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September 11, 2017
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Exit West: una storia d’amore, migrazioni e porte magiche

La recensione di Exit West, l'ultimo libro di Mohsin Hamid che racconta la storia di due ragazzi alla ricerca di un futuro da scrivere

Marco PontonibyMarco Pontoni
Exit West: una storia d’amore, migrazioni e porte magiche

L'autore di Exit West, Mohsin Hamid (Foto dal suo profilo ufficiale Facebook)

Time: 6 mins read
La copertina del libro Exit West, scritto da Mohsin Hamid

“I romanzi gli piacevano perché trattavano dell’incommensurabile, delle cose che non si potevano esprimere in altro modo”, fa dire Richard Ford al protagonista di un suo racconto. Ed è proprio così, che si tratti di una storia d’amore oppure di migranti e migrazioni, in particolare per tutti quegli aspetti che non possono essere ridotti a semplici statistiche, atti con valore legale, decisioni politiche che hanno come fine l’accoglienza oppure il respingimento. Exit West, il nuovo romanzo di Mohsin Hamid, ci mostra ancora una volta, se mai ce ne fosse il bisogno, che il romanzo è in grado di arrivare laddove spesso non arriva neanche il miglior giornalismo di reportage, in quelle zone di confine (guarda caso!) dove niente è completamente nero o bianco, ammesso o vietato. Insomma, là dove c’è, il più delle volte, la vita vera.

Come avrete capito questo libro parla di rifugiati, ovvero del tema che ha dominato l’estate politica italiana, ma che ritorna continuamente anche nella retorica (se non nelle decisioni) del presidente americano Donald Trump. I protagonisti assoluti sono due ragazzi, Nadia e Saeed, che vivono in un paese molto facilmente identificabile come la Siria. Fin dall’inizio, le cose non sono esattamente come sembrano. Nadia veste sempre di nero, dalla testa ai piedi, ma in realtà non è una musulmana osservante, è la più ribelle dei due, tant’è che abita da sola, e questa scelta gli è costata l’ostracismo della famiglia. Saeed vive con i genitori e ha più fede, anche se ammette di non osservare con regolarità l’obbligo della preghiera. Nadia ha già fatto sesso con un musicista, nel suo monolocale ascolta dischi che presto gli integralisti metteranno al bando e non  pone limiti alla sua navigazione in rete. Saeed passa il tempo a scrutare le stelle con un telescopio che la sua famiglia si trasmette di generazione in generazione, e si concede internet solo per un’ora al giorno. Nadia ordina on line i funghetti allucinogeni per una serata speciale con Saeed. Saeed nel corso dell’esperienza psichedelica si sente traboccare d’amore, di un desiderio di pace “che avrebbe dovuto venire per tutti loro, per ogni persona, per ogni cosa, perché siamo tutti così vulnerabili, così belli (…)”.

Nadia e Saeed sono dunque due ragazzi normali, che vivono in un paese normale. Dove si studia, si lavora, si gira in scooter, e a volte si devono fare scelte un poco difficili come vestire con una lunga tunica nera per evitare di essere continuamente importunate, o un poco coraggiose come contrapporsi ai desideri dei propri genitori, se questo è indispensabile al fine di raggiungere una più profonda conoscenza di sé. Di anormale c’è solo che quel paese sta per essere travolto da una guerra civile.

Ora: come recensore e soprattutto come lettore io sono spesso in disaccordo con chi scrive le quarte di copertina o le fascette che accompagnano i romanzi. Le considero inutilmente roboanti. Anche nella quarta di questo Exit West trovo scritto che è una “sberla emotiva”, e poco importa se in questo caso la citazione sia ripresa da una fonte autorevole, The Bookseller. Il libro di Mohsin Hamid, autore che sembra incarnare davvero la multiculturalità dei giorni nostri (è nato a Lahore, in Pakistan, ha vissuto a lungo negli Usa, e quindi a Londra, ha la doppia cittadinanza pakistano-inglese) in verità non è concepito per scioccare il lettore e non lo prende a sberle. È un lavoro che trasuda piuttosto sensibilità ed empatia (soprattutto nei confronti di chi è costretto ad emigrare, ma non solo).

