I sorrisi sono aperti, dignitosi, accesi, i visi sono segnati dai troppi anni senza un sole pieno ma sono puliti, curati, distesi quasi. Le barbe sono rase, precise oppure portate lunghe ma curatissime, così come le sopracciglia. E poi gli occhi, quei famosi specchi dell’anima che non possono mentire. Sono bassi, fuggivi, ma vispi, curiosi, rispettosi. Guardano senza scrutare, con eleganza azzarderei. Le mani stringono le nostre, le mie. Sono strette cordiali ma vigorose, qualcuna è un po’ meno sicura, un po’ meno sfrontata ma sincera. Le sedie su cui prendono posto a mò di piccolo pubblico sono quelle delle scuole dei bambini, troppo piccole per degli adulti. Io sono seduta di fronte a loro che intanto si sono disposti in semicerchio, per vedere bene, per farsi vedere meno.
Li conto: uno, due, tre, quattro… otto, nove… 11. Sono 11. Hanno un’età variabile: il più anziano avrà 65 anni, il più giovane, una trentina: è più giovane di me. Mi siedo su una scrivania, scomoda e troppo grande per quella stanzetta piccola con le pareti tinteggiate da poco, di un grigio chiaro. Sul mio lato sinistro ci sono dei banchetti, qualcuno ci prende posto: sono scomodi quasi più delle sedie. Sullo stesso lato c’è una finestra alta da cui entra un sole caldo che mi fa sudare: non so se è la temperatura esterna o ciò che c’è dentro la stanza con la porta blindata, a farmi sentire caldo. Alla finestra c’è un reticolo di ferro: sarebbe impossibile toglierlo. Il ragazzo seduto sul banchetto si scosta per non colpire l’anta di ferro e il suo ginocchio sfiora il mio. È lui a ritrarre immediatamente il suo. Provo a sistemarmi alla meglio su quella scomoda scrivania, accanto a me c’è Federica, l’altra autrice, mentre Samuele, il vero motore di tutto questo ci presenta al pubblico con il suo tono affabile e sempre coinvolgente. Io intanto provo a guardare i visi degli uomini che mi ritrovo davanti. Sto per scivolare dalla scrivania e mi risistemo meglio e vedo che dietro di me c’è una copia del mio libro, “Single per legittima difesa”: è il mio libro nel senso che l’ho scritto io, è uscito a settembre scorso. Ed è per il mio libro che mi trovo nel padiglione di massima sicurezza “Avellino” del carcere di Poggioreale di Napoli.
Quelli seduti sulle sedie scomode di prima, sono detenuti, Samuele è il presidente dell’associazione la Mansarda che cura il progetto “Liberi di pensare”, grazie al quale chi vive da recluso può evadere… leggendo. Mi accorgo che molti di loro hanno tra le mani una copia del mio libro e mi guardano, quando io non guardo loro, aspettando il loro turno per farmi una domanda. Chiara, una delle volontarie del progetto, nonché mia cara amica, mi ha anticipato la portata dei loro interrogativi: “Nù, sappi che ti chiederanno se sei lesbica”, mi ha detto al telefono prima di entrare in quella zona così blindata, dopo aver posato i cellulari, consegnati i documenti, passato i controlli e ritirato il pass “visitatori”. Rido: chissà che mi aspetta, penso. Un saluto veloce al direttore del carcere, persona affabile e giusta, l’ho intervistato un po’ di volte e credo se ne sia ricordato. Ho attraversato 4 o 5 cancelli prima di arrivare dove mi trovo ora: a tutti c’erano delle guardie, tutte sorridenti e decisamente cordiali. Chissà se perché affabili loro o perché bionda io. Ci sono già stata in carcere, sempre per le iniziative di Samuele ma mai in questa zona di massima sicurezza, qui non si può entrare. Si sente che è diversa: ci sono molte più guardie penitenziarie, le celle sono chiuse, ci passo davanti e cerco di scrutarne l’interno mentre arrivo a quella in cui mi trovo adesso ma non ci riesco: intravedo a stento un’infermeria e una tv con una scrivania in una stanzetta ma credo sia la stanza delle guardie.
