È il 29 agosto 2010, quello che la stampa italiana definì “il giorno del Gheddafi show”. Roma si è preparata per accogliere il leader libico in maniera non molto diversa da quella in uso nelle capitali africane in occasione di visite importanti, a partire dalle strade sgomberate per far passare senza intoppi il corteo delle auto blu. Ne fa le spese anche la Panda di Ilaria, parcheggiata come tante altre sul Lungotevere, rimossa e portata al deposito comunale, collocato da un urbanista sadico in un angolo remoto di periferia.
Rabbiosa “come un toro durante la corrida”, Ilaria sale i sei piani di scale che la separano dal suo appartamento all’Esquilino, superando al primo piano il dormitorio dei bengalesi, al secondo il Bed & Breakfast abusivo e così via. In cima, sul pianerottolo, la sorpresa. Un ragazzo di pelle scura, sui venticinque anni, le gambe lunghe, l’occhio destro leggermente pesto. Dice di chiamarsi Shimeta Ietmgeta Attilaprofeti e di venire dall’Etiopia: in questo modo, le cambia per sempre la vita. Perchè Attilio Profeti è il nome del padre di Ilaria. Quel padre che da giovane è stato in Etiopia, durante la breve, sanguinosa parentesi coloniale italiana, e ci è tornato anche più tardi, con una delegazione della cooperazione internazionale, durante gli anni della dittatura di Mengistu (marxista, e abbastanza abile da intrattenere buoni rapporti con un’Europa che, come si ricorderà, organizzò per il suo paese il primo Live Aid). Questo ragazzo che ha attraversato i deserti ed è approdato in Italia su un barcone, a quanto pare è legato a Ilaria da un legame di sangue. Ma è il sangue giusto? Ed è abbastanza perché lei possa definirsi, nei suoi confronti, “zia”?
Il nuovo romanzo di Francesca Melandri, Sangue giusto, conferma tutto il buono già presente nei precedenti lavori della scrittrice, Eva dorme, che metteva a fuoco un altro pezzo di storia italiana dimenticata, quella dell’Alto Adige/Südtirol, e Più alto del mare, ambientato in un carcere di massima sicurezza. I temi sono tutti presenti fin dall’inizio. Il colonialismo fascista in Etiopia, in primo luogo, quel colonialismo che per tanto tempo la paciosa, accomodante “Italia profonda” ha messo da parte, ha accantonato in un angolo della memoria, perché strideva con il mito degli “italiani brava gente”, fascisti sì, ma non razzisti, e poi in fondo, abbiamo pur costruito in Africa strade e ponti, no? Ma questo non è un romanzo storico. Nelle sue 521 pagine ritroviamo l’Italia di oggi, quella dei governi Berlusconi, delle tangenti e degli immigrati, delle angherie burocratico-amministrative e dei quartieri romani che cambiano volto e vocazioni, a partire appunto dall’Esquilino.
Un romanzo importante, insomma, Sangue giusto, uno dei migliori usciti in Italia in questo 2017. Ma anche un romanzo accessibile, tutto centrato sulla trama, su una vicenda raccontata con la perizia di chi di mestiere fa da trent’anni anche la sceneggiatrice, e dunque sa come dosare gli ingredienti giusti per tenere il lettore incollato alle pagine.
La storia attraversa le vite dei suoi personaggi, ma non vi è un determinismo implicito in questo incontro. L’autrice sembra essere più interessata a chi porta più di un nome sui suoi documenti, a chi è su una soglia, sospeso fra mondi diversi. Già in Eva dorme aveva già scritto di quelli che un grande altoatesino, Alexander Langer, ha definito “traditori che hanno conservato un’appartenenza”: penso, ad esempio, alla figura di un sudtirolese che, pur avendo subito al pari degli altri le angherie dell’occupazione italiana e del fascismo (fino alla negazione della propria lingua madre, all’italianizzazione forzata di nomi e cognomi) intravvede una possibilità diversa rispetto a quella prospettatagli dai suoi connazionali irredentisti. E, in maniera assolutamente pionieristica, apre il primo, rudimentale, impianto sciistico, per un turismo ancora tutto da inventare.