Una delle scelte narrative di fondo è quella del realismo magico. In realtà però essa non muta in maniera determinante il carattere realista e naturalista del romanzo. Più che altro, serve a saltare un passaggio della ordinaria via crucis dei profughi, quello relativo agli spostamenti. Hamid non descrive le lunghe peregrinazioni dei migranti via terra o via mare, fa comparire delle porte magiche. Per accedere a queste porte, che si trovano ovunque, di solito bisogna pagare, e non si è mai del tutto sicuri di dove conducano. Dopodiché, si entra, e si esce in un luogo del tutto diverso. Nel caso di Nadia e Saeed, prima un’isola greca, Mykonos, poi Londra, ed infine la California. L’espediente funziona. Restituisce in maniera efficace l’esperienza di straniamento che tutti noi abbiamo provato a volte  se abbiamo lasciato, anche solo per pochi giorni, il nostro paese, e siamo stati catapultati da un aereo all’altro capo del mondo, ma che è ovviamente molto più intensa per chi abbandona un paese devastato dalla guerra e si ritrova in un campo profughi o in una casa occupata abusivamente, magari nel cuore di una grande metropoli occidentale. Interessante mi è parsa anche un’altra scelta dell’autore, appena accennata (tanto che forse una gran parte dei lettori non la noterà nemmeno): quella di inserire di tanto in tanto delle “pillole” riguardanti altri viaggi attraverso altre porte, e altri approdi, che annunciano nuove storie.

L’autore del romanzo, Mohsin Hamid

Guardate – sembra dirci in questo modo Hamid – che siamo tutti potenziali migranti, che i confini ormai sono porosi, permeabili. Guardate che sto parlando di due ragazzi, Nadia e Saeed,  in fuga dalla Siria, ma potrebbero essere altro, due sorelle filippine approdate fortunosamente in Giappone, o un nero antillano finito nella Silicon Valley, e così via. Guardate che la realtà è piena di vicende del genere, anche se magari non le si vede immediatamente. Guardate che c’è tanta “normalità” (leggasi quotidiana fatica e quotidiano conforto) anche nelle esistenze più travagliate, più scomode, più marchiate a fuoco dalla cattiva sorte. Ed infatti i due protagonisti di Exit West attraversano, assieme a tutte le vicissitudini di cui abbiamo letto anche quest’estate sui giornali, le varie fasi della loro storia d’amore. Al netto delle difficoltà pratiche aggiuntive e dei traumi che si portano appresso, si tratta di una storia in fondo non troppo diversa da tante altre che hanno per protagoniste persone che non hanno mai dovuto lasciare la loro casa. Una storia fatta di affetto, solidarietà, desiderio (perlopiù tenuto a bada), ma anche di percorsi di crescita personale divergenti, talvolta sofferti, talvolta riconosciuti come necessari. Lentamente le caratteristiche individuali si accentuano. Il legame di coppia si indebolisce. Compaiono altre persone, altre opportunità. La timidezza e il riserbo preludono ad una svolta.

Exit West, già considerato dalla critica internazionale uno dei migliori romanzi dell’anno, ha i numeri per diventare un classico testo per le scuole. La scrittura è veloce, diretta, precisa. Non indulge nella ricercatezza formale, e non eccede mai nei toni, pur non essendo edulcorata. Racconta schiettamente che cosa succede in certi posti quando scoppia una guerra – le stragi, le crudeltà, i corpi martoriati dai proiettili vaganti, le vittime appese ai lampioni come monito – ma va anche oltre, supera la tentazione di fermarsi allo spettacolo osceno della violenza, alla rappresentazione del male. Descrive molto bene come una guerra civile – ma potrebbe anche essere una dittatura, un nuovo fascismo – si insinui lentamente nella vita quotidiana delle persone, che continuano a tirare avanti come se niente fosse, che fino all’ultimo si convincono che tutto si aggiusterà. Si sofferma anche sull’eterogeneità della popolazione dei campi profughi , sulla convivenza forzata di persone    accomunate dal medesimo status, ma anche tutte diverse: qualcuno, come Saeed, viene infine risucchiato nell’orbita dei suoi connazionali, qualcun altro, come Nadia, se ne allontana ancora di più.