Intanto Samuele ha smesso di parlare e mi ha chiesto di prendere parola per spiegare il mio libro: lo faccio come faccio sempre, da mesi oramai. A volte ho la sensazione di non averlo neppure scritto io per quante volte ne ho sentito parlare gli altri. Cerco di spiegare che è un libro ironico, che il titolo trae in inganno e che in fondo è un libro che parla di coraggio, del coraggio di amare e di stare assieme a qualcuno perché lo si vuole e non per la paura di restare da soli. Chissà in quanti ce l’hanno quel coraggio che sono felice di avere io, penso tra me e me. Mi guardano attenti, molto attenti: temo di aver parlato troppo bene, abituata come sono a stare attenta alla dizione. Allora ci butto dentro qualche intercalare alla napoletana, tipo quando spiego che tutto nasce da post su Facebook che poi sono diventati i capitoli del libro che racconta dei maschi e dei loro approcci improbabili con le donne al giorno d’oggi e che io quei post continuo a scriverli “Pecchè nun è cagnat nient’, anzi, è peggiorato se è possibile”. Cerco di dar loro il tempo di capire prima di riempirli di altre parole. Poi passo la palla a Federica che parla del suo libro. Accanto a lei ci sono Chiara e un’altra volontaria, Rosaria. Intanto Samuele ha preso posto in mezzo ai detenuti. Ne riconosco qualcuno: sono i protagonisti delle cronache che ho raccontato nel mio tg. Sono loro. Che strano trovarmeli di fronte. Sembrano così “normali”: uno ha dato fuoco alla ex compagna incinta della loro bambina. Ma lei si è salvata. Un altro ha imboccato volontariamente la tangenziale contro mano. In macchina c’era la sua fidanzata: non si è salvata.
Federica smette di parlare. Iniziano le domande a Federica: il suo libro parla di violenza sulle donne, ma loro non l’accettano. Loro le donne e i bambini non li toccano: caso chiuso. Non tutti, è chiaro. Quelli che le toccano o le hanno toccate restano zitti. Poi passiamo a me. Hanno letto il libro. Sono preparati. Ecco la prima domanda: “Sei lesbica?”. Chiara mi aveva avvertita: “No”, rispondo, “magari! Se lo fossi, avrei risolto metà dei problemi della mia vita! E invece morirò tradizionalista!”. Me l’ero preparata e loro hanno apprezzato la battuta. Poi le domande diventano sempre più serrate: “E perché l’hai lasciato se tuo marito era perfetto?” Eh, bella domanda… Perché era perfetto, ma non per me. Ecco. “Ma abbiamo un ottimo rapporto: mi ha fatto la copertina del libro!”. Non ci siamo mai traditi, preciso. Loro mi guardano e accennano un sorriso: “Ma qui nessuno tradisce!”. Le chiacchiere aumentano sempre di più, le domande si accavallano… Uno alla volta, sennò non vi capisco. Se ho paura dell’amore? Chi non ne ha? No, non sono fidanzata. Sì, bhe, sono corteggiata, cert… cosa? No, vabbè, ma quello che ha fatto cilecca non era timido: era altro, fidatevi! “Ma lei li spaventa agli uomini, quelli sono timidi!” Eccerto, mó la colpa è mia. Oramai è diventato un botta e risposta. Parliamo di calcio, r’ó pallon, del Napoli. No, non posso stare con un non tifoso o peggio con uno juventino! Ridiamo, scherziamo. Nessuna battutaccia, nessun doppio senso. Niente.
Ma dove va Chiara? Ah, ti avvii. Ok. E Samuele? Esci anche tu? Siamo rimaste in tre. Tre donne. E loro sono 11. Quasi 4 a testa. Se ci facessero qualcosa, se ci saltassero addosso, se ci aggredissero insomma, con la porta blindata chiusa, non ci sentirebbe nessuno. Ma è un pensiero che dura solo un attimo perché in realtà, non mi sento per niente in pericolo: sono nel padiglione di massima sicurezza del carcere maschile di Poggioreale, dove i reati sono di quelli gravi, pesanti, omicidi… eppure, mi sento salva. Al sicuro. Ora parliamo di amore. E di fedeltà. Loro amano e sono fedeli. Lo dicono come se si potesse non essere fedeli in un carcere come questo. Lo dicono così perché per loro la fedeltà è una scelta. Loro amano, dicevo ed è così naturale. Mi raccontano le loro storie, fatte di vita, di speranza, di coraggio. Di chi si è trovato a malincuore a dover scegliere tra una moglie e un figlio e la donna di cui si era innamorato. Parlano d’amore senza paura, come se non fossimo qui dentro. Mi chiedo come sia possibile: questi uomini non hanno la libertà ma sanno amare. E io ne conosco a decine che hanno la libertà, ma di amare non sono capaci. Quello in bilico tra figlio e amante, conclude la storia: alla fine ha scelto l’amore, anzi: “Alla fine non ho potuto farne a meno: è stato lui a scegliere me”, mi confessa. Eh, già. In fondo le storie di chi è dentro non sono poi così diverse da chi è fuori. Guardo ancora una volta il mio libro tra le loro mani: non avrei mai pensato di far compagnia a dei detenuti. Mi fa così strano: chissà cosa avranno pensato leggendolo. Chissà cosa pensano ora di me. Uno di loro è simpatico e me lo dice cosa pensa: ha adorato il mio libro, lo ha fatto ridere. Cita a memoria versi di opere e scrittori, famosi e non. Lo ammetto: di qualcuno non avevo mai sentito parlare. Quanto è colto. È evidente che ha tanto tempo per leggere, per studiare qui dentro. Lo chiamano “il filosofo”. Mi chiedo cosa avrà fatto. Qualche ora dopo sarà Chiara a togliermi la curiosità: ha sciolto il fratello nell’acido.
