Nelle isole estreme di Amy Liptrop racconta una vicenda autobiografica, di caduta e “rinascita”, ma lo fa da una prospettiva particolare: quella delle isole Orcadi, arcipelago al largo della costa nord della Scozia. E’ qui che l’autrice è nata, in una fattoria affacciata sulla scogliera, a strapiombo sull’Atlantico.
La sua famiglia, in realtà, ha origini inglesi, il che in Scozia non equivale necessariamente ad un vantaggio: il padre è di Manchester, la madre è cresciuta in una fattoria nel Somerset. Entrambi hanno creduto, ad un certo punto della loro vita, di trovare ciò che cercavano lassù, quasi in cima alla carta geografica, in quelle isole senza alberi spazzate dal vento. La figlia, Amy, ha ereditato un po’ della loro inquietudine, che la porterà però a viaggiare nella direzione inversa. Chi cresce in un luogo così periferico, nutrendosi di riviste e vaghe aspirazioni artistiche, spesso desidera andarsene, raggiungere il centro delle cose. Lei lo fa molto presto, assieme al fratello, scegliendo, naturalmente, Londra.
La prima parte di questo libro scritto in prima persona, quasi senza dialoghi, a dispetto delle regole auree dell’editoria, racconta la sua esplorazione dell’universo metropolitano: giri “alternativi”, sballi di vario genere, lavori e residenze precarie, amori che naufragano. Il tutto alimentato da una fame di vita e da un desiderio di forzare i limiti che l’autrice non rinnega mai. Ma che si scontra, ad un certo punto, con una fatale dipendenza: l’alcol.
La seconda parte, è dedicata al post-rehab, alla ritrovata sobrietà, con tutte le prospettive che essa dischiude. Nelle isole estreme è il titolo scelto dall’editore italiano, cercando un’evidente assonanza con un titolo assai più celebre, quel Nelle terre estreme di John Krakauer, che racconta la storia del giovane Christopher McCandless, morto in Alaska, dove aveva inseguito la wilderness. In realtà il titolo originale è Outrun, termine, spiega l’autrice all’inizio del libro, che designa “i pascoli incolti più lontani, spesso sulle pendici collinari. In passato a volte l’outrun veniva usato come pascolo comune di diverse fattorie. E’ il campo più distante dalle case, domato solo in parte, in cui convivono animali domestici e selvatici, mentre gli esseri umani ci vanno di rado, per cui gli spiritelli sono liberi di girovagare”.
Dopo un periodo di disintossicazione, Amy Liptrop fa dunque ritorno a casa, e all’outrun. Sono passati più di 10 anni da quando l’ha lasciato per iniziare l’avventura londinese. E’ ancora insicura, sa di essere un’alcolista, sa che per certi versi lo rimarrà per il resto della sua vita (nel senso che non riuscirà mai a bere “con moderazione”). Il suo dovrebbe essere un viaggio breve, solo un break dalla vita londinese, ospitata in parte dal padre e in parte dalla madre, da tempo separati. Il suo arcipelago questa volta la cattura.
La seconda parte del libro è dunque la più particolare. L’autrice, che ama la non-fiction, i testi paragiornalistici come quelli di Naomi Klein, si addentra nella descrizione del mondo remoto delle Orcadi, che le appartiene fin dalla nascita, ma che non ha mai esplorato fino in fondo (come spesso facciamo con quello che abbiamo sotto il naso). E’ in fondo una sorta di diario. Potrà annoiare chi non è interessato all’argomento. Appassionerà invece chi ama immergersi in panorami e suggestioni “altre”, tratteggiate con delicatezza poetica ma senza melensaggini. Appassionerà anche chi ama sentire nella scrittura il “battito” della verità, come il pulsare di una vena sottopelle.
Come sono le Orcadi? Abbiamo scritto remote, però fino ad un certo punto. Non sono l’Alaska priva di esseri umani, il Denali park in cui McCandless trova una morte solitaria. Per quanto lontane dall’universo cangiante delle streets e dei locali di Londra, o di New York, o di qualunque altra città moderna, sono isole abitate, almeno in parte, isole in cui l’uomo fin dalla preistoria ha lasciato segni evidenti. Liptrop li descrive con amore: fattorie e siti archeologici, muretti a secco e pescherecci incagliati sugli scogli, circoli di pietre, pale eoliche, campi di orzo, minuscoli aeroporti (una tratta delle Orcadi, che congiunge 2 isolette, Westray e Papay, vanta il record della più breve al mondo: meno di 2 minuti dal decollo all’atterraggio).