Exit West seduce come ogni romanzo di formazione, nonostante i protagonisti siano un poco oltre la soglia dell’adolescenza (ma ormai sappiamo che l’età della giovinezza si allunga fin quasi ai quarant’anni). È anche un libro che non evoca un futuro distopico, che lascia spazio se non alla speranza (parola ingombrante per uno scrittore) quantomeno ad un cauto fatalismo. Ricordo cosa scrisse un altro scrittore angloasiatico, Salman Rushdie, quando uscì il film Gangs of New York: la visione proposta da Scorsese dell’incontro-scontro fra genti diverse era certamente funesta, le bande create dai diversi flussi migratori si affrontavano per le strade della metropoli a colpi di coltello, eppure alla fine, da quegli eventi, o perlomeno anche da quegli eventi, era nata la New York di oggi, una città-faro, un simbolo incontestabile della ricchezza della società multiculturale.

Dal mio punto di vista, anche Exit West giunge alle stesse conclusioni: le vicende politiche e i percorsi personali – così strettamente intrecciate le une agli altri –  producono il più delle volte risultati originali, imprevedibili. Tant’è che persino quando infine un lavoro i profughi lo hanno trovato – e con un po’ di pazienza prima o poi arriverà una casa vera – decidono di non fermarsi, di partire ancora. Nulla è regalato, a chi cerca in Occidente salvezza e redenzione. Ma nemmeno la tragedia è scontata. E alla fine, forse, nella stessa patria che ci si è lasciati alle spalle, la patria contesa, la patria devastata dalle bombe e dalle pulizie etniche, potrebbe sopraggiungere la pace, in qualche modo, in qualche forma. Lo abbiamo visto in Europa dopo due guerre mondiali. Lo abbiamo visto più recentemente nei Balcani.

Il libro sembra dirci insomma che dobbiamo accettare questa parte di incertezza e di sorpresa, che il mondo globalizzato e pieno di porte trascina con sé. Dobbiamo accettarla come accettiamo il passare del tempo, perché nei confronti del tempo siamo tutti migranti, tutti abbiamo abbandonato alle nostre spalle ciò che un tempo eravamo, le nostre vecchie certezze, i nostri vecchi abiti, e siamo diventati altre persone. Il futuro non è scritto. In fin dei conti, uno dei grandi miti fondativi dell’Occidente cristiano (pur essendo stato concepito in Medio Oriente) si fonda su un viaggio; si fonda su una piccola-grande migrazione, che conduce due coniugi non ricchi e non troppo avvezzi alle cose del mondo in una stalla o una grotta, dove lei, incinta, dà alla luce un bambino che sarà chiamato messia. Ma che in quel momento lì è solo un neonato senza forze né poteri, adagiato in una mangiatoia, adorato da pastori.

Mohsin Hamid, Exit West, Penguin Books Ltd/Einaudi, 2017 (trad. italiana di Norman Gobetti).

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Marco Pontoni

Marco Pontoni

Sono nato in Sudtirolo 50 anni fa, terra di confine, un po' italiana e un po' tedesca. Faccio il giornalista e ho sempre avuto un feeling per la narrazione. Ho realizzato video e reportages sulla cooperazione allo sviluppo in varie parti del mondo. Finalista al Premio Calvino, ho pubblicato il romanzo Music Box e, con lo pesudonimo di Henry J. Ginsberg, la raccolta di racconti Vengo via con te, tradotta negli USA dalla Lighthouse di NYC con il titolo Run Away With Me. Ho da sempre una sconfinata passione per gli autori americani, Lou Reed, l'Africa, la fotografia, i viaggi e camminare.

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