Alla fine la 71 esima edizione del premio Strega l’ha vinta Le otto montagne, come da previsioni della vigilia. Il libro di Paolo Cognetti, autore che oltre alle Alpi italiane (valdostane in particolare) ama molto anche New York, al punto di averle dedicato due guide, con 208 voti ha ampiamente surclassato l’altra favorita, Teresa Ciabatti, che con il suo La più amata si è fermata a 119 voti. Più staccato il resto della cinquina, Wanda Marasco con La compagnia delle anime finte (87 voti), Matteo Nucci con È giusto obbedire alla notte (79 voti), Alberto Rollo con Un’educazione milanese (52 voti). Quindi ci avevamo visto giusto anche noi della Voce, che avevamo classificato questo libro “romanzo italiano 2016”.
Quest’anno il premio intitolato al liquore di Benevento, istituito nel 1947 (per la cronaca, la prima edizione la vinse Ennio Flaiano con Tempo di uccidere, indimenticabile romanzo ambientato nel Corno d’Africa durante il colonialismo italiano) è stato caratterizzato da alcune novità, fra cui il numero dei votanti, saliti a 660, compresi 200 studiosi e intellettuali italiani e stranieri scelti dagli Istituti Italiani di Cultura all’Estero. Spesso il premio si trascina dietro uno strascico di polemiche e probabilmente succederà anche stavolta. Del resto in Italia è abbastanza facile che un autore appena ottiene successo, specie all’estero, venga impallinato dai suoi colleghi e dalla critica. Ma lasciamo andare.
Cognetti non è il solo ad avere raccontato la montagna, in epoca recente. Basti pensare a Carmine Abate, Francesca Melandri, Carlo Nicolussi Golo, Mauro Corona, Erri De Luca, Joseph Zoderer.
Il suo romanzo ha tre punti forza, non necessariamente assenti nelle opere degli autori che ho citato, ma forse non così sapientemente dosati: l’equilibro e la compostezza del linguaggio, il fatto di raccontare la montagna di oggi, non quella del passato (in particolare delle due Guerre mondiali, il che gli evita il confronto con autori come Rigoni Stern o Lussu), il messaggio “universale”.
C’è chi ne ha parlato appunto come di un’opera studiata a tavolino, “fabbricata” per diventare un classico. Non è così: lo si sente girando ogni pagina che Cognetti sa di cosa scrive. Di “…un posto abbandonato, dimenticato e distrutto, in molti casi dalla città”, come ha dichiarato alla consegna del premio.
A chi scrive importa poco o nulla del personaggio, ovvero che Cognetti abbia scelto di vivere per alcuni mesi all’anno a New York e per il resto del tempo in una baita in montagna. Spesso gli autori “montanari” si espongono al rischio di sembrare delle macchiette, e spero che lui se ne terrà alla larga. Mi importa un po’ di più della montagna, questo sì. Che non è certo uno sfondo, nel romanzo di Cognetti (come lo è stato a volte in altre narrazioni, anche pregevoli, mi viene in mente ad esempio La signorina Elsa di Arthur Schnitzler).
La montagna in questo romanzo al contrario è una protagonista a tutto tondo. Non è né la montagna epica o tragica raccontata dagli alpinisti (Krakauer su tutti), né quella bucolica o “a la Shangri-La” che a volte compare anche al cinema o in tv (non so se i lettori americani conoscono la serie Un passo dal cielo, in Italia popolarissima). E’ la montagna che sta sul versante meno fortunato, “a rischio povertà”, per usare il linguaggio della sociologia, quella che non viene presa d’assalto dagli sciatori. Non si pensi però ad una storia decadente. Qui non si parla dei paesi che muoiono, non ci si strappa le vesti per chi sceglie di emigrare in città. Su Le otto montagne spira un vento ruvido – questa sì una qualità autenticamente montana – che lo preserva da patetismo, e anche dall’eccessiva esposizione ai buoni sentimenti.
Eviteremo qui di entrare nel dettaglio della trama, anche se ormai il rischio spoiler è lontano, perché ne avevamo già parlato all’epoca dell’uscita del libro. Solo qualche accenno: la storia ruota attorno ad un’amicizia maschile, fra un ragazzo di città e uno di montagna, un’amicizia fondata più sul fare che sul parlare (niente enunciazioni memorabili in questo romanzo, niente dialoghi shakespeariani). Ma ruota anche attorno allo scorrere del tempo e al rapporto fra i padri e i figli. La montagna, dunque, così come viene vissuta da due diverse generazioni di cittadini: il padre del protagonista, innamorato delle vette, che lascia le firme sui libri di cima, il figlio che ad un certo punto prende una sbandata per il climbing, un po’ anche per ribellione generazionale, e poi va in Nepal a scoprire “altre montagne”, senza dimenticare la madre, che rimane a quote più basse, dove c’è bosco e quindi fiori, frutti, vita. Accanto alla montagna vissuta come fuga estiva, come un approdo per cittadini in debito d’ossigeno, abbiamo poi la montagna di un montanaro che non conosce altra dimensione se non quella verticale, e la sposa pervicacemente, anche se avrebbe l’opportunità di lasciarla. Fino alle estreme conseguenze, e all’estrema solitudine (quante volte ho sentito che non si può veramente vivere da soli in montagna, perché in un ambiente ostico, difficile, bisogna unire le forze. Eppure la montagna attira e forma i solitari). Si parla inoltre della montagna lentamente riscoperta da chi ristruttura un rudere addossato ad una parete di roccia (un maso, uno stavolo, o una casa da mont) accogliendo l’ultimo desiderio di una persona cara, un desiderio che evidentemente contiene un insegnamento. E quindi di una sfida bella e poco profittevole, buona per persone incapaci di adattare la vita alle logiche “minime” del profitto (e a quelle delle responsabilità familiari). Solo che in definitiva il cittadino ha una via d’uscita, può reinventarsi documentarista, girare filmati sulla cooperazione allo sviluppo. Chi rimane in montagna, anche quando nevica, quando vengono giù le valanghe, deve essere pronto a tutto.