Ci sono anche, soprattutto sulle isole minori dell’arcipelago, interi villaggi abbandonati, casa solo dei fantasmi, perché vivere in luoghi così non è facile, comporta delle rinunce a volte insostenibili, spinge ad andarsene, quantomeno nella capitale Kirkwall, una cittadina vera e propria (circa 8.500 abitanti, su Mainland, l’isola principale). Perciò, dice l’autrice, che non disprezza le tecnologie, ben venga Internet, ben venga tutto ciò che riduce il senso di isolamento. Lei stessa ne fa largo uso, per imparare a riconoscere le stelle, per documentare le sue passeggiate e nuotate nelle acque gelide del Mare del Nord, per ricavarne, infine, un poco di gratificazione, consapevole del fatto che le dipendenze sono molteplici, che esiste anche una dipendenza da like o da email.
Dove l’uomo arretra, subentra la natura: uccelli marini di ogni genere; foche e balene, le cui ossa venivano un tempo usate per costruire le abitazioni dei primi coloni, al posto del legname; nuvole su cieli sempre in movimento; il mare in fondo alla scogliera, instancabile, presente. E quel suono sordo, che il padre sentiva, quando era piccola, che poi ha cominciato a sentire anche lei, un suono che forse proviene da qualche grotta o cavità sotterranea, scavata dalle onde, o da un poligono militare non molto distante, sulla terra ferma, dove si possono far esplodere “robe grosse”. Magari una eco del Checov del Giardino dei ciliegi, anche lì un rumore di incerta provenienza, come di una corda che si spezza. O un’avvisaglia dei propri sommovimenti interiori, un borbottio di demoni che è meglio rimangano chiusi dentro i loro nascondigli.
La natura delle Orcadi descritta in queste pagine non è idealizzata: gli animali vengono allevati e mangiati, come in tutte le società contadine, e loro stessi sono a volte crudeli con i propri simili, gli uccelli beccano le lingue degli agnelli appena nati, le pecore dopo aver partorito si sdraiano sui piccoli a volte fino a soffocarli. Ma non è nemmeno una natura intenzionalmente matrigna. E’ ciò che è, e l’autrice sta bene attenta a non caricarla di significati impropri. A chi scrive, il suo atteggiamento ricorda quello di tanti montanari delle Alpi. Persone che con la natura convivono, che da essa devono trarre il loro sostentamento. Persone pratiche. A ciò si aggiunge però lo sguardo educato, curioso, di chi scopre e coltiva lungo il suo cammino nuovi interessi (pur senza darsi arie da intellettuale).
Alla fine, in ogni modo, la natura sarà per Liptrop fonte di ispirazione ed insieme di redenzione.
Le pagine dedicate alle sue uscite notturne per il monitoraggio del re di quaglie, una specie a rischio estinzione, o quelle del suo soggiorno invernale a Papa Westray, una delle isole più piccole, con appena una settantina di abitanti, sono, in questo senso, esemplari. In realtà non succede niente di particolare. Ci sono le costellazioni in cielo, la luce che cambia continuamente, ci sono gli occhi di un gufo che compaiono all’improvviso nel buio, ci sono le feste e le abitudini degli isolani, che l’autrice condivide e in parte sente come sue, pur sapendo, laicamente, che chi viene da fuori (o che fuori ha vissuto per molto tempo) è sempre un po’ in bilico fra mondi diversi. Ma, ci dice, l’arrivo su un’isola di un nuovo venuto, anche solo per un soggiorno temporaneo, va considerato comunque una vittoria, sia per l’ospite sia per la comunità che lo accoglie, e che trae beneficio dal ricambio di persone, dal contatto con il mondo esterno.
C’è, infine, in queste pagine, l’approdo ad una nuova maturità e a una nuova forza interiore, di là dagli
innumerevoli postumi di sbronza smaltiti. “Ho trascorso un’infanzia spensierata nella fattoria, nonostante intorno a me imperversassero condizioni climatiche piuttosto estreme: mare grosso e venti fortissimi. Nella vita adulta ho ricreato queste condizioni estreme in altri modi“.
Con la sua opera prima, molto ben accolta, Amy Liptrop ha fatto “il botto”. Vedremo ora se e come la sua fonte di ispirazione saprà rinnovarsi. Noi facciamo il tifo per lei. E ci cerchiamo il nostro volo per le Orcadi.
Amy Liptrop, Nelle isole estreme, Guanda, 2017, trad. Stefania De Franco (titolo originale: Outrun, 2016).