Qualcosa del genere avviene anche qui: nel prosieguo della vicenda innescata dall’arrivo a Roma del ragazzo africano, tutti sono costretti a cambiare, a rimettersi in discussione, a ripensare se stessi e gli altri (o in ragione degli altri). I personaggi di Melandri hanno spesso anche qualcosa da nascondere, pur sforzandosi di non pensarci troppo: può essere un figlio avuto in circostanze particolari, ma può essere anche un amante, come nel caso di Ilaria, o persino qualcosa su di sé, sul proprio vissuto, un’esagerazione, un’iperbole a cui si è dovuti ricorrere per avere una nuova chance, quella chance che altrimenti il sistema giuridico italiano potrebbe decidere di negare, ai vari Shimeta Attilaprofeti in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato. A rendere la trama interessante sono le deformazioni prodotte da questo gioco di specchi, ad un livello immediatamente sottostante rispetto a quello di scrittura di per sé limpida, cristallina.

Però ha scritto un romanzo, non un libro di storia (quelli definitivi li ha già pubblicati da tempo Angelo del Boca, che si è battuto per anni affinché l’Italia ammettesse ad esempio l’uso dei gas asfissianti durante la campagna d’Etiopia). Ed un romanzo ha un dovere, sopra ogni altro: quello di illuminare l’animo umano, che raramente è solo nero o solo bianco. Da questo punto di vista il personaggio di Attilio Profeti è emblematico: figlio di un ferroviere, già fascista, autore persino di un libello che condanna la mescolanza del sangue italiano con quello etiope, proprio mentre in Africa mette al mondo un figlio con una ragazza locale, in seguito si fa passare per partigiano, e scalando un gradino via l’altro, approda ad una comoda, redditizia posizione nel sottobosco della politica romana. Energico, spregiudicato, refrattario all’introspezione, Profeti nella sua lunga vita ha sposato due donne e ha messo al mondo diversi figli “ufficiali”, regalando ad ognuno di essi un domicilio all’Esquilino. Viceversa, non ha mai riconosciuto quello avuto in Etiopia. Ma, molti anni dopo, è riuscito con notevole sangue freddo a tirarlo fuori dalle prigioni di Mengistu; ed è riuscito parimenti a “comprare” da un ministro etiope i documenti necessari ad un ex-commilitone insabbiato nel paese africano, affinché possa tornare in Italia con il resto della famiglia, cosa tutt’altro che scontata in epoca di dittatura.
“Attilio Profeti – ha detto Melandri in una delle tante presentazioni del suo libro che si tengono in queste settimane in Italia (io ho assistito a quella di Borgo Valsugana, introdotta da Pino Loperfido) – non è un personaggio estremo. Non è un combattente per la libertà ma non è neanche un mostro. Non è un partigiano e non è neanche un torturatore repubblichino. E’ ciò che è stata la maggioranza degli italiani, prima grigiamente fascisti, e poi di colpo non più. Attillo Profeti non viene mai messo alla prova dal destino e quindi di non deve mai interrogarsi sul serio. Ciò lo rende al tempo stesso irresistibile e insopportabile. Nell’85, a molti anni dalla sua giovanile avventura coloniale, ritorna anche in Africa, all’epoca della legge Craxi sulla cooperazione allo sviluppo, che ha consentito ruberie di ogni sorta, sempre con questa baldanza superficiale che caratterizza gli italiani”.
Baldanza superficiale è una definizione perfetta degli italiani. Anche di quelli che in queste stesse settimane stanno tergiversando sullo ius soli, cioè sul diritto di chi è nato e cresciuto in Italia ad essere riconosciuto pienamente come italiano, a prescindere dal suo sangue.
“Quando ho iniziato a scrivere il libro, nel 2012, non avrei mai pensato che 5 anni dopo la legge non sarebbe ancora stata approvata. Mentre la Bossi-Fini rimane ancora lì, rendendo di fatto impossibile migrare in maniera legale. Una cosa stupidissima perché ha impedito finora anche di esercitare un controllo su chi arrivava nel nostro Paese”. Parole sacrosante.
Francesca Melandri, Sangue giusto, Rizzoli, 2017.