, un’opera, cioè, che si occupa senz’altro di un tema universale, il dolore della perdita, la difficoltà di accettare ciò che nella vita è transitorio (in definitiva, la vita stessa), ma che per farlo  utilizza una chiave doppiamente bizzarra: in primo luogo, i personaggi coinvolti, uno dei più famosi presidenti degli Stati Uniti d’America, e il suo figlioletto undicenne, e poi una struttura che è tutto fuorché quella del romanzo canonico. Senza la mano ferma di Saunders, autore che fin’ora si era cimentato solo con la forma racconto (con risultati peraltro felici), potremmo avere per le mani un libro “lisergico” alla Dick, se non alla Murakami (il Murakami di Kafka sulla spiaggia, per intenderci), pieno di apparizioni, mutazioni, fantasmi. Non che qui queste cose non ci siano, ma assumono tutt’altra plausibilità.  Mentre sullo sfondo si stagliano i profili delle lapidi di Spoon River.

Saunders – influenze dichiarate Vonnegut, Pynchon, Steinbeck – ha scritto un romanzo anomalo, che trascende i generi e forse anche le barriere culturali. In pratica, è riuscito davvero a dare consistenza al Bardo, pur senza attardarsi in questioni teologiche (sarebbe interessante a questo proposito sentire il parere del Dalai Lama). Ma ha scritto anche un capolavoro di umanissima pietas ed una deliziosa opera filosofica sulla legge senza scampo dell’impermanenza, a cui tutti siamo sottoposti, potenti e gente comune. Infine, ad un certo punto, e in poche pagine, ha reso con molta efficacia l’orrore della guerra, e anche questo va inscritto ai suoi meriti.

Vincitore del Man Booker Pize 2017, il più importante premio letterario inglese, Lincoln nel Bardo è un oggetto strano che brilla di luce propria, come un manoscritto disotterrato dalle sabbie, scritto in una lingua solo parzialmente decifrata, ma che risulta tuttavia familiare.

George Saunders, Lincoln nel Bardo, Feltrinelli, 2017 (trad. Cristiana Mennella).

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Marco Pontoni

Marco Pontoni

Sono nato in Sudtirolo 50 anni fa, terra di confine, un po' italiana e un po' tedesca. Faccio il giornalista e ho sempre avuto un feeling per la narrazione. Ho realizzato video e reportages sulla cooperazione allo sviluppo in varie parti del mondo. Finalista al Premio Calvino, ho pubblicato il romanzo Music Box e, con lo pesudonimo di Henry J. Ginsberg, la raccolta di racconti Vengo via con te, tradotta negli USA dalla Lighthouse di NYC con il titolo Run Away With Me. Ho da sempre una sconfinata passione per gli autori americani, Lou Reed, l'Africa, la fotografia, i viaggi e camminare.

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