Intanto, ritorna Samuele: bhe, l’ho detto, mi sentivo sicura anche prima. Dobbiamo andare? Già? Ma quanto è durato questo incontro? Stiamo già da un’ora? È volato il tempo. Lo dico sempre che il tempo è relativo… Senza smartphone poi, non riesco nemmeno a misurarlo. C’è il tempo per un’ultima domanda, la voce arriva dal fondo, alla mia sinistra. È una voce ferma, decisa. Parte e arriva fino alla fine. Faccio per cercare anche gli occhi di quella voce. Li trovo. Ora ascolto: “Ma lei li può aspettare 8 anni? Il tempo che esco, poi la corteggio io”. L’ha fatta tutta intera la sua domanda. Senza pause. Rido. Di cuore. Ride anche lui. Ha un bel sorriso. Ha 41 anni. Chissà quanti ne ha trascorsi aspettando di scontare la sua pena. Chissà qual è stato il suo sbaglio. Chissà se lui si è perdonato. Gli sorrido: “Vediamo, dai”. Vorrei rispondergli che spero di non essere ancora single tra 8 anni. Ma posso anche non dirlo. Si alzano tutti. Ci alziamo tutti. Si avvicinano. Stringo mani. Di nuovo. Quelli che hanno il mio libro mi chiedono la dedica: “A chi è la dimostrazione che gli uomini esistono”, scrivo ad uno di loro. “A chi ha capito che l’unica soluzione è l’amore”, metto nero su bianco ad un altro. Mi ringraziano. C’è ancora qualche minuto, mi fermo a parlare con loro: uno ha 31 anni, e un figlio di 12. Il calcolo è veloce: lo ha avuto a 19 anni. Un ragazzino. Lui coglie il mio stupore e lo raddoppia: “Eh, mia moglie ne aveva 14”. Ok, non mi stupisco più. “Sto dentro da 8 anni, mi sono perso il meglio. Ma tra 4 mesi esco”. Gli dico che ha ancora una vita davanti e c’è ancora tanto da non perdersi. Interviene un suo compagno: “Io ho 34 anni. Me ne mancano 16”. Anche qui il calcolo è facile: uscirà a 50. “Ho tre figli. A 50 anni sarò ancora giovane”. Direi che questo è ottimismo. Sento ancora un’altra voce, è quella del più anziano: “Ma lei la conosce …?”. Mi fa il nome di una collega giornalista. La conosco. Brava ragazza, sempre gentile. “È mia nipote”, sorride orgoglioso, “è la figlia di mia sorella! Me la saluta?”. Sì, certo, con piacere: Dobbiamo andare? Per forza? Ok. “E non li metta i tacchi allo stadio”, mi dice un’ultima voce indicando i miei décolleté: “Ma io ci ho incontrato Enzo Miccio allo stadio con i tacchi!”, preciso. E lui: “Lo so, lo hai scritto nel libro”. Cavolo è vero: l’ho scritto nel libro.
Li guardo velocemente un’ultima volta. Sorrido. Esco. Andiamo via. Mi giro un’ultima volta: il mio “promesso corteggiatore” mi sta guardando sul ciglio della porta: “Allora mi aspetta??”, mi urla. Rido: “Va bene! 8 anni: ma non un giorno di più!”. Sorridiamo. Non ci rivedremo mai più. Ma sorridiamo. Volto le spalle. Esco. Respiro profondamente mentre riattraverso tutti i cancelli che mi riportano alla mia vita. Alla mia libertà. Ma in quelle poche ore ho capito che la libertà non è non avere sbarre attorno: la libertà è averla dentro, avere dentro il coraggio, la speranza, l’ottimismo, e perché no? L’amore. A quei detenuti del carcere di Poggioreale ho parlato del mio libro. Ma in realtà, e senza mai giudicarla, ho ascoltato da loro più vita di quanta ne abbia mai detta io. Nemmeno per un attimo ho pensato di essere in un carcere. Nessuno di noi lo era in quel tempo trascorso insieme.
A volte la galera non è in una cella di un penitenziario di massima sicurezza. A volte la galera è quella che ci imponiamo da soli quando smettiamo di credere, di amare, di scegliere. Quando smettiamo di vivere. E per quella galera non c’è pena da scontare che basti ad uscirne. Esco da quel cancello: il sole mi scalda il viso. Torno al mio Mondo libero. Ma sorrido: grazie, uomini che non siete semplicemente “maschi”. Grazie di cuore per quanta emozione mi avete ricordato di saper provare.
Nunzia Marciano, napoletana, giornalista tv di Canale 8, è l’autrice di Single per legittima difesa, AlessandroPolidoroEditore, 2016