Cinquant’anni di scrittura appassionata e infaticabile. Questo l’oggetto di Writing Like Breathing, l’evento dell’Istituto italiano di cultura di New York che ha visto come protagonista Dacia Maraini: narratrice, poetessa, e voce disobbediente della coscienza collettiva del nostro paese.
La conversazione, ospitata lo scorso 21 Febbraio, è stata introdotta da Giorgio Van Straten, direttore dell’Istituto di Park Avenue e co-direttore, insieme alla Maraini, della rivista letteraria Nuovi argomenti.
A moderare l’evento, che coicide con la pubblicazione da parte di Listlab di una antologia dell’autrice, è Jane Tylus, professore di italiano presso New York University. Beloved Writing, questo il titolo della raccolta, rappresenta una sorta di diario della vita e della carriera di Dacia Maraini. All’antologia letteraria si uniscono foto, ricordi, oltre a opere mai pubblicate per l’editoria italiana.
Ma a raccontare il libro alla sala gremita nella Upper East Side è l’autrice stessa, incalzata dalle domande della Tylus. Ha parlato del suo scatto che ritrae Pier Paolo Pasolini e Maria Callas su una spiaggia del mediterraneo o ancora di un suo foto-ritratto degli anni settanta sulla 42esima strada.

Ma il resoconto di questa vita straordinaria, come suggerito dal titolo, non può prescindere da quello sul mestiere di scrivere. “Come un direttore d’orchestra coi suoi strumentisti, così è lo scrittore coi suoi personaggi: essi tendono a prevaricare i propri autori…o autrici!” precisa Maraini.
Sulla politica e sul mondo Dacia Maraini parla ancora vispamente di “fumetizzazione” del dibattito pubblico. Commenta l’elezione di un Donald Trump fatto di paiette, sgargiante e pacchiano quanto i negozi di paccottiglia che hanno fagocitato le strade della sua New York. Del resto, precisa l’autrice, “l’essere impegnata appartiene alla mia identità di scrittrice”.
L’autore, continua Maraini, ha il dovere di esprimersi sul mondo e sulla società. Non perché sia più intelligente della donna o dell’uomo comune ma poiché, in quanto maestro della parola, sa dare voce ai fenomeni che ci circondano. La voce pubblica dell’autore, secondo Maraini, è necessaria perché in grado di trovare le parole giuste – e l’ermeneutica – per capire la realtà.
Il pubblico è incantato dalla grazia dell’ottuagenaria. Sa divertire senza mai scadere nel cliché italianucolo, ma soprattutto riesce a insegnare e commuovere. Parla dei giovani che le chiedono di leggere le proprie bozze. “Sembrano tutti terrorizzati dal plagio” racconta divertita “ma non si può rubare uno stile! Anche in Grecia tutti conosceva la storia di Antigone ma soltanto lo stile di Sofocle è stato in grado di renderla immortale”.

Parla ancora di identità la bambina cresciuta a Tokyo, masticando lo slang delle sue compagne di classe, e trapiantata in Toscana dopo la guerra. Racconta della sua infanzia di principessa Siciliana che ha conosciuto la fame — insieme alla prigionia dei genitori — nel giappone fascista di Hideki Tojo. La sua – ribadisce la Maraini — è un’identità da nomade. Ereditata dalle sue origini Inglesi, Cilene, Svizzere e Siciliane. Ma questo passato poliedrico, continua l’autrice, non va abiurato come pensano in molti: “avere più identità è possibile. É anzi una ricchezza”.
Concludendo la conversazione, Dacia, infaticabile, parla del suo ultimo progetto: L’atto unico “Una pittrice di provincia” scritto per l’inaugurazione del centro culturale italiano Italytime, sotto l’egida di Vittorio Capotorto. L’opera teatrale, in anteprima mondiale sabato 25 Febbraio all’indirizzo di Carmine Street, trae spunto dal lavoro della pittrice Lisa Zaccaria. Protagonista della piece è Rosa, pittrice italoamericana e, insieme, prodotto della società dei consumi. Nell’opera, l’artista — una volta raggiunto l’insperato successo — verrà schiacciata dalle esigenze di un mercato dell’arte predatorio e di un’industria culturale deumanizzante.
E dopo l’incanto di questa conversazione all’Istituto italiano di Cultura, Dacia Maraini ha gentilmente risposto in esclusiva alle domande de La Voce di New York.
Dacia Maraini, ospite ricorrente e amatissima di questa città. Qual è il Suo rapporto con la comunità italiana di New York?

“Torno spesso a New York e sono innamorata di questo posto. Tuttavia, devo riconoscere che a invitarmi qui sono quasi sempre le università americane. Sembra ci sia più curiosità per l’Italia di oggi da parte del mondo accademico statunitense e questo mi dispiace. Probabilmente una parte della comunità italiana è più legata al repertorio culturale del passato e alle tradizioni del nostro paese. A questo proposito sono felice di partecipare al progetto teatrale di Vittorio Capotorto. Il suo entusiasmo è trascinante e spero riuscirà a coinvolgere la nutrita comunità italiana di questa città”.
Beloved Writing, il suo ultimo lavoro, oltre a essere un’antologia dei Suoi scritti rappresenta un omaggio alla Sua carriera. Nel ripercorrere 50 anni di storie, qual è, secondo Lei, il ruolo della memoria oggi?
“Come mi ritrovo a ribadire spesso, la memoria è la nostra coscienza collettiva ed è doveroso perseguirla e diffonderla. Senza di essa siamo dei vegetali. La memoria è un patrimonio che ci impedisce di ripetere gli errori del passato e, insieme, rappresenta uno slancio verso quello che verrà. Sono convinta che per avere memoria bisogna credere nel futuro: le due cose sono legate indissolubilmente”.
L’evento si e concluso con una nutritissima fila di ammiratori, in attesa di dedica sulla propria copia di Beloved Writing. Tra gli ultimi della fila una ragazza stremata e sorridente finisce per chiedere, imbarazzatissima, alla sua autrice: “Ma lei non è stanca?” – “Veramente